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Malta, dove l’Europa incatena l’Africa

di Gilberto Mastromatteo

C’è un’isola al centro del Mediterraneo, che rischia di diventare il paradigma europeo in materia di immigrazione clandestina. Un arcipelago Stato che, negli ultimi anni, ha condizionato e condiziona, suo malgrado, le politiche comunitarie nei riguardi dei sans papier, la taratura dei diritti umani con riferimento alla detenzione, la concessione dello status di rifugiato politico. Stiamo parlando di Malta, l’ex colonia britannica che dal 1° maggio del 2004 è entrata a far parte dell’Unione europea e che dal 1° gennaio dello scorso anno ha fatto il suo ingresso nell’area euro. Circa 400 mila abitanti distribuiti su una superficie di 316 chilometri quadrati. Un piccolo Paese che nell’ultimo decennio ha condiviso con Lampedusa l’emergenza immigrazione dal continente africano. Ma con una particolarità. Quella di essere uno Stato autonomo e per di più uno dei “ventisette”. Dunque con un ruolo che ormai si è fatto di indirizzo per le scelte dell’Unione.
Fino un mese fa, chi sbarcava a Lampedusa aveva la coscienza che, nel giro di poche settimane, sarebbe stato trasferito nei Cpt, o Cda o Cara sparsi sulla penisola. Ma il ministro dell’Interno Roberto Maroni è stato chiaro: dal 2009 l’accordo con la Libia sarà attivo e gli sbarchi caleranno. In ogni caso, nessuno potrà più lasciare l’isola, se non per essere rispedito indietro. Lampedusa sarà come Malta. E a Malta chi arriva ci resta. A volte per anni. Senza che l’Unione europea riesca a fare altro che prenderne atto.

LA tratta dei rifugiati
Nel 2008 nel canale di Sicilia sono morte 642 persone, il numero massimo finora registrato. Vengono seppelliti nelle stesse isole dove tentavano di arrivare, spesso senza un nome da affidare alla lapide. A Lampedusa sono sbarcati in oltre 30 mila. Nel 2007 erano stati meno di 12 mila. A Malta ne sono approdati 2.775, su barche mediamente più piccole. Nel 2007 erano stati 1.702, 1.780 nel 2006. E a cavallo tra Natale e Capodanno ne sono già arrivati oltre 300, mentre più di 2 mila sono già i nuovi arrivi a Lampedusa. Fermo restando che la zona di search & rescue maltese è la più ampia di quel quadrante, estendendosi per oltre 250 mila chilometri quadrati, sin quasi a Creta. Basterebbe già questo semplice dato numerico a far ravvisare l’attenta regia che sta dietro a questi sbarchi. Equamente distribuiti tra i due Paesi in rapporto alle capacità di accoglienza. Sbarchi che procedono regolari per tutta l’estate, salvo interrompersi drasticamente nei giorni in cui il premier Berlusconi fa visita a Gheddafi. Che poi si inerpicano nell’insolito periodo natalizio. E che raccontano di una tratta dei poveri, consumata quotidianamente sulla pelle di migliaia di profughi.
I somali sono sempre di più, in fuga dalla tragedia umanitaria che sta sconvolgendo la loro nazione, dilaniata dalla guerra. Tirano fuori tra gli 800 e i 2 mila dollari per permettersi l’intero pacchetto: passaggio del deserto con una delle carovane di camion che dalla Somalia tagliano l’Etiopia e il Sudan, per raggiungere la Libia; quindi la traversata del canale di Sicilia a bordo di una carretta del mare. In totale, dal 2002, ne sono giunti quasi 3.500 a Malta. Sono la prima nazionalità. Poi vengono gli eritrei, circa 1.700. Se si aggiungono anche gli etiopi, il totale dei migranti provenienti dal corno d’Africa si attesta attorno alle 6 mila unità. La metà dei 12 mila sbarcati sull’isola fino a oggi. Eppure, soltanto 204 di loro sono stati dichiarati rifugiati politici, mentre un 30 per cento si è visto rispondere di no. Quasi 4 mila, invece, coloro che sono riusciti a ottenere una protezione umanitaria. Avrebbero diritto ad un permesso di soggiorno di lungo periodo, stando alle nuove politiche in materia di immigrazione dell’Unione europea. Invece niente da fare, La Valletta non dà il suo assenso. E l’Europa, all’inizio di quest’anno, è stata costretta a congelare la direttiva.

“Dublino II” e dintorni
Intanto i rimpatri continuano a calare, mentre pochissimi sono i fortunati che finiscono negli Usa (173) e in altri paesi dell’Ue (84), grazie a progetti di reinserimento. Molti altri, invece, salpano lo stesso con un permesso temporaneo che diventa il loro biglietto di sola andata verso la libertà. Vivranno in qualche città italiana o del centro Europa, senza documenti, per qualche tempo. Fino a quando non saranno scoperti e riportati sull’isola. Come Papillon. Il regolamento europeo “Dublino II” obbliga il rifugiato a rimanere nel primo Paese dell’Unione in cui ha messo piede. E finora a nulla sono valse le proteste del governo maltese. «Ci penalizza – afferma Alex Tortell, responsabile governativo degli “open centre” – siamo un Paese troppo piccolo, abbiamo bisogno di più aiuto dagli altri Stati membri». Per fare un paragone, sarebbe come se in Italia fossero giunti 2 milioni di rifugiati negli ultimi sei anni. Una piccola invasione, che non fa rumore. Ma che sta avendo forti ripercussioni sulle scelte della Commissione europea.
A Malta sin dal 1970 vige l’Immigration Act: ogni immigrato senza permesso di soggiorno compie un illecito amministrativo, pertanto deve essere trattenuto in detenzione. Il limite è di 18 mesi, dopodiché si viene rilasciati, con o senza documenti. Ma c’è chi vi resta anche più del consentito. Fino allo scorso anno quella maltese era considerata un’anomalia in Europa. Oggi è la regola. Sembrava troppo quell’anno e mezzo di detenzione, rispetto al trattenimento amministrativo temporaneo, che pure è prassi in altri paesi dell’Unione. Erano stati criticati duramente da Amnesty International, dal Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, dall’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr) e persino dalla Commissione giustizia del Parlamento europeo. Salvo poi venir ratificati come durata massima della detenzione amministrativa in tutto il continente, da una discussa direttiva della Commissione europea emessa lo scorso mese di giugno. La cosiddetta “direttiva della vergogna”. Malta, insomma, sta facendo scuola.

I centri di detenzione
Attualmente i “detention centre” maltesi sono quattro: Safi Barracks, Lyster Barracks, Ta’ Kandja e Floriana. I primi due gestiti dall’esercito, gli altri dalla polizia. I detenuti sono privati della libertà e l’accesso è consentito esclusivamente a poche organizzazioni non governative. Il divieto valeva anche per i giornalisti, fino alla fine di giugno dello scorso anno. Poi il governo ha finalmente deciso di consentire l’ingresso alla stampa. Anche se alcune realtà sono rimaste celate dalle sbarre. Come il sovraffollamento, la mancanza di igiene, le aggressioni e gli insulti a sfondo razziale cui vengono regolarmente sottoposti i detenuti. In alcuni centri sono riconosciute solo 4 ore d’aria alla settimana. E il cibo è sempre lo stesso. «Spaghetti o un po’ di riso – racconta Mohamed Salam, somalo di lingua italiana, per undici mesi recluso a Safi Barracks – ma è l’acqua la cosa peggiore, è quella del rubinetto». Acqua di mare quindi, perché a Malta l’acqua arriva con i dissalatori.
Le proteste vanno aumentando. L’ultima ha avuto luogo proprio all’inizio dell’anno a Safi. E con esse, aumentano anche i detenuti. «In totale sono circa 2 mila le persone recluse nei quattro centri – spiega Neil Falzon, capo dell’ufficio maltese dell’Unhcr – il problema maggiore è che la detenzione, almeno all’inizio, riguarda tutti, comprese le persone più vulnerabili. Abbiamo documentato casi di donne incinte, trasferite in ospedale per partorire, e poi messe in detenzione assieme al neonato». Molti scappano da zone di guerra. Alcuni di essi hanno addosso i segni delle torture subite in Libia, nei campi di detenzione di Gheddafi. La nuova prigionia rischia di farli impazzire. Falzon parla di alcuni casi di suicidio negli ultimi sei anni. Molti di più sono i tentati suicidi e le automutilazioni dovute a problemi psicologici. «Prevenire i tentativi di suicidio non è cosa semplice – spiega Terry Alan Gosden, dell’associazione Suret il-Bniedem, che gestisce il centro aperto di Marsa – l’atteggiamento delle culture africane nei confronti della malattia mentale è diverso e più complesso del nostro. In Africa avere un problema di salute mentale è considerato una grave condanna e pertanto viene celato il più possibile. Riusciamo a intervenire solo quando si è davvero prossimi al suicidio». Glen Cachia è uno psicologo della Croce Rossa e da anni monitora le condizioni dei migranti, con la scusa di insegnare loro la lingua inglese: «Questa gente – spiega – attraversa il deserto e poi il Mediterraneo, fuggendo dalla guerra e pensando di raggiungere pace e democrazia. Poi arriva qui e si trova ad essere incarcerata per 18 mesi, senza nulla da fare, se non il pensare a tutto quello che ha passato. L’effetto sulla psiche è devastante».

Gli “open centre”
La situazione non migliora nei cosiddetti centri aperti. Gestiti dal ministero della Famiglia in collaborazione con alcune organizzazioni non governative, attualmente ospitano tra le due e le tremila persone, un numero molto superiore alla capacità effettiva delle strutture. Qui il governo offre un’assistenza temporanea nell’attesa che gli immigrati trovino un lavoro a Malta o all’estero. A volte ci vogliono anni. Uno dei centri aperti si trova a Marsa, poco distante dalla Capitale. E’ una vecchia scuola che l’emergenza immigrazione ha trasformato in una cittadella autogestita, con tanto di ristorante, bar, barbiere e sala giochi. Quello di Hal Far, invece, non è altro che un accampamento di tende, esposte al freddo d’inverno, alla canicola d’estate, a pioggia e vento nelle mezze stagioni. E’ a Sud dell’isola, a venti minuti di macchina da La Valletta. Nel centro vivono oltre 800 persone, 24 per tenda. La promiscuità tra uomini e donne rende frequenti i casi di violenza e stupro. E per quanto la Croce Rossa e altre Ong cerchino di agevolare l’integrazione, gli “open centre” restano ghetti, attorniati dalla diffidenza dei maltesi, che già da tempo mostrano i primi segni di intolleranza, quando non di aperto razzismo.

Blacks out
«Sono troppi e noi siamo un Paese troppo piccolo per accoglierli» è la constatazione del maltese medio. Eppure, nell’unico posto al mondo dove il Dio cristiano si chiama Alla, a serpeggiare è un sentimento xenofobo, che si traduce nelle scritte “blacks out”, “fuori i neri”, che ormai tappezzano i muri. O in alcune provocazioni in stile Apartheid, come la proposta di riservare alcuni bus solo per i neri. «Apartheid? Sono loro a crearla – afferma Josie Muscat, leader del partito Azzjoni Nazzjonali, che è riuscito a presentarsi alle elezioni dello scorso anno, senza tuttavia ottenere seggi in Parlamento – sono loro a restare nelle loro aree, non intendono integrarsi con noi». Alcune inchieste giornalistiche, invece, hanno messo in luce come i migranti, nella loro perenne ricerca di lavoro, vengano discriminati in base alla religione. Mentre coloro che approdano in un cantiere edile o ad un lavoro nella nettezza urbana, sono spesso sottopagati.
La reazione delle frange più estremiste si sta abbattendo anche su chi i migranti li aiuta giorno dopo giorno, come gli operatori del Jesuit Refugee Service e della Commissione emigranti, o alcuni giornalisti che si stanno occupando della questione emigrazione. Tra di essi Herman Grech del Times of Malta, più volte minacciato: «Hanno già incendiato alcune auto a scopo intimidatorio – spiega – e ci sono stati dei casi di aggressione. Ma sono episodi estemporanei». Qualcosa di simile all’incendio del “cimitero dei barconi”, che ignoti hanno appiccato a Lampedusa, dopo il boom di sbarchi di Natale. «La gran parte dell’opinione pubblica – conclude Grech – sente che quello dell’immigrazione è un problema europeo e, per questo, ad occuparsene dovrebbe essere Bruxelles».