Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

da Ravenna&dintorni del 4 febbraio 2010

Ravenna – Siamo una città razzista?

di Franck Viderot

CHI HA PAURA DELL’UOMO NERO
Sulla soglia incontro i miei vicini dell’appartamento di sopra che in risposta al mio “bon giorno” dall’accento molto francese, senza prendersi il disturbo di rispondermi, mi sparano una raffica di sguardi uno più fulminante dell’altro. Per fortuna uno sguardo non ha mai ammazzato nessuno, altrimenti morirei sul colpo. Prendo il motorino dal sottoscala del condominio. Lo stesso motorino che, di recente, è stato al centro di una polemica nel palazzo, perché senza targa: i miei vicini (gli stessi di prima) hanno chiamato il proprietario per informarlo che il ragazzo di colore aveva portato in casa uno scooter senza targa, forse rubato. Vagli a spiegare che la Motorizzazione non aveva ancora evaso la mia pratica. In ogni caso è meglio il motorino perché qualche giorno fa sull’autobus è successo un episodio che mi ha lasciato di stucco: due ragazzini non volevano sedersi vicino a me. Eppure ascoltavano dall’i pod Michael Jackson e parlavano della bellezza di Londra, da dove erano appena tornati. Appena mi sono alzato, un’altra signora ha preso il mio posto e si sono seduti vicino a lei. Londra è la città più multiculturale d’Europa ed è proprio lì la sua bellezza. Si vede che non ci hanno imparato niente. E poi ascoltano Micheal Jackson, che è nero. D’accordo, si è sbiancato con il tempo. Forse dovrei fare la stessa cosa? Così, un po’ infreddolito, arrivo in redazione, per il tirocinio di giornalismo. Tutto fila liscio fino alle tredici, quando torno a casa per mangiare qualcosa al volo. Un odore di spezie bruciate proveniente dall’appartamento dei brasiliani riempie tutto il condominio. Mi fermo un attimo per respirarne un bel po’: mi ricorda la cucina della mia mamma. A quel punto, passa la giovane coppia del piano terra bestemiando e lamentandosi della “puzza”.
MI GUARDANO STORTO MA IO SONO ELEGANTE E PROFUMATO
Allora salgo in casa, mi cambio e sono pronto per andare verso il bar dove, la sera, faccio il cameriere. Sì, proprio il cameriere, cioè sto in mezzo alla gente, mi faccio vedere e non sono relegato in cucina. Una vera promozione per tutti i neri della città. E un’occasione per far crollare qualsiasi pregiudizio nei confronti dei ravennati. Al bar, sono in contatto con i clienti ed è bellissimo. Posso farmi un’idea dei ravennati vivendo sulla mia pelle il contatto diretto. Arrivo al bar verso le diciassette e trenta. È pieno di gente nuova che non ho mai visto da quando lavoro lì. Mi sorbisco la solita doccia di sguardi, non sono tutti cattivi perché c’è anche chi ammira la mia eleganza. Mi dirigo direttamente verso l’angolo più isolato del bar dove un gruppo d’intellettuali, appena usciti dall’ufficio, prende l’aperitivo. Al mio arrivo si girano tutti all’unisono, con la precisione d’un gruppo di ballerini. E poi gli sguardi si rabbuiano man mano che mi avvicino: sapete lo sguardo che si lancia al “vu’ compra” o al parcheggiatore abusivo? Solo che io sono vestito bene e profumato. Dai loro sguardi si capisce che qualcosa non torna. Vengo salvato dall’avvocatessa del tavolo accanto, un’habitué del locale, che mi chiama per nome e mi bacia pure prima di chiedere un altro punch cubano. Da quel momento il gruppo abbassa la guardia e si rilassa. Il resto della serata passa senza problemi. È quasi notte fonda quando arriva un gruppo di quattro persone: due italiani cinquantenni dall’accento meridionale e due ragazze ventenni dall’est Europa. Avevano una puzza sotto al naso da far sfigurare le star di Hollywood. Subito mi chiedono di chiamare un altro cameriere per servirli. E io eseguo l’ordine senza aprir bocca. Se lo dicessi al mio titolare, dovrebbero vedersela con lui, che mi difenderebbe a spada tratta, ma preferisco incassare lo schiaffo piangendo dentro di me, in silenzio. Tutto sommato, la serata è andata bene e non c’è stato nemmeno nessuno a chiedermi cosa ne penso di Obama. Il mio titolare è stato contento del mio lavoro.
LA PARANOIA DEL FAZZOLETTO VERDE
Sono le tre e mezza della mattina, abbiamo chiuso, andiamo a casa. In via Mazzini, deserta, mi trovo davanti a un gruppo di ragazzi, tra cui uno con un foulard verde Lega al collo. Il cuore mi si ferma, trattengo il respiro, sudo e ci sono appena due gradi sopra lo zero. Oddio, adesso mi picchiano. Penso: sono un uomo morto. E invece, si avvicinano senza nemmeno vedermi. E quello che vedevo non è un foulard della Lega Nord ma il cappuccio della maglia che spunta da sotto il capotto. Che fortuna. Adesso sono a letto. Come al solito faccio un bilancio della giornata. Penso a quel gruppo di signori che non voleva farsi servire da me. Qual è stata la cosa che ho pensato? Povero me: anche i “terroni” e gli extracomunitari si permettono di essere razzisti. E poi, con un po’ di imbarazzo, mi sono accorto di essere anch’io pieno di pregiudizi e forse addirittura un po’ razzista: perché uno del sud, anche se è stato vittima di discriminazione, non ha il diritto di essere razzista? Perché un’extra-comunitaria, pur essendo straniera come me, non può essere razzista? Dopotutto il razzismo, la xenofobia, i pregiudizi sono sentimenti umani. E, poi, se anche fossero stati ravennati doc, non mi avrebbero ferito di meno. Non importa il marchio del coltello, la ferita fa male lo stesso. E penso anche al ragazzo di via Mazzini, se invece che un cappuccio, avesse indossato un foulard della Lega Nord, che rischi avrei corso? Mica tutti i leghisti sono ultra fascisti che picchiano la gente solo perché non fa parte della “razza ariana”. Alla fine rischio io stesso di essere vittima di quella paura che tanti cercano di inculcare agli italiani nei miei confronti. Insomma, dovrei essere io a far paura a loro, no? Sono quasi le cinque e ho bisogno di dormire. Domani devo essere al giornale alle nove.