Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999, dopo un tentativo di fuga sedato duramente dalle forze dell’ordine, oltre dieci immigrati vennero rinchiusi in una sola camerata del centro di detenzione Vulpitta di Trapani, aperto un anno prima, ed uno di loro diede fuoco ai materassi in gommapiuma ed ai lenzuoli di carta. A seguito del rogo, durato alcune decine di minuti, bruciarono vivi tre immigrati tunisini mentre altri tre, gravemente ustionati, morirono in ospedale nei mesi successivi.
Alcuni antirazzisti siciliani donarono il loro sangue per salvare, invano, la vita dei tre migranti che erano stati ricoverati all’ospedale civico di Palermo. Per loro e per molti altri componenti della Rete antirazzista siciliana, quel gesto significò un estremo tentativo di fratellanza con chi aveva subito nel modo più tragico tutta la improvvisazione e la fretta con le quali in Italia erano stati aperti nel 1998, dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano, i primi centri di permanenza temporanea (CPT). Un gesto che significava anche un impegno di memoria per gli anni a venire, un impegno che va onorato ancora oggi, a quasi dieci anni di distanza.
Nel mese di gennaio del 2000 venne presentato un esposto al Tribunale di Trapani in cui si denunciarono le condizioni di sicurezza e la mancanza di scale ed uscite di sicurezza. L’immigrato che aveva materialmente dato fuoco ai materassi della cella fu rapidamente condannato e in pochi mesi venne espulso dal nostro paese.
Nel frattempo l’indagine avviata dalla magistratura comportò la chiusura del centro, sequestrato in diverse occasioni, per le persistenti carenze strutturali. Dopo il rogo il Vulpitta veniva quindi riaperto e chiuso a più riprese, e il numero massimo degli immigrati trattenuti non superò più il numero di 54, mentre in precedenza si era arrivati a rinchiudere in quella struttura oltre 180 persone. Oggi il centro di identificazione ed espulsione (CIE) Serraino Vulpitta di Trapani è ancora aperto, ma non vi sono mai rinchiusi più di 38 “ospiti”.
Nel luglio del 2001 il Tribunale di Trapani su richiesta dell’ASGI ( Associazione studi giuridici sull’immigrazione) ne ammetteva la costituzione come parte civile, preso atto che “ sussiste l’interesse concreto e diretto in capo all’associazione richiesto, nell’applicazione giurisprudenziale, ai fini della legittimazione di parte civile”.
Il processo penale si è snodato per anni con una lunga serie di udienze, nelle quali venivano sentiti, oltre all’imputato, il prefetto di Trapani di quel tempo, i testimoni, in gran parte agenti di polizia, quelli presenti nella struttura al momento del rogo, e quelli sopravvenuti, ed i consulenti. Nel corso delle udienze, documentate nell’archivio di Sergio Briguglio, accessibile anche dal sito www.asgi.it, emergeva chiaramente il tentativo del prefetto di scaricare sulle forze di polizia la responsabilità di quanto accaduto, evidenziando sia le contraddizioni presenti nelle deposizioni di alcuni agenti e funzionari, sia il ritardo e le modalità dell’intervento di soccorso.
I consulenti tecnici rilevavano sia la durata del rogo a causa del quale avevano perso la vita gli immigrati per il ritardo dei soccorsi, che le caratteristiche strutturali del centro e la mancanza delle condizioni di sicurezza allora richieste dalla legge e dai regolamenti per queste strutture.
Dagli atti citati nell’ordinanza di rinvio a giudizio emergeva peraltro come già un anno prima del rogo il Ministero dell’interno -con una nota- aveva chiesto al Prefetto “ la segnalazione di tutte le opere che si dovessero rendere necessarie per il rispetto delle indicazioni elaborate” da un gruppo di lavoro ministeriale che indicava “ la necessità che i fabbricati fossero dotati di appositi impianti antincendio nel rispetto della vigente normativa in materia e che fossero installati rilevatori sensibili ai fumi, collegati ad una centralina di allarme acustico ed ottico in caso di incendio.”
Da diverse deposizioni emergeva soprattutto l’assoluta carenza di estintori ( sembrerebbe soltanto due in funzione al momento del rogo) al punto che numerosi agenti di polizia affermavano di avere contribuito a spegnere il rogo con gli estintori in dotazione sulle proprie autovetture. Altri agenti avevano affermato che gli estintori non bastavano e che erano scesi a prenderli dalle autovetture di servizio.
Nel corso degli anni, malgrado il centro di detenzione Vulpitta venisse chiuso e riaperto a più riprese, per la esecuzione di lavori di ristrutturazione, si continuavano a verificare ribellioni, atti di autolesionismo e tentativi di fuga, duramente repressi dalle forze dell’ordine che sono intervenute con squadre speciali antisommossa.
Infine, nell’aprile del 2004, con una sentenza, successivamente confermata dalla Corte di Appello di Palermo, il Tribunale di Trapani concludeva il processo assolvendo il prefetto da tutti i capi d’imputazione “perché il fatto non sussiste”. Nessun altro colpevole, se non il “clandestino” che quella notte, nell’ennesimo tentativo di fuga, aveva appiccato il fuoco ai materassi. La morte di sei uomini veniva considerata solo «la spiacevole conseguenza di un gesto folle, una tragica semplice fatalità”.
Alcuni anni più tardi, però, i giudici di un tribunale civile hanno condannato lo stato italiano a risarcire alcune vittime sopravvissute a quella strage, ma la responsabilità penale dei fatti occorsi nella notte della strage non è stata mai accertata, e mai più potrà esserlo, con tutta probabilità, in futuro.
Nel 2005 il Ministero dell’interno stabiliva delle prescrizioni assai dettagliate in materia di prevenzione degli incendi e degli altri rischi ambientali all’interno dei centri di detenzione amministrativa, che da quell’anno venivano definiti anche come centri “polifunzionali”, dopo le direttive del ministro Pisanu che consentivano appunto la coesistenza, all’interno del medesimo recinto, di una struttura di identificazione ed accoglienza e di una sezione destinata ad operare come centro di permanenza temporanea, adesso ridefinito come CIE.
Nel 2007 la Commissione De Mistura visitava tutti i centri di detenzione italiani e rilevava come in molti di loro la situazione strutturale fosse ancora lontana dal rispetto della legge e delle direttive ministeriali. A seguito di quelle visite, in Sicilia, veniva chiuso il centro di detenzione amministrativa di Ragusa, e anche il centro Vulpitta di Trapani veniva drasticamente ridimensionato. Anche il centro di detenzione ubicato nella zona aeroportuale dell’isola di Lampedusa veniva chiuso, ed al suo posto veniva creato un centro di prima accoglienza e soccorso, in una zona interna dell’isola, in Contrada Imbriacola.
Adesso, nell’anno in cui cade il decimo anniversario della strage del Vulpitta, le caotiche decisioni del ministro Maroni sulla destinazione del centro di accoglienza di Contrada Imbriacola, ora trasformato in un CIE ( Centro di identificazione ed espulsione), e sulla riutilizzazione della vecchia base Loran della Marina Militare, prima destinata a CIE, e dopo appena tre giorni “riconvertita” in centro di accoglienza, rischiano di determinare una situazione di gravissima tensione dalle conseguenze imprevedibili.
Rimane da accertare, e lo farà l’indagine della magistratura appena aperta qualche giorno fa, dopo un principio di incendio accidentale nella vecchia base Loran, il rispetto delle normative sulla sicurezza, oltre che delle garanzie procedurali, all’interno dei due centri di detenzione ( perché in entrambi i casi di questo si tratta) attualmente funzionanti a Lampedusa.
Qualora le due strutture detentive di Lampedusa non rispettassero le prescrizioni amministrative e le normative vigenti, dovranno essere immediatamente chiuse, come in diverse occasioni fu deciso dalla magistratura trapanese che negli anni scorsi sottopose a sequestro il centro Vulpitta di Trapani prima che venisse finalmente adeguato alle normative sulla sicurezza e ridimensionato nella sua capienza massima.
La chiusura immediata dei centri di detenzione di Lampedusa, se verranno accertate violazioni di legge o di linee guida amministrative antincendio, come quelle che si allegano, non costituisce solo un atto dovuto in base alla legge. Si tratta anche di un preciso obbligo morale di fronte alla memoria delle sei vittime del rogo del Vulpitta, un impegno inderogabile perché queste tragedie non si ripetano più in futuro.
Scarica le linee guida anti-incendio del Ministero dell’Interno