Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da La Nuova Venezia del 6 febbraio 2009

Il sogno dell’azero Aminy «Saluti a Mestre e Favaro lì ho lasciato il cuore»

di Carlo Mion

Patrasso (Grecia). «You are italian?». Al semplice sì un sorriso dolce
rallegra la faccia da bambola di ceramica del giovane azero. «Da dove
vieni? Roma, Milano, Trieste o Venezia?». Sì, Venezia una parola magica
che apre il cuore di questo ragazzo che vive come tanti altri ad
«Afghanistan camp». La sua mano si tende e stringe quella dell’ospite
venuto a vedere la sua miseria. E mentre il volto diventa ancora più
solare, la stessa mano si appoggia sul cuore. E poi in successione
pronuncia altre parole magiche per lui: «Mestre, Favaro e Rosanna».
Aminy
Khodadad ha 24 anni, scappto in Italia è stato ospite del centro per
rifugiati vicino a Forte Rossariol. Otto mesi che porta nel cuore e che
gli fanno brillare gli occhi quando ne parla. «Tu conosci Rosanna, Rosanna
Marcanto?». E chi non la conosce la Rosanna. «E Barbara, Ivan, Sara. Loro
mi hanno pure insegnato l’italiano» E’ una domanda continua su quelle
persone che hanno rappresentato per il giovane azero il sogno dell’Europa
dei diritti che si stava materializzando. Poi un giorno: «Mi hanno detto:
vai in questura a Marghera, non ci sono problemi, vai tranquillo. E lì mi
hanno preso e portato al porto e caricato su una nave per la Grecia. E
sono tornato qui».
Aminy è uno dei più ascoltati al campo: parla un po’
d’inglese. E con lui il campo si apre ai visitatori. Sono ospiti gli
afghani, gentili e non sono invadenti. Aprono le porte della loro miseria,
della loro speranza e dei loro sogni: «Tornerò, sì. Vengo a salutare e poi
vado in Norvegia. Torno, trovo un grande camion e arrivo», racconta
lentamente Aminy. Il campo è sempre animato, lungo il sentiero principale
sono sistemati banchetti che vendono sigarette e pane ogni mattina. Lungo
lo stesso sentiero ci sono i negozi, il primo è il barbiere. Taglio unico
5 euro. Ma se non li hai bastano anche due euro o uno. Più avanti un
ristorante, un piccolo bazar dove vendono magliette simil Adidas e poi il
calzolaio, poco lontano dalla moschea e dalla tenda di Medici senza
Frontiere. Alla fine del campo, quasi a ridosso di nuovi edifici dove
nessuno vuole acquistare appartamenti, ci sono i resti delle stesse
baracche bruciate a dicembre. «Per fortuna nessuno si è fatto male»,
spiega Aminy. «Questa non è Europa. Qui la polizia picchia. In Italy
polizia good» racconta il ragazzo.
Arriva Amir e mostra una mano fasciata:
«I poliziotti lo hanno picchiato e gli hanno spaccato delle dita», spiega
un dottore di Medici senza Frontiere. «Non è Europa questa», insiste
Aminy. In Iran dove era scappato dopo l’arrivo dei Talebani il giovane
azero vendeva i vestiti. Poi l’inizio del sogno. Due giorni per
raggiungere la Turchia stipato in un camion con altri centocinquanta
disperati. Poi in Turchia il passaggio in gommone per 150 euro fino a
qualche isola del Peloponneso. Per sopravvivere ha raccolto fragole nella
zona di Olimpia, altri hanno lavorato negli aranceti dell’Epiro.
Ma tutto
con il sogno di raggiungere gli scali portuali del Peloponneso, porta
dell’Europa dei diritti. Anche Aminy spesso riprova a partire. A
differenza degli ultimi arrivati, sa quando ci sono le navi con i
comandanti più umani e il momento più adatto. «Camion di arance buono.
Camion di angurie buono. Agosto mese buono, tanti turisti pochi
controlli», dice il ragazzo che guarda il quotidiano rodeo tra i suoi
compagni di sventura e la polizia. «Questo è un gioco, noi scappiamo loro
ci mandano via. Ogni giorno è così. Comunque io vengo, saluta Rosanna».
E
di nuovo il sorriso ritorna ad illuminareb il volto da bambola di
porcellana di Aminy.