Il tema dei confini è andato acquisendo negli ultimi quindici anni un’inedita centralità. Non solo filosofi e antropologi, geografi e sociologi hanno intensificato il proprio interesse per questo tema, fino a configurare un vero e proprio campo di studi in espansione a livello globale, i cosiddetti border studies. I confini sono divenuti oggetto privilegiato di pratiche artistiche e di nuove forme di attivismo politico, che li hanno assunti come luoghi simbolici a partire dai quali la profonda ambivalenza dei processi di “globalizzazione” può essere rappresentata e politicamente posta in risalto. Dispositivi di chiusura, attorno a cui si consumano quotidianamente immani tragedie, i confini sono anche spazi di transito, di un attraversamento che pone in collegamento territori e culture, dando luogo a inedite combinazioni e a pratiche sociali che pongono in discussione la “norma” nazionale su cui ancora si regge la geografia politica mondiale.
All’interno del campo aperto da questo nuovo interesse per i confini si è collocato fin dall’inizio il progetto di ricerca «Transit Migration», finanziato in Germania dalla «Kulturstiftung des Bundes»: lungo l’arco di cinque anni (tra il 2002 e il 2006), ricercatori e attivisti, videomaker e artisti si sono proposti di studiare un’area dell’Europa (quella sud-orientale) che, interessata prevalentemente da movimenti migratori “in transito” verso l’Europa occidentale, è divenuta una vera e propria grande area di frontiera. Il volume che qui presentiamo propone una prima raccolta dei materiali prodotti all’interno di questo progetto, mentre un quadro di insieme delle attività realizzate è offerto dal sito www.transitmigration.org. In uno dei capitoli del libro, inoltre, Marion von Osten descrive nel dettaglio (e con riflessioni di notevole interesse sul «regime dello sguardo» che governa la rappresentazione delle migrazioni) un’ulteriore iniziativa a cui il “team” di «Transit Migration» ha partecipato: l’organizzazione a Colonia, nel 2005, di una grande mostra sulla storia dell’immigrazione in Germania federale nel secondo dopoguerra.
Costruito sulla base di lunghe e minuziose analisi sul campo, Turbolente Ränder è un libro di grande originalità e importanza, destinato a influenzare profondamente gli studi sulle migrazioni e sui confini, ma anche il nostro modo di guardare a concetti come «transnazionalismo» e «cosmopolitismo» (su cui si concentra il contributo di Regina Röhmild). Tre sono le realtà “nazionali” su cui il volume presenta ricerche empiriche: la Grecia, la Turchia e la Serbia. In un insieme di contributi teorici e metodologici, Manuela Bojadzijev, Sabine Hess, Serhat Karakayali e Vassilis Tsianos descrivono la cornice complessiva al cui interno la ricerca si è sviluppata: muovendo dall’ipotesi che i movimenti migratori siano caratterizzati da una relativa autonomia rispetto alle determinazioni strutturali che pur ne sono all’origine, le pratiche sociali dei migranti sono state considerate elemento decisivo nell’insieme delle dinamiche che fanno del confine sudorientale dell’Europa una «zona di conflitto e un laboratorio per le politiche migratorie». Al centro dell’analisi si è venuto progressivamente installando il regime di controllo dei confini e delle migrazioni che sta emergendo in Europa: laddove per regime si deve intendere «un insieme di pratiche e strutture sociali – discorsi, soggetti, pratiche statuali – il cui ordinamento unitario non è dato a priori, ma si definisce piuttosto attraverso la capacità di offrire risposte a questioni e problemi sollevati da elementi e processi dinamici» (Karakayali – Tsianos, p. 15).
Così definito, il regime di controllo dei confini e delle migrazioni è stato cartografato (un saggio di Peter Spillmann descrive nel dettaglio questo aspetto del progetto «Transit Migration», discutendo i criteri che hanno condotto all’elaborazione di un insieme di mappe che possono essere consultate nel sito citato in precedenza) e contemporaneamente indagato etnograficamente nelle tre aree geografiche in questione: attraverso interviste e tecniche di osservazione partecipante, ma anche attraverso metodi innovativi come l’«inchiesta acustica militante» (di cui dà conto il contributo del gruppo di sound artists statunitensi Ultra-red). Temi cruciali dei dibattiti politologici e giuridici contemporanei, come il passaggio dal government alla governance e le trasformazioni della sovranità, sono letti nel libro attraverso l’esperienza dei migranti, che fa altresì emergere un punto di vista affatto particolare a partire dal quale analizzare i processi di integrazione in atto in Europa. La flessibilità delle nuove politiche migratorie europee, in cui giocano un ruolo sempre più significativo organizzazioni non governative e attori come l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (se ne occupa nel suo saggio Rutvica Andrijasevic), viene analizzata in una prospettiva che è ben lungi dal tacere la durezza degli effetti di quelle politiche, ma che ne fa al tempo stesso emergere tutta la precarietà e l’aleatorietà.
Sta qui, in fondo, la ragione principale dell’importanza di questo volume: mentre immagini come quella della «fortezza Europa» e la stessa influenza dei lavori di Giorgio Agamben in molti studi su confini, profughi e migrazioni tendono a concentrare l’attenzione in modo unilaterale sui processi di «esclusione» e a trasmettere l’impressione di una sorta di perfetta efficienza e di onnipotenza del dominio, le analisi qui raccolte presentano un quadro assai più contraddittorio e instabile, in cui «è tutt’altro che certo chi finirà per prevalere, chi sarà in ultima analisi in grado di decidere il conflitto» (Bojadzjiev, p. 105). Queste analisi danno voce ad altri protagonisti (le donne e gli uomini protagonisti dell’esperienza migratoria) e ci insegnano a guardare in modo nuovo agli stessi dispositivi di controllo più violenti e detestabili: nella loro analisi dei campi di detenzione di cui è disseminata l’area dell’Egeo, Efthimia Panagiotidis e Vassilis Tsianos non trattegono ad esempio il proprio sdegno per le condizioni inumane in cui i migranti vi sono ristretti. Ma mettono in guarda dall’individuare nell’«esclusione» la funzione di questi campi, sottolineando piuttosto come essi siano pienamente funzionali a un management europeo delle migrazioni che punta a determinare processi di “inclusione selettiva”. E mostrano come gli stessi migranti esibiscano una consapevolezza crescente del funzionamento di questo regime di management, che tentano di piegare “opportunisticamente” ai propri progetti.