Si avvia a conclusione dopo tre anni di dibattimento il processo nei confronti di Elias Bierdel, responsabile del Comitato umanitario Cap Anamur, del Comandante della nave Schmidt, e del suo secondo. La posizione di quest’ultimo, chiamato in causa per contestare una circostanza aggravante (il concorso di tre persone) – è statastralciata e la Procura di Agrigento ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso i fatti contestati.
Il processo ha messo in evidenza gravi contraddizioni nelle deposizioni delle forze di polizia Che furono chiamate dal Ministero dell’Interno a bloccare la nave prima che questa potesse fare ingresso nelle acque territoriali italiane, al punto che persino l’accusa afferma di non potere chiarire il contenuto delle comunicazioni intercorse tra la nave tedesca e gli ufficiali italiani che comunicavano i divieti di ingresso in acque italiane, inizialmente senza fornire alcuna motivazione e solo dopo una settimana dalla richiesta di ingresso, spiegando che i naufraghi non potevano più
essere considerati tali, ma che sarebbero stati trattati alla stregua di comuni clandestini.
Ad Elias Bierdel ed al comandante della nave si contesta in sostanza di non avere comunicato
tempestivamente alle autorità italiane l’intervento di salvataggio, e poi di avere mentito quando dopo tre settimane di blocco avevano lamentato una situazione di stato di necessità, derivante
dalla crescente esasperazione dei naufraghi per fare ingresso comunque nelle acque territoriali italiane.
Continuiamo ad esprimere fiducia nell’operato della magistratura che ha saputo fare emergere tutte le situazioni di fatto che nella immediatezza dei fatti erano rimasti nei rapporti riservati delle
autorità militari e nei rapporti del Ministero dell’Interno. Alla vigilia della sentenza vorremmo
però ricordare alcune circostanze di fatto ed i principi basilari del diritto internazionale del mare che
permetteranno di leggere nel modo più completo la sentenza ormai prossima, e soprattutto di valutarne le conseguenze sul piano dei prossimi casi di soccorso in mare che si verificheranno nelle acque del Canale di Sicilia.
Il supposto ritardo nelle comunicazioni del salvataggio non derivava dall’intenzione di farsi pubblicità come contestato dalla Procura, ma solo dall’esigenza di individuare un porto sicuro (place of safety) nel quale sbarcare i naufraghi, che intendevano presentare richiesta di asilo, in un momento nel quale Malta non garantiva un accesso effettivo alla procedura di asilo, come
nessuna garanzia di un place of safety poteva essere offerta dalla Libia o dalla Tunisia.
Le autorità italiane sapevano bene che a bordo della nave vi erano potenziali richiedenti asilo, al punto che gli stessi esponenti del Ministero dell’Interno hanno dichiarato che la decisione di tenere la Cap Anamur fuori dalle acque territoriali derivava dalla consapevolezza che sulla nave potevano esserci profughi. Una preoccupazione avvertita dai governi ancora oggi, una preoccupazione che sta alla base delle prassi dei respingimenti collettivi per i quali oggi l’Italia è chiamata sul banco degli imputati davanti alla Commissione Europea ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
La pubblicità e il coinvolgimento dei media attorno al caso Cap Anamur comincia solo il 2 luglio del 2004 dopo il rifiuto, peraltro immotivato, di ingresso frapposto dalle autorità italiane, ed aumenta in modo esponenziale dopo il rifiuto di Italia e Germania, in un vertice a Scheffield in Inghilterra, di accogliere i profughi, come sembrava possibile dopo le iniziali trattative tra le organizzazioni umanitarie ed i responsabili dell’immigrazione dei diversi governi.
Nessun profitto, diretto o indiretto poteva peraltro derivare agli imputati dalla pubblicizzazione dell’azione di salvataggio, né le responsabilità decisionali competevano esclusivamente a loro, in
quanto nei primi giorni dopo il salvataggio il Comitato Cap Anamur, proprietario della nave e destinatario dei contributi che venivano versati all’associazione, (che a sua volta retribuiva con un salario fisso mensile tutti i coloro che lavoravano sulla nave umanitaria), assumeva le decisioni e le comunicava al Comandante. Subito dopo l’arrivo a bordo di Elias Bierdel, per le difficoltà nell’operazione di indirizzare i naufraghi verso un posto sicuro, le autorità italiane venivano avvisate tempestivamente, ma queste frapponevano un netto rifiuto all’ingresso Della nave nelle acque territoriali prima che fosse accertato lo status giuridico dei naufragi e la loro stessa provenienza. Operazioni che come conferma la più recente posizione dell’Alto Commissariato delle nazioni Unite per i rifugiati non ricade nella responsabilità del comandante della nave che effettua l’azione di salvataggio, ma compete agli Stati, dopo lo sbarco e la messa in sicurezza, ma anche da un punto di vista giuridico, delle persone. Fino al momento dello sbarco è solo il comandante della nave che può individuare il porto sicuro verso il quale dirigere, in collaborazione con il paese rivierasco, ma senza dovere sottomettere le sue decisioni, fino a quando si trova in acque internazionali, ai mutevoli diktat politici dei governi degli Stati interessati.
La reticenza di Malta, il voltafaccia delle autorità tedesche, che inizialmente sembravano propense ad accettare le domande di asilo dei naufraghi, e la impuntatura del governo italiano che alla fine
negò persino l’ingresso dopo che erano state presentate le domande di asilo, e dunque in violazione della Convenzione di Ginevra, non possono offuscare la condotta di chi aveva svolto un intervento
umanitario finendo per questo sotto processo. In realtà nel mese di luglio del 2004 si verificò per giorni un vero e proprio respingimento collettivo in frontiera, anticipazione delle omologhe prassi che in questi ultimi mesi sono state fortemente contestate alle autorità italiane da autorevoli organismi internazionali.
Nessuno potrà mai sostenere che il comandante di una nave dopo una azione di salvataggio abbia il
dovere di accertare la nazionalità di eventuali richiedenti asilo che dichiarano una determinata nazionalità, o che debba selezionare quelli che a suo avviso siano meritevoli di accedere alla procedura, tutte valutazioni riservate dalla legge alle autorità nazionali dopo lo sbarco, e la circostanza che fossero state consegnate le richieste di asilo alla presenza di qualificati esponenti delle organizzazioni umanitarie italiane e di avvocati, dovrebbe fugare qualsiasi dubbio di
un comportamento in malafede, e dunque di un qualunque elemento di dolo, o ricerca di vantaggio
personale, seppure indiretto, da parte degli imputati. Circostanze come lo sbarco dei naufraghi con indosso la maglietta della associazione Cap Anamur, o la diffusione per internet, e successivamente con video professionali delle vicende occorse dopo l’azione di salvataggio non possono costituire elementi di rilevanza processuale dai quali ricavare a livello indiziario la ricerca di un vantaggio personale da parte di chicchessia.
Tutti gli appartenenti all’associazione Cap Anamur hanno agito sempre e soltanto nell’esclusivo interesse dei naufraghi. Il governo italiano ha invece regolarmente tradito i suoi doveri internazionali di protezione, prima negando accesso al territorio ed alla procedura e poi espellendo i
richiedenti asilo senza concedere un ricorso effettivo, il giorno prima che la Corte Europea dei diritti dell’uomo notificasse un preciso ordine di sospendere l’allontanamento forzato.
Per tutte queste ragioni la sentenza Cap Anamur rischia di essere una sentenza annunciata, non
certo per la volontà dei giudici che dovranno assumerla, ma per le scelte politiche che hanno “prodotto” il caso Cap Anamur, divenuto ormai un caso di scuola, e per il devastante effetto
pedagogico che si è voluto attribuire a questa vicenda. Un monito per tutti coloro che portano a compimento azioni di salvataggio e che non ottemperano agli ordini dei paesi rivieraschi, anche quando questi ordini, come in molti casi che si sono verificati in questi anni, sono in contrasto con il
diritto internazionale con la normativa comunitaria, come il codice delle frontiere Schengen, e con la nostra stessa Costituzione che assegna alla vita ed al diritto di asilo un valore primario.
L’intera vicenda Cap Anamur, e la sentenza ormai prossima rischiano di costituire una condanna
collettiva per tutte le organizzazioni umanitarie e per i giornalisti che hanno fatto il loro dovere documentando tutte le fasi di questa storia. In molti casi, come da ultimo nella vicenda della nave turca Pinar, sono stati proprio i giornalisti e le associazioni umanitarie ad imporre ai governi il rispetto degli obblighi internazionali di protezione, anche a costo di smentire la mancanza di una vera situazione di emergenza, come purtroppo hanno fatto e fanno i ancora i medici inviati dalle autorità di polizia per verificare le condizioni dei “clandestini” a bordo delle navi. Una istanza umanitaria non può dipendere dalle mutevoli posizioni dei governi e non deve diventare fonte di una responsabilità collettiva o di una responsabilità oggettiva per avere compiuto e fatto conoscere un’azione di salvataggio.