Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da La Nuova Venezia del 5 febbraio 2009

Il grande assalto ai tir della speranza

di Carlo Mion

Patrasso (Grecia). Il sorriso del ragazzo azaro è incorniciato tra due sbarre di ferro della recinzione, che separa il porto di Patrasso dal resto della città. Altri sorrisi e altri occhi guardano, più in là, i traghetti verso l’Italia. Dieci, venti, cinquanta… cento. Chi arrampicato sulla recinzione, chi seduto davanti a un bar, chi cammina in cerca di un varco. Non si contano i ragazzi di «Afghanistan camp» che passano le loro giornate lì davanti nel tentativo di infilarsi in qualche camion dopo aver scavalcato barriere, filo spinato, evitato i controlli della polizia portuale e le manganellate degli agenti.
Tutto il giorno dall’alba al tramonto. Alla luce del sole, nell’indifferenza della città che continua la sua vita che ha imparato a convivere con questa situazione che dura da anni. Ed è qui che inizia l’ultimo atto del viaggio verso l’Europa dei diritti di questi disperati. Viaggio cominciato ottomila chilometri prima.
Sono gli stessi ragazzi che all’arrivo dei traghetti a Venezia vengono trovati sotto ai camion, dentro ai cassoni, nei trailer frigo semiassiderati, svenuti e altre volte morti.
Quei ragazzi aggrappati al filo spinato, quei sorrisi sono il biglietto da visita del Peloponneso di chi sbarca a Patrasso. La città europea della cultura di tre anni fa. Una città che secondo l’organizzazione per i diritti dei migranti Kinissis ospita nelle sue pieghe più nascoste quattromila disperati: afghani, tagichi, uzbechi, magrebini, sudanesi, somali e palestinesi.
Millecinquanta di questi solo ad «Afghanistan camp», una baraccopoli sorta spontaneamente a due chilometri dal porto, a Ekso Aghia sui resti di una bidonville, lasciata dai curdi profughi scappati dalle stragi di Saddam Hussein 12 anni.
E’ un villaggio organizzato, «Afghanistan camp». Ci sono centocinquanta baracche, una moschea, le docce, il barbiere, un bazar, un caffè, un ristorante, un calzolaio e le latrine. Tutto ospitato in baracche di legno, plastica, tende. Gli allacciamenti sono stati fatti dagli stessi ragazzi. In questo momento il più giovane ha 8 anni, il più vecchio 25.
Lì dentro trovi ragazzi che sanno cucire, tagliare capelli, saldare, aggiustare scarpe, cucinare e vendere. Erano barbieri, saldatori, cuochi, calzolai prima di scappare dal loro Paese o dll’Iran dove erano scappati con le famiglie o da soli dopo l’arrivo del Talebani. Qui pastun e azari si prendono per mano come è in uso nel paesi musulmani tra amici. Le mani dei padroni s’intrecciano con quelle dei servi.
Qui sono tutti uguali nella disperazione, nella voglia di continuare il proprio viaggio, di raggiungere «l’Europa dei diritti», come la chiamano loro. Il sogno che li ha messi in movimento, che ha fatto pagare allle loro famiglie, sei, sette e anche diecimila euro per arrivare in Grecia. Ma qui «l’Europa dei diritti» è lontana. Qui l’asilo per motivi umanitari non esiste. Qui la legge sulla tutela dei minori esiste solo sulla carta se almeno duecento dei ragazzi che sono ospiti nel campo non hanno sedici anni e solo al porto di Venezia a gennaio sono arrivati 25 minori. E sono solo quelli scoperti durante i controlli. Il popolo di questi disperati è in crescita esponenziale. Nel 2006 in Grecia ne sono arrivati 12.500, l’anno dopo 25.113 e al 30 agosto dello scorso anno già 29.500.
L’85 per cento arriva in Italia per raggiungere i Paesi europei in particolare del nord e centro Europa e la Gran Bretagna. Per la legge dei numeri è impossibile fermarli. Per di più loro non vogliono rimanere in Grecia. Quindi per le autorità elleniche è un problema marginale e non conviene bloccarli. Sarebbe un costo troppo elevato. Ecco allora che a fronte di quattromila migranti che ogni giorno premono alle entrate del porto per infiltrarsi in qualche camion, ci sono una decina di poliziotti destinati al controllo esterno nelle 24 ore, cinque della polizia portuale e una manciata di soldati all’interno. E sempre per la legge dei numeri passano dopo un lungo rincorrersi tra loro e i guardiani. E’ una sorta di rodeo tra i ragazzi del campo e i poliziotti.
I primi lasciano le loro baracche al mattino. Lasciano lì tutto quello che hanno, l’amicizia degli altri. C’è chi ha giacconi, chi delle magliette, chi indossa sandali, chi scarpe. Il telefonino però ce l’hanno in molti. Sanno quando è il momento, quando partono i sette traghetti che quotidianamente partono per l’Italia. Quando sono davanti al porto iniziano a camminare lungo la recinzione di ferro e filo spinato e costeggiata da binari. E’ un lungo peregrinare, il loro. Un chilometro avanti e indietro in continuazione. A gruppetti di sei o sette, nella spasmodica ricerca di un varco, di un tratto di filo spinato rotto, di un attimo di disattanzione dei guardiani. E poi ecco il primo parte: si arrampica sulle sbarre, oltrepassa il filo spinato e salta giù. Poco più in là altri fanno lo stesso. E poi come quando a Kabul, a Herat o nel nord del loro paese chini correvano per schivare pallottole o schegge di bombe, vanno verso i camion in attesa dell’imbarco. S’infila tra gli assi.
Qualcuno cerca di aprire camion frigo. Non fa in tempo inizia il rodeo, arriva la polizia. Agenti in auto, in moto, in motorino e come mandriani che radunano il bestiame si mettono all’inseguimento dei disperati rimasti senza nascondiglio. Stridore di gomme. Colpi di sirena e clacson e il gruppetto di disperati radunato viene rispedito oltre al filo spinato. Se ci sono occhi indiscreti tutto finisce qui, altrimenti i manganelli, i calci e i pugni fanno la loro parte. Di mani e braccia spaccate ai ragazzini basta chiedere ai medici di «Medici senza frontiere» che lavorano ad «Afghanistan camp». Il rodeo finisce col controllo dei camion dove vengono trovati gli altri. E così per tutto il giorno senza tregua. Chi stanco della battaglia mattutina torna al campo viene rimpiazzato in «prima linea» da altri ragazzini. E si riparte con il rodeo che termina solo verso mezzanotte quando parte l’ultimo traghetto. Solo allora il campo torna tranquillo.
Ci sono dei posti letto vuoti. Qualcuno forse ce l’ha fatta. Il suo sogno continua. O forse è andato incontro alla morte come Zaher, il bambino poeta schiacciato dal tir sotto al quale viaggiava. Per gli altri il sogno si riaccende all’alba.