Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

In nome della sicurezza due equazioni incostituzionali: migrante uguale non persona e dissenso uguale fattispecie da reprimere

di Alessandra Algostino, Prof. associato di Diritto pubblico comparato, Università di Torino

Il 5 febbraio 2009 il Senato ha approvato un disegno di legge d’iniziativa del Governo, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, il n. 7331. Si tratta di un testo di difficile lettura, in quanto contiene disposizioni che modificano norme differenti, spesso con la tecnica di sostituirvi o aggiungervi solo alcune frasi o parole.
Fra i vari settori sui quali esso interviene(2), due spiccano per il loro contrasto con diritti della persona umana o con diritti coessenziali alla democrazia: lo status del migrante e la repressione delle manifestazioni di dissenso.

Senza pretesa di completezza, sotto il primo profilo, si segnalano le norme che modificano la disciplina dei titoli di soggiorno, quelle che introducono il reato di immigrazione clandestina, quelle che aboliscono il divieto di segnalazione per i medici ed il personale ospedaliero.
Quanto ai titoli di soggiorno, il dato unificante è che si tratta di norme che modificano adempimenti amministrativi o alcuni loro presupposti, incidendo sul godimento di diritti fondamentali, quali quelli inerenti la famiglia e la casa, e rendendo, più in generale, attraverso la precarizzazione della vita, aleatori tutti i diritti, con una sostanziale violazione del rispetto del diritto di ciascuna persona umana ad una esistenza libera e dignitosa.
In primo luogo (art. 4 del D.D.L. 733) è modificata la disciplina dell’acquisto della cittadinanza italiana in seguito a matrimonio: potrà avvenire, dopo almeno due anni di residenza legale nel territorio della Repubblica o dopo tre anni nel caso di residenza all’estero (tempi che sono dimezzati in presenza di figli nati dai due coniugi), mentre in precedenza era sufficiente un termine di sei mesi (3). Viene inoltre introdotto, per tutte le istanze o dichiarazioni riguardanti la cittadinanza, il pagamento di una tassa di duecento euro. È evidente l’intento di rendere più difficile l’ottenimento della cittadinanza italiana, contribuendo ad amplificarne la portata escludente. La cittadinanza, un tempo strumento di emancipazione sociale, è oggi simbolo di appartenenza ad un club esclusivo.

Sempre in tema di matrimoni, è da segnalare anche l’art. 6 del disegno di legge che introduce, con un’aggiunta all’art. 116, c. 1, del codice civile, l’obbligo di dimostrare «la regolarità del soggiorno nel territorio italiano». «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio» (Cost., art. 29), ma solo se si possiede un permesso di soggiorno.
L’esibizione del permesso di soggiorno è anche prescritta per la richiesta dei provvedimenti di stato civile (art. 45, c. 1, lett.f), D.D.L. 733). Un esempio: i nati da genitori irregolari non possono ottenere la registrazione della nascita, saranno bambini invisibili, con tutte le conseguenze che ciò comporta, in violazione di numerose convenzioni internazionali (in primo luogo la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo, New York, 20 novembre 1989, ratificata ed eseguita in Italia con la L. 27 maggio 1991, n. 176), e, dunque, dell’art. 117, c. 1, Cost., che vincola la legislazione al rispetto degli obblighi internazionali, nonché dell’art. 10, c. 2, Cost., che, in relazione alla condizione giuridica dello straniero, impone alla legge di conformarsi a norme e trattati internazionali, oltre che non rispettare la protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù di cui all’art. 31 Cost. ed ostacolare il «dovere e diritto dei genitori» di «mantenere, istruire ed educare i figli» (art. 30 Cost.).
L’art. 42 del D.D.L. 733, invece, aggrava gli adempimenti necessari per ottenere l’iscrizione anagrafica, subordinandola «alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza», con ciò modificando il D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (all’art. 29, c. 3, lett. a)), Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, nonché, più generalmente, la legge 24 dicembre 1954, n. 1228, Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente: riguarda, dunque, cittadini extracomunitari (in tal caso costituendo condizione necessaria per il ricongiungimento familiare), comunitari e italiani. Paradossalmente, nel momento in cui, con lo smantellamento dello stato sociale, regrediscono le garanzie del diritto alla casa, si esige di dimostrare che essa possegga determinati standard di qualità.

Vi sono poi tutta una serie di norme che introducono restrizioni di diritto o di fatto alla possibilità di ottenere o conservare il permesso di soggiorno: vengono ampliate le fattispecie di reato ostative all’ingresso e considerate anche le condanne adottate con sentenza non definitiva (4), il rilascio del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo è subordinato al superamento di un test di lingua italiana (5), ogni richiesta di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno comporta il versamento di un contributo dagli ottanta ai duecento euro.
A ciò è da aggiungere la previsione del c.d. permesso a punti, ovvero dell’Accordo di integrazione che accompagna il permesso di soggiorno e prevede l’impegno a conseguire «specifici obiettivi di integrazione», articolati in crediti la cui perdita integrale determina la revoca del permesso e l’espulsione(6). Il migrante, già persona umana titolare di diritti universali solo pro tempore e sostanzialmente fintantoché utile come manodopera, viene ulteriormente precarizzato: la sua esistenza e i suoi diritti in balia di richieste che un regolamento dell’esecutivo adotterà. Si può ancora parlare di stato di diritto? Cosa rimane dei diritti universali, del riconoscimento dell’eguaglianza e della dignità di ogni persona umana?

Che lo status del migrante disegnato dal legislatore non sia inscritto nella prospettiva della persona umana e dei diritti, ma in quella della marginalizzazione e criminalizzazione, è reso evidente dalla previsione del c.d. reato di immigrazione clandestina. L’art. 21 del D.D.L. 733 introduce il reato di «ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato», punito con un’ammenda da cinquemila a diecimila euro, senza possibilità di estinguere il reato attraverso oblazione (art. 162 c.p.). La previsione di un reato, anche se nella fattispecie contravvenzione e senza un’immediata privazione della libertà personale, è giustificata dalla semplice violazione di norme che disciplinano l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato. L’impostazione tradizionale della sovranità dello Stato e del suo potere di controllo sui confini, nonché sulla costituzione del suo elemento soggettivo (connotato dalla cittadinanza), contra il concetto di persona umana e di universalità dei diritti, trova alimento in una non cultura che criminalizza l’irregolarità, associando clandestinità e sicurezza ed equiparando clandestino a delinquente.
Nelle more della scrittura di questo breve commento è stato poi adottato il decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonchè in tema di atti persecutori, nel quale, a testimonianza dell’equazione clandestino uguale delinquente, data la materia oggetto del decreto legge, si prevede, fin da subito, il trattenimento sino ai sei mesi nei Centri di identificazione ed espulsione(7): cosa rimane della libertà personale quando una persona può essere detenuta (perché questo è il termine appropriato) per sei mesi perché ha violato norme amministrative concernenti l’ingresso e il soggiorno in un territorio?
La riduzione a non persona del clandestino è poi completata dall’art. 45, c. 1, lett. t), che nel modificare il già citato D. Lgs. n. 286 del 1998, stabilisce che «all’articolo 35, il comma 5 è abrogato». Una formula neutra per privare il migrante irregolare del diritto alla salute, dato che il comma 5 prevede che «l’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano». L’abrogazione comporterà, dunque, o l’obbligo di segnalazione o, nella migliore delle ipotesi, la sua possibilità, con conseguente incertezza incidente sulla tutela di un diritto(8). La salute è un diritto di ciascuna persona umana, tutelato dalla Repubblica «come fondamentale diritto dell’individuo» (art. 32 Cost.) e il cui «nucleo irriducibile», dunque, come ha chiarito la Corte costituzionale (sent. 252/2001), «quale diritto fondamentale della persona deve essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato». La salute, inoltre, è anche – come recita sempre la Costituzione (art. 32) – «interesse della collettività»: l’abolizione dell’obbligo di non segnalazione e i conseguenti timori dei migranti a rivolgersi alle strutture sanitarie «potrebbe provocare una pericolosa “marginalizzazione sanitaria” di una fetta della popolazione straniera presente sul territorio, anche aumentando i fattori di rischio per la salute collettiva»(9). Il divieto di segnalazione rappresenta un elemento essenziale per la garanzia della salute, come diritto della persona umana e della collettività, dunque, la sua abrogazione costituisce una violazione della Costituzione, oltre che delle varie norme internazionali che garantiscono il diritto alla salute. Prove generali di un attacco alla sanità pubblica per tutti?

Nel disegno di legge, non vi è però, come anticipato, solo un attacco alla persona in quanto migrante, ma anche in quanto “dissenziente”. Vi sono, infatti, una serie di norme che introducono nuove ipotesi di reato o puniscono più gravemente le esistenti e sono accomunate dall’essere indirizzate verso manifestazioni di dissenso: cortei o riunioni in luoghi pubblici, slogan e contestazioni verbali, scritte sui muri, occupazioni.
Citando alcune ipotesi emblematiche, si può iniziare con l’art. 1, c. 5, del D.D.L. 733, che inserisce nel codice penale l’art. 341-bis, che reintroduce un reato precedentemente depenalizzato(10), l’oltraggio a pubblico ufficiale, contestualizzandolo «in luogo pubblico o aperto al pubblico e in presenza di più persone» e aggravandone la pena (reclusione fino a tre anni) rispetto a quanto previsto prima della depenalizzazione. Come non pensare al caso di un corteo, nel quale magari si esprimono critiche nei confronti delle forze di polizia, o, più in generale, a contestazioni di rappresentanti delle istituzioni? Non si tratta di una interferenza – pesante, considerata la “leggerezza” del bene da tutelare (l’onore e il prestigio di un pubblico ufficiale) – nell’esercizio di libertà come la manifestazione del pensiero (Cost., art. 21) e la riunione (Cost., art. 17)?

Gli articoli 7, 8 e 9, del disegno di legge inaspriscono le pene o le sanzioni amministrative riguardanti il danneggiamento, il deturpamento e imbrattamento di cose altrui e il decoro delle pubbliche vie. Un esempio: un writer che decora un treno o chi scrive su un muro potrà essere punito con la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da trecento a mille euro, nei casi di recidiva con la reclusione da tre mesi a due anni e la multa fino a diecimila euro(11). Che il reato sia pensato per i writers emerge chiaramente dalla previsione di una sanzione amministrativa (fino a mille euro) per «chiunque vende bombolette spray contenenti vernici non biodegradabili ai minori di diciotto anni»(12): è evidente che non si tratta di un provvedimento a tutela dell’ambiente.
Vi sono poi disposizioni che limitano diritti fondamentali intervenendo in via cautelativa, con tutte le questioni che ciò comporta. Una è all’art. 38, c. 1, del D.D.L. 733, che dispone, sostanzialmente per procedimenti relativi a reati di terrorismo, la sospensione, da parte del giudice, «cautelativamente» di ogni attività associativa, se sussistono «concreti e specifici elementi» che consentano di ritenere che tale attività favorisca la commissione dei reati. Se successivamente viene accertato «con sentenza irrevocabile che l’attività di associazioni, movimenti, gruppi abbia favorito la commissione» dei reati citati, essi vengono sciolti con decreto del Ministero dell’Interno(13). Se non pare nell’orizzonte della tutela del «diritto di associarsi liberamente» (art. 18 Cost.) la sospensione cautelativa, non convince nemmeno lo scioglimento, adottato, fra l’altro, con provvedimento dell’esecutivo e non del giudice. La Costituzione italiana è molto chiara nell’indicare essa stessa i limiti alla libertà di associazione e, conseguentemente, garantire, al di là di essi, libertà, diversamente anche da costituzioni come la Legge fondamentale tedesca che si rifanno ai canoni della democrazia protetta14.

Altro provvedimento cautelare può essere adottato nei confronti di internet, quando nel procedere per delitti di istigazione a delinquere o a disobbedire alle leggi, ovvero per delitti di apologia di reato, sussistono «concreti elementi» che indicano che ciò avviene tramite internet. L’autorità competente è il Ministro dell’Interno, che può disporre con proprio decreto l’interruzione dell’attività, semplicemente «in seguito a comunicazione dell’autorità giudiziaria»(15).
L’assegnazione di poteri all’esecutivo è sintomo dell’adozione di una strategia emergenziale, o, meglio, di normalizzazione dell’emergenza, la cui prima vittima sono i diritti, prima degli stranieri, facile raffigurazione del nemico sul quale convogliare rabbia e attenzione, quindi, accettata l’idea, dei cittadini. E quando l’emergenza da eccezione diviene regola, si passa da una democrazia ad una autocrazia. Le norme che qui si commentano, non sono, in questa prospettiva, che uno dei segnali; si pensi all’esautoramento del Parlamento, come sede di decisione politica e come sede normativa, in favore del Governo, all’abuso della decretazione d’urgenza e delegata, agli attacchi alla Costituzione, tutti effetti amplificati dall’involuzione maggioritaria, monocratica e plebiscitaria – di nuovo autoritaria – della forma di governo, di portata tale da incidere sulla stessa forma di stato. La democrazia si nutre di pluralismo e riconosce, prevedendone le forme di espressione, il conflitto: l’artificiale riduzione degli interessi e delle prospettive ad unità e la repressione del dissenso ne costituiscono una palese violazione.

Tornando al disegno di legge, come esempio del ruolo attribuito all’esecutivo in materie delicate che riguardano ordine pubblico e tutela dei diritti, si può citare anche l’affidamento al sindaco e al prefetto del potere di intervenire nei casi di «indebita occupazione di suolo pubblico», ordinando «l’immediato ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti»(16).
Di «eventi che possono arrecare danno alla sicurezza urbana» e «situazioni di disagio sociale» si possono occupare anche i privati, segnalandoli alle forze di polizia; «i sindaci, previa intesa con il prefetto, possono avvalersi della collaborazione di associazioni tra cittadini non armati»17: in termini più chiari, si legittimano le ronde. Ora, anche senza considerare la matrice xenofoba e razzista della proposta, fra i molti rilievi possibili, due: non ci si avvicina al divieto costituzionale (art. 18, c. 2) delle «associazioni che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»? D’accordo, vi sono già stati precedenti (per tutti Gladio) ma quantomeno non vi era un diretto riconoscimento legislativo. Secondo rilievo: il disagio sociale si affronta con l’intervento della polizia? E lo stato sociale, i diritti sociali, la rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale» (Cost., art. 3, c. 2)?
Dulcis in fundo, l’art. 50 del D.D.L. 733, che introduce «presso il Ministero dell’interno un apposito registro nazionale delle persone che non hanno fissa dimora»(18). «Prima di tutti vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendermi e non c’era rimasto nessuno a protestare» (Bertolt Brecht).
Infine, per concludere, una non approvazione, l’inserimento del reato di tortura nel codice penale(19), che avrebbe tradotto legislativamente la norma costituzionale (art. 13, c. 4), che punisce «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà»(20): del resto non sarebbe stata coerente con le restanti disposizioni.