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Corte di Giustizia europea: la direttiva n. 2003/86 deve essere interpretata alla luce dell’obiettivo di favorire la riunificazione familiare quale diritto umano fondamentale

La sentenza della Corte di Giustizia europea dd. 4 marzo 2010 nel caso Chakroun c. Paesi Bassi (C-578/08) introduce alcuni importanti giudizi interpretativi delle norme della direttiva n. 2003/86 in materia di ricongiungimento familiare.
Secondo i giudici della Corte, il criterio della disponibilità di risorse economiche stabili, regolari e sufficienti per il mantenimento di sé e dei propri familiari tali da escludere il ricorso al sistema di assistenza sociale dello Stato membro, richiesto dalla direttiva n. 2003/86 ai fini della disciplina dell’autorizzazione all’ingresso o al soggiorno per motivi di ricongiungimento familiare, non consente ad uno Stato membro di introdurre un livello minimo di reddito così elevato da escludere il possibile ricorso a forme di assistenza sociale erogate dalle autorità comunali per far fronte a necessità straordinarie o impreviste. Inoltre, la direttiva deve essere interpretata alla luce dell’obiettivo di favorire l’istituto del ricongiungimento familiare e di garantire il rispetto del diritto all’unità familiare quale diritto umano fondamentale.
Di conseguenza, gli Stati possono indicare una certa somma come importo di riferimento, tenendo conto del salario minimo ovvero della pensione minima nazionale, ma non possono imporre un importo di reddito minimo al di sotto del quale qualsiasi ricongiungimento familiare sarebbe automaticamente respinto, a prescindere da un esame concreto della situazione di ciascun richiedente, poiché in tale situazione si verrebbe meno agli obblighi di individualizzazione dell’esame delle domande di ricongiungimento previsti dall’art. 17 della direttiva (necessità di tener conto della natura e solidità dei vincoli familiari, come ad es. la durata dell’unione matrimoniale, della durata del soggiorno nello Stato membro, dei legami familiari, culturali o sociali con il Paese d’origine).

La direttiva non consente di introdurre nelle legislazioni nazionali di trasposizione una disparità di trattamento a seconda che i vincoli familiari si siano formati rispettivamente anteriormente o successivamente all’arrivo del richiedente nel Paese membro.

Una differenza di trattamento è infatti prevista nella direttiva soltanto con riferimento ai rifugiati (art. 9 c. 2) per i quali gli Stati membri possono prevedere delle disposizioni più favorevoli allorchè i loro vincoli familiari siano anteriori al loro ingresso nello Stato membro.

Poichè la direttiva ha la funzione di favorire la realizzazione di un diritto umano fondamentale, essa non può essere interpretata dagli Stati membri in maniera restrittiva, con il risultato di ampliare arbitrariamente gli stretti margini di discrezionalità fissati dall’art. 7 n. 1 circa i requisiti di alloggio e reddito per l’esercizio del diritto.

La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea trae origine da una domanda pregiudiziale avanzata dal giudice olandese riguardante la legislazione nazionale dei Paesi Bassi che prevede il requisito di un reddito pari al 120% del salario minimo per il riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare quando i vincoli familiari con il coniuge si sono formati successivamente all’ingresso e all’inizio del soggiorno dell’interessato in Olanda. Tale soglia di reddito è in generale prevista come limite per l’accesso non solo agli schemi di assistenza sociale previsti dallo Stato centrale, ma anche alle forme di assistenza sociale speciali previste dalle amministrazioni comunali in relazioni a bisogni specifici. Inoltre la legislazione olandese prevede un requisito di reddito inferiore rispetto a quello citato, ai fini dell’accesso al ricongiungimento familiare qualora i vincoli familiari si siano formati anteriormente all’inizio del soggiorno del richiedente nei Paesi Bassi. Tale distinzione di trattamento è stata dunque giudicata dalla Corte di Giustizia non conforme alla direttiva n. 2003/86.

La sentenza della Corte di Giustizia europea è suscettibile di avere implicazioni anche in relazione alla normativa italiana qualora quest’ultima venga interpretata nel senso di impedire automaticamente il rilascio del nulla-osta al ricongiungimento per la mancanza del reddito minimo previsto dall’art. 29 del d.lgs. n. 286/98 senza una valutazione individualizzata che tenga conto, in un’ottica di bilanciamento, la possibilità di far prevalere elementi quali ad es. la durata dell’unione coniugale, che possano invece compensare scostamenti dall’importo reddituale di riferimento.

Ulteriormente, vale la pena sottolineare i richiami della Corte di giustizia alla necessità di interpretare correttamente i margini di discrezionalità concessi dalla direttiva agli Stati membri per disciplinare i requisiti di reddito e di alloggio in modo da non consentire l’introduzione di criteri arbitrari contrari agli scopi e agli obiettivi proclamati della direttiva medesima, quelli cioè di favorire il ricongiungimento familiare quale diritto soggettivo fondamentale protetto dal sistema europeo dei diritti umani. In tale ottica, appare scarsamente coerente con tali obblighi comunitari la modifica apportata dall’art. 1 c. 19 della Legge 94/2009 all’art 29 del T.U. immigrazione, con riferimento al requisito dell’ idoneità abitativa dell’alloggio del richiedente il ricongiungimento familiare, che deve essere accertato dai competenti uffici comunali sulla base di criteri che la legislazione nazionale non ha inteso esattamente precisare.

Com’è noto, la circolare del Ministero dell’Interno n. 7170 dd. 18 novembre 2009 ha fatto presente che i Comuni, nel rilasciare la certificazione relativa all’idoneità abitativa, possono fare riferimento alla normativa contenuta nel Decreto del 5 luglio 1975 del Ministero della Sanità, che stabilisce i requisiti igienico-sanitari principali dei locali di abitazione e che precisa anche i requisiti minimi di superficie degli alloggi, in relazione al numero previsto degli occupanti. Tale istruzione ministeriale è certamente coerente con la necessità di assicurare paramenti di idoneità abitativa uniformi su tutto il territorio nazionale, avendo in considerazione il fatto che un’eccessiva ed arbitraria discrezionalità lasciata agli enti locali in una materia attinente alle condizioni di ingresso dello straniero sul territorio nazionale finirebbe per violare gli art. 10 c. 2 Cost e 117 c. 2 lett. b) Cost per cui la materia dell’immigrazione è sottoposta alla legislazione esclusiva dello Stato, nonché l’art. 7 della direttiva 2003/86/CE che dispone che l’autorizzazione al ricongiungimento familiare possa essere sottoposta dalla legislazione nazionale “alla disponibilità di un alloggio considerato normale e che corrisponda alle norme generali di sicurezza e di salute pubblica in vigore nello Stato membro”. Tuttavia, non sembra possa ritenersi comunque conforme agli obblighi comunitari che tale questione attinente ai requisiti soggettivi al ricongiungimento quale diritto soggettivo fondamentale venga ad essere sostanzialmente “regolata” per via amministrativa, quando la legislazione nazionale fa invece riferimento a criteri vaghi ed indeterminati che possono lasciare spazio ad arbitrarie interpretazioni locali.

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