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da l'Espresso del 26 febbraio 2010

Che business gli schiavi invisibili

Sfruttati dagli enti e dalle aziende. Costretti a nascondersi per il pacchetto sicurezza. Privi di assistenza medica. Ecco le Rosarno del Nord

di Fabrizio Gatti

Non c’è soltanto Rosarno. Esiste un volto della schiavitù tutto milanese, tutto lombardo. Con tentacoli nell’agricoltura meccanizzata del Veneto, nella sanità in Piemonte, perfino dentro la grande industria. Operai messi a lavorare senza stipendio. Padri di famiglia minacciati e picchiati dal capo. Solo che al Nord gli sfruttatori non sono agricoltori in bilico tra la ‘ndrangheta e i prezzi bassi della grande distribuzione. Ecco Milano, capitale del modello sicurezza del centrodestra, dove i committenti di queste opere macchiate di sangue o di illegalità sono spesso gli enti pubblici: il Comune, la Regione, l’Azienda trasporti municipale. Trovi storie di schiavi perfino dentro la nuova sede regionale in via Gioia, il grattacielo più alto della città voluto da Roberto Formigoni: il 1 luglio 2009 un gessista di 38 anni protesta per il mancato pagamento di tutti i mesi arretrati, il capo lo prende a pugni e gli morde l’occhio destro. Denunce anche negli appalti di Poste Italiane, di Banca Intesa, dell’Aler di Lecco, l’azienda per l’edilizia pubblica. Non si sottraggono nemmeno le metropoli governate dal centrosinistra: a Torino la Asl 4 ha dovuto usare soldi dei contribuenti per sanare la situazione di sei operai in servizio in un ospedale.

Ovviamente si tratta sempre di lavoratori stranieri, a volte clandestini. Perché sono più ricattabili. Perché se non accettano il contratto capestro perdono la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno. Perché tanto non votano. Perché la caccia all’uomo scatenata a Milano dal sindaco Letizia Moratti e dal vicesindaco Riccardo De Corato ha spinto un esercito di muratori, operai, colf, badanti a rifugiarsi come cani nei ruderi della periferia. Vivono senza acqua, senza luce, senza riscaldamento. Solo a Milano sarebbero 8 mila le persone costrette a nascondersi perché le condizioni di lavoro non hanno consentito loro di avere o di rinnovare il permesso. Una città invisibile: quattro volte il numero di stranieri ridotti alla fame, spinti alla rivolta e cacciati da Rosarno. Non è solo una questione tra immigrati: “In gioco ci sono le garanzie che regolano la vita di tutti i cittadini. A cominciare dall’articolo 1 della Costituzione”, dice Francesca Terzoni, tra le organizzatrici dello sciopero e delle manifestazioni nelle città italiane lunedì primo marzo (informazioni su www.primomarzo2010.it). È la prima volta, dopo anni di propaganda xenofoba, in cui stranieri e italiani si ritrovano uniti con un obiettivo comune. Per questo la giornata, che avrà come simbolo il colore giallo, ha ricevuto il sostegno delle principali organizzazioni sindacali e delle associazioni in tutte le regioni.

La trasformazione in reato della permanenza in Italia senza documenti in regola, voluta dal centrodestra, ha ulteriormente peggiorato la vita di migliaia di stranieri. Anche di quelli che hanno il permesso di soggiorno in scadenza e che per rinnovarlo sono costretti ad accettare qualsiasi tipo di contratto. Per incontrarli, bisogna andare nell’ambulatorio dell’associazione Naga dove medici volontari garantiscono l’assistenza non d’urgenza che la sanità pubblica nega agli irregolari. Oppure bisogna camminare ore in periferia. Vivono mimetizzati nei campi. Per loro anche gli appartamenti sovraffollati di via Padova sono un lusso. Eccone quattro dentro una cabina elettrica dismessa. Due in una baracca. Altri in qualche casa abbandonata. Questi sono albanesi e moldavi. Di giorno si spostano nei cantieri. Le donne si ripuliscono le scarpe dal fango e vanno a lavorare come cameriere o baby-sitter per famiglie che non conoscono nulla di loro. La sera ricompaiono qui. “L’impatto del pacchetto sicurezza sul tessuto cittadino è devastante”, sostiene Pietro Massarotto, presidente del Naga, “la gente si nasconde, si rompono i legami sociali”.

In mezzo ai terreni di Ligresti, alcune ditte selezionano e riciclano rifiuti. Operai tutti stranieri. Perfino i cani da guardia che 12 anni fa abbaiavano sempre hanno perso il posto. Sono stati sostituiti da immigrati, qualcuno senza documenti. Un pastore tedesco o un rottweiler lo devi lavare, curare. Devi portargli da mangiare due volte al giorno compresi Natale e Ferragosto. Un immigrato no: anche se guadagna pochi soldi, si procura i pasti da solo. E lo puoi sempre cacciare. La legge punisce l’abbandono dei cani, non degli stranieri. In 12 anni i loro padroni hanno guadagnato. Il risultato si vede all’ingresso: i container e le baracche di lamiera sono stati sostituiti da uffici in muratura con finestre a specchio e telecamere. “Il sistema produttivo italiano aumenta profitti e rendite, ma scarica i costi sui lavoratori autonomi delle microimprese”, osserva Marco Rovelli nel suo libro ‘Servi’ (Feltrinelli, 15 euro): “Opposte a questa nebulosa ci sono le vere imprese, quelle mediograndi. Le quali, secondo un’indagine di Mediobanca del 2006, nel decennio 1996/2005 hanno ridotto ininterrottamente gli occupati, accumulando nello stesso tempo profitti in misura mai così alta nella storia del Paese, determinando lo scarto di reddito tra gli strati più ricchi e quelli meno abbienti: il più grande dell’Ue”.

Questa trasformazione economica è ben descritta nelle cause raccolte a Milano dall’associazione Tribunale dell’immigrato. “I lavoratori stranieri”, spiega l’avvocato Domenico Tambasco, “sono diventati ammortizzatori societari: si ammazzano di fatica e non vengono pagati. In questo modo le società scaricano i costi che non riescono a sopportare”. Magari sono costi insopportabili proprio perché la gara è stata vinta con un ribasso impossibile da rispettare. Secondo dati Istat del 2006, su un campione di 16 milioni e mezzo di lavoratori, sono circa otto milioni e mezzo quelli impiegati in aziende con meno di 15 persone e oltre 6 milioni quelli che lavorano in imprese che non superano in media i 2,7 dipendenti. È il frazionamento della manodopera. Consente di ridurne il potere contrattuale e concentrare i guadagni tra le grandi imprese che gestiscono l’appalto.

La costruzione dell’Altra sede, nome del progetto del nuovo grattacielo della Regione Lombardia, che qualche milanese chiama ora il ‘Formigone’, è finita in due cause avviate dal Tribunale dell’immigrato. L’incarico per l’opera simbolo di Milano l’ha vinto il Consorzio Torre, guidato da Impregilo e altre grosse società. La denuncia presentata alla direzione provinciale del Lavoro riguarda un subappalto affidato a una piccola ditta di proprietà di un imprenditore egiziano, che ingaggia operai tra i connazionali. Uno dei muratori specializzati, il gessista di 38 anni, dichiara di essere stato assunto come manovale generico con contratto fittizio per un mese, di aver lavorato due mesi a 60 ore a settimana e di essere stato cacciato con licenziamento orale, senza un soldo. Il primo luglio il muratore egiziano rintraccia l’imprenditore e chiede di essere pagato. L’operaio finisce al pronto soccorso del Policlinico con un morso all’occhio. Nelle stesse condizioni, un mese di lavoro senza paga, è un altro operaio della stessa impresa. Nella citazione viene chiamata in causa la filiera degli appalti: la Ana service che avrebbe ingaggiato i due operai, la Coiver Contract, il Consorzio Torre e i committenti pubblici della grande opera, Infrastrutture lombarde spa e Regione Lombardia. “Di solito il committente, in questo caso l’ente pubblico, dichiara di non sapere nulla”, spiega Tambasco: “Non appena ha notizia della causa, blocca i pagamenti e la ditta citata preferisce conciliare”. L’accordo tra l’imprenditore egiziano e l’operaio aggredito viene firmato in un ufficio della Uil il 25 settembre: una somma omnicomprensiva per mesi e straordinari di 4.524 euro. In cambio il muratore deve ritirare la querela per il morso all’occhio. E così avviene. L’altro operaio ottiene 2.524 euro. Soldi con cui sopravvivere per chissà quanto. Perché i due restano senza lavoro.

La conciliazione non è comunque un’ammissione di responsabilità. Il 17 luglio 2009 l’Asl Torino 4 davanti al Tribunale di Monza accetta di pagare 8.050 euro come compenso e arretrati a sei operai egiziani. La squadra ha lavorato a 65 ore la settimana, domeniche comprese, alla ristrutturazione dell’ospedale di Ciriè. E, raggiunti gli obiettivi, è stata allontanata dal cantiere con licenziamento orale. Uno degli operai, 41 anni, in sette mesi di lavoro ha ricevuto dall’impresa che si è aggiudicata il subappalto soltanto 2.506 euro: 358 euro al mese. Per il resto è stato pagato con assegni scoperti. Secondo i calcoli, vanta arretrati per 23.425 euro. Ma, essendo da mesi senza stipendio, non può permettersi di attendere la fine di una lunga causa: così si accontenta di 4.500 euro, anticipati metà dall’impresa che lo aveva ingaggiato e metà dalla Asl di Torino, con diritto di rivalersi poi sulle ditte. Un risparmio sul costo del lavoro di 18.925 euro. Sfruttare gli immigrati conviene comunque.

Chi protesta rischia di rimanere disoccupato e di perdere il permesso di soggiorno. In un’altra causa, contro la Coteco service, una cooperativa italiana che ha vinto l’appalto per la pulizia e il rifornimento degli autobus dell’Atm a Milano, la sezione Lavoro del Tribunale descrive gravi episodi di razzismo. Nella sentenza, che un anno fa sospende il trasferimento forzato di un operaio egiziano dal deposito Atm di via Leoncavallo, si riportano gli insulti del capoturno: “Sta’ zitto e lavora, animale”. Scrive il giudice Renata Peragallo: “È risultato accertato un clima distorto e intimidatorio presso il posto di lavoro”, dove gli operai subiscono minacce perché dichiarino il falso al processo.

Un’altra causa per arretrati non pagati da quattro mesi riguarda i cantieri per 160 appartamenti di edilizia popolare a Milano, Bollate e Legnano appaltati dall’Aler. L’impresa sotto accusa cede il ramo d’azienda e all’improvviso dichiara fallimento. I lavoratori vedranno i loro soldi soltanto alla fine della procedura fallimentare. E se non ci saranno più spiccioli, pagherà l’Inps. In un altro cantiere per sette alloggi popolari appaltati dall’Aler di Lecco, vengono arruolati quattro egiziani senza permesso di soggiorno. Lavorano dal settembre 2006 al gennaio 2007 e non vedono mai un soldo. Scattata la denuncia, l’Aler blocca i pagamenti e l’impresa accetta di conciliare. Ma i quattro restano senza lavoro: ora, con il pacchetto sicurezza, non potrebbero nemmeno presentarsi ai giudici perché rischierebbero l’arresto. Ancora una causa davanti al Tribunale di Monza e questa volta si tratta di varie opere commissionate da Poste Italiane a Sondrio e da Banca Intesa in provincia di Pavia. Secondo la denuncia, l’impresa ingaggiata fa lavorare un operaio egiziano dal lunedì alla domenica per 81 ore la settimana. Gli schiavi li incontri anche nel ricco Nord-est. “L’impiego di stranieri è fondamentale nell’agricoltura veneta”, spiega Alessandra Stivali, responsabile dell’ufficio immigrazione della Cgil a Padova: “Con i ritardi burocratici ci ritroviamo con lavoratori stagionali che entrano in Italia quando la raccolta è terminata. Gli agricoltori si rivolgono così a chi trovano, regolari e non. Abbiamo casi di donne impiegate nella raccolta invernale del radicchio e ammassate a dormire in tuguri”. Pure al Nord sanno essere spietati. Come quell’imprenditore milanese che a Paderno Dugnano produce cosmetici per marche famose. Pretende che un suo operaio tunisino gli porti subito il permesso di soggiorno rinnovato. Una pratica che richiede fino a due anni, contro i 20 giorni imposti dalla legge. Non è colpa dell’operaio se l’Italia funziona così. Eppure l’imprenditore gli spedisce un’ammonizione scritta. Con un avviso: “Voglia prendere nota che le addebiteremo euro 3,40 dallo stipendio quale rimborso spese postali per la raccomandata”.