Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sicurezza e criminalizzazione dei migranti – La risposta alla crisi viene da lontano

Intervista al Prof Dario Melossi, sociolo e criminologo, ordinario di sociologia della devianza e del controllo sociale all'Università di Bologna e autore di studi e saggi sulla relazione tra crimine, controllo sociale, migrazioni.

Domanda: Nell’ultimo periodo in Italia stiamo assistendo ad un fenomeno che vede estendere le misure del controllo dallo spazio privato e privatizzato allo spazio pubblico: pensiamo alle ronde già istituite in molti territori, ai poliziotti di quartiere, alla video-sorveglianza, all’aumento della visibilità di pattuglie delle forze dell’ordine, fino all’invito a denunciare i migranti irregolari e alle ordinanze anti degrado. Secondo lei ci troviamo di fronte a una nuova qualità del controllo accelerata anche dalla crisi economica e politica che sta investendo il sistema di governo globale?

Risposta: Starei attento a considerare troppo unificate le misure che lei ha menzionato nel senso che molte delle proposte e delle ipotesi dette sono spinte in varie direzioni e molto spesso non trovano un quadro così necessariamente unitario, ci sono delle frammentazioni e dei conflitti, per fortuna, di cui è necessario tenere conto.
Però la questione di fondo è che la campagna sulla sicurezza così come noi l’abbiamo vista negli ultimi anni, soprattutto ad opera del centro destra – anche se con un centro sinistra che non era in grado di presentare alternative e che in qualche modo si accodava – riguarda retoriche, politiche e campagne che vengono parecchio da lontano e che in Italia si sono presentate solamente negli ultimi anni, ma con una somiglianza impressionante con gli Stati Uniti, luogo dove per prime sono state formulate fra gli anni ’60 e ’70.
Diciamo che la retorica della criminalità è stata ideata e si è affermata con la famosa rivoluzione reaganiana del 1980 che era stata preparata prima da una serie di tentativi i quali si inserivano nella strategia della destra americana per combattere sia il sistema del welfare che quella tradizione democratica che rappresentava lo stato del welfare. Quello che è da capire a mio avviso è che la retorica della criminalità e della pena disegna una sorta di ideologia “neo utilitarista”, cioé basata su questa idea delle ricompense delle pene individuali che era profondamente affine al tipo di valori e di società che quelle forze cercavano di costruire e che poi è diventato quello che abbiamo chiamato liberismo o neo liberismo. Man mano questo tipo di società si è andato espandendo dal centro degli Stati Uniti prima, all’Inghilterra e poi all’Europa continentale, basti pensare a parole d’ordine come Tolleranza Zero ecc. Si tratta a mio parere di un discorso, di una retorica, di un modo di presentare il modo in cui bisognerebbe vivere e i valori che sono importanti nella vita e nella società che è così bene incapsulato dalla questione penale fin dalle origini: da Beccaria, l’area del diritto penale è servita egregiamente – e non dal punto di vista fuonzionalistico – ad esprimere quelli che erano i valori fondamentali della società. Noi l’abbiamo osservato in Italia solamente in anni recenti perché quel tipo di progetto si è presentato in Italia solamente di recente. Vorrei segnalare agli ascoltatori un libro di un sociologo americano, Jonathan Simon intitolato Il governo della paura – Guerra alla criminalità e democrazia in America.

D: A cosa serve per gli istituti della governance orientare la paura ed il sospetto verso un soggetto specifico fino a farlo diventare “nemico pubblico” – in Italia in questi tempi è l’icona del migrante irregolare – in un momento in cui si vuole coinvolgere tutta la collettività, quindi anche i soggetti civici, non professionisti della sicurezza, nella collaborazione a vigilare a controllare?

R: Nel testo che segnalo c’è un aspetto molto interessante che mostra come nel caso degli Stati Uniti ci sia stato una sorta di esportazione del modello criminale-penale verso tutta una serie di aree sociali, ad esempio nel campo delle relazioni domestiche o nel campo della scuola. Questo “modello securitario” fatto di un sistema di pene e di ricompense, di un sistema di controllo teconologico come le telecamere, fatto di tornelli all’entrata delle scuole o addirittura di impiego della polizia privata nelle scuole, tutti questi apparati si sono espansi dal campo del penale, che negli Stati Uniti è comunque sempre più ampio, infatti riguarda milioni e milioni di persone, verso nuove aree della società. Mi sembra che in alcuni dei fenomeni che lei ha detto ci sia lo stesso tipo di meccanismo, supportato dal punto di vista ideologico da discorsi di tipo populista. In un certo senso mi sembra di individuare dietro a questi discorsi il tentativo di orientare in senso conservatore e reazionario esigenze che in passato avevano un segno diverso, ad esempio di partecipazione sociale dei cittadini, di gestione in prima persona degli spazi sociali e della vita politica. Mi sembra di individuare la stessa contraddizione che ha caratterizzato il discorso sul federalismo, nel senso che il federalismo per molto tempo è stato una bandiera della sinistra (si pensi all’autonomia delle regioni e all’applicazione della norma costituzionale sulle regioni) che poi però è diventato simbolo di una atteggiamento di chiusura, evolvendo verso un atteggiamento di rifiuto dell’altro, del diverso. Naturalmente ci sono fenomeni storici, materiali, concreti che sono estremamente importanti e che è molto difficile governare, come le migrazioni. Le migrazioni sono infatti un fenomeno su cui nessun governo, quale che sia la sua politica, riesce veramente ad incidere e che richiederebbe una collaborazione internazionale ed europea, comunitaria e non più solamente dei singoli stati nazione. In realtà vediamo che l’Unione Europea fa una enorme fatica ad individuare una politica unitaria che non sia quella della cosiddetta lotta all’immigrazione clandestina attorno alla quale tutti si riconoscono, ma senza poi porsi il problema di come regolare la politica dei movimenti migratori per motivi di lavoro che resta incompiuta e non affrontata, mentre poi si mette tutto l’accento sul contrasto della immigrazione cosiddetta irregolare o clandestina, con l’unico risultato di alimentare di fatto questa immigrazione irregolare perché il meccanismo di fondo in base al quale le persone attratte dall’offerta di lavoro – la crisi ha arrestato questo meccanismo – devono fare lunghi periodi di clandestinità in cui si aumentano i rischi che si leghino a fenomeni ed organizzazioni criminali e poi chi riuscirà verrà regolarizzato e sarà finalmente regolare. Uno dei problemi seri dell’opinione pubblica è la difficoltà di capire che l’irregolarità non è una caratteristica delle persone, uno stigma, non si nasce clandestino, ma è una scelta obbligata dal momento che chi vuole venire qui a lavorare sa che deve scontare periodi di irregolarità, se potesse venire in modo civile ed autorizzato, prendendo un battello di linea senza dover rischiare la vita e pagando un sacco di soldi.

D: E’ possibile ritenere che la nuova produzione di immaginario contro il migrante irregolare sia in qualche maniera particolarmente utile in questo momento di forza lavoro in eccesso, di esubero della forza lavoro. Le campagne securitarie sembrano quindi collegate al momento di crisi e alla difficoltà da parte dei centri di potere di gestire la crisi laddove vanno ad incitare risposte di difesa, di neo-protezionismo e di neo-razzismo a fronte di una contrazione del benessere e delle possibilità economiche.

R: Sicuramente in un momento di crisi economica è possibile una accelerazione di questo tipo, e ciò richiede una enorme vigilanza perché sappiamo come in altri periodi storici sono andate a finire le cose (le guerre purtroppo diventano il destino di queste tendenze nazionalistiche e protezionistiche) .
Sulla questione della subordinazione del migrante sto producendo uno studio sul numero della rivista Studi sulla questione criminale in uscita adesso insieme a Pavarini, Picci e Mosconi che sarà pubblicato sulla rivista che abbiamo voluto intitolare “Subordinazione informale, criminalizzazione dei migranti” per mettere in luce il rapporto tra i processi di subordinazione dei migranti nel mercato del lavoro, di subordinazione a livello culturale, a livello di immagine e i processi di criminalizzazione. Questo è andato avanti dall’inizio del fenomeno migratorio in Italia. Una sociologa del diritto americana che aveva studiato questi fenomeni, nel contesto dell’immigrazione messicana non documentata in California, e che ha poi studiato il caso di Spagna e Italia, ha sostenuto una tesi molto interessante, ossia che nonostante diverse politiche, nonostante diversi governi di diverso orientamento che si sono succeduti sia in un paese che nell’altro, sostanzialmente vi sia stata una continuità delle politiche migratorie che hanno puntato sul rapporto tra illegalità, irregolarità e subordinazione dei migranti nel mercato del lavoro, in un circolo vizioso con processi di “razzializzazione” o di “inferiorizzazione razziale” a prescindere dalla loro origine, legandoli allo sfruttamento di questa forza lavoro in tutta una serie di attività economiche che sembrano essere marginali o arretrate ma in realtà fanno parte della flessibilizzazione del mercato del lavoro tipica del postfordismo, che ha ben preso piede in paesi come il sud Europa, Gracia, Italia, Spagna.
C’è un elemento che ha a che fare con una certa fragilità di queste economie, non dimentichiamo che l’immigrazione è comunque sempre un modo in cui le trasformazioni in seno al capitalismo in qualche modo attaccano una classe operaia indigena domestica che era diventata troppo forte, l’immigrazione è anche un modo in cui si rimescolano le carte, si introduce nuova forza lavoro scomponendo e rimettendo i vecchi equilibri sociali e di classe. E’ una esigenza anche della forza lavoro stessa

D: C’è però il tentativo di imbrigliare la mobilità della forza lavoro attraverso leggi, decreti, organizzazione dei flussi…

R: Di fatto però queste leggi non vengono controllare e dunque gli effetti concreti sono quelli di avere una forza lavoro che è particolarmente marginale e ricattabile. La ricattabilità del mercato del lavoro è tale per cui la forza lavoro non si può contenere in un luogo, quindi questa ricattabilità serve a disciplinare e controllare la forza lavoro in modo sempre più duro e preciso. La differenza qui è se questo è fatto in modo assolutamente selvaggio, come accade in Italia attraverso l’uso di forza lavoro irregolare e che quindi è particolarmente impossibilitata a difendersi ed organizzarsi oppure se viene fatto rispettando le regole del gioco e cercando di facilitare la regolarizzazione di questa forza lavoro così che possa più facilmente unirsi alla vecchia forza lavoro indigena e possa così usufruire del tipo di protezioni normative, sindacali, costituzionali che quella ha. In ogni caso si tratta di un indebolimento del vecchio quadro sindacale, ciò è implicito nell’ingresso di nuovi lavoratori, ad esempio in una fabbrica in cui si parla in 20 lingue diverse diventa più complesso parlarsi, organizzarsi, unirsi. Un’altra cosa però è che vi sia chi è costretto a vendere la sua forza lavoro a metà pezzo e sotto banco al caporale, ciò disegna un tipo di sviluppo che probabilmente protegge settori del capitalismo più debole che più difficilmente riuscirebbero a competere, come forse è il caso nel settore della piccola impresa in Spagna e Italia.

Il paradosso è che coloro che sembrano più intensamente combattere la presenza di questo tipo di forza lavoro immigrata attraverso il tipo di leggi e di azione politica che mettono in atto raggiungono lo scopo di procacciarsi una forza lavoro più flessibile e più docile.

A cura di Neva Cocchi, Progetto Melting Pot