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Dal Cra di Vincennes (Parigi), la storia di K: dal 2006 tra i confini d’Europa, cercando l’asilo che non c’è

K. è afghano, ma ha lasciato il suo paese nel 2006. Dopo aver superato le frontiere di Iran e Turchia era arrivato in Grecia, attraversando a piedi la regione di Evros.
Arrestato dalla polizia greca, K. era stato subito internato nel centro di detenzione di Venna: tre mesi di reclusione, nessuna possibilità di chiedere asilo politico, il rilascio obbligato delle sue impronte digitali. Da quel momento in poi la sua storia di richiedente protezione internazionale in Europa era apparsa segnata: il Regolamento CE 342/2003, il cosiddetto “Dublino II” – quello per cui bisogna chiedere asilo nel primo paese europeo in cui si fa ingresso – lo avrebbe perseguitato dovunque.
In Grecia, infatti, l’asilo non esiste, come dimostrano i dati ufficiali di accoglimento delle richieste di protezione (0,03%), ma anche i rapporti di Amnesty International, di Human Rights Watch e della Commissione europea.
Per questo motivo i profughi cercano di abbandonare questo paese prima possibile, usandolo come luogo di transito obbligato verso un’Europa che assomigli un po’ di più a quei racconti sulla democrazia e i diritti umani che ogni tanto hanno ascoltato.
Anche a K., quindi, non era rimasta altra scelta che raggiungere Patrasso, e provare a partire per l’Italia nascosto sotto un tir. Due volte respinto dalla polizia di frontiera italiana, al terzo tentativo era riuscito finalmente a chiedere asilo politico a Venezia, ed era stato accolto al Centro Boa. Per lui, un “caso-Dublino”, l’Italia era solo un’illusione, ma in quell’illusione si era immedesimato davvero: al contrario di tanti altri aveva deciso di fermarsi, di provare la vita a Venezia.
Aveva imparato l’italiano a una rapidità incredibile, aveva frequentato un corso professionale. In otto mesi era quasi riuscito a gettare le basi per un nuovo futuro possibile. Nel frattempo, però, le leggi europee avevano continuato a incombere su di lui: nel bel mezzo di quel percorso così promettente, era stato convocato in questura per accertamenti, e si era fatto fregare.
Di solito, quando si è nella sua condizione, ci si fa furbi e in questura, specie dopo i primi due rinnovi del permesso di soggiorno provvisorio, non ci si va da soli. Meglio avere un avvocato e se non lo si trova è il caso di buttarsi malati.
K., invece, ottimista ma soprattutto stufo di farsi tanti problemi e voglioso di avere un po’ di fiducia nella cose, quella mattina era andato a fare la fila. Quando era toccato a lui presentarsi allo sportello, due poliziotti lo avevano caricato a forza su una volante: “Tranquillo, devi tornartene in Grecia”, gli avevano detto, “ma vedrai che potrai chiedere asilo lì, raccoglieranno la tua domanda una volta varcata la frontiera aeroportuale”.
All’aeroporto di Atene, ovviamente, ad aspettare K. non c’era nessuno tranne la polizia greca. Era semplicemente tornato all’inferno.
Nuovamente arrestato, secondo una prassi frequentemente attuata per aggirare i problemi diplomatici tra Grecia e Turchia, era stato condotto illegalmente al confine turco e lì abbandonato. Solo rischiando ancora una volta la vita, era riuscito a tornare indietro e a raggiunge di nuovo Patrasso per ricominciare a provare ogni sera a imbarcarsi di nascosto su una delle navi per l’Italia, e cercare così, ancora una volta, di fuggire dalla Grecia in cerca di asilo.
È a quel punto della sua storia, nel febbraio del 2009,
che la delegazione della rete di associazioni veneziane Tuttiidirittiumanipertutti lo ha incontrato: era uno tra i tremila profughi afgani che fino al luglio dello stesso anno(fino allo sgombero ad opera della polizia) avevano affollato il campo di Patrasso
K. Ci aveva aiutato perché comprendeva la nostra lingua, e riusciva a spiegarci meglio degli altri cosa significasse restare intrappolati in Grecia.
Lo avevamo lasciato lì, con il suo cappellino con scritto sopra “Venezia”, e il sogno di riprendere quella vita interrotta di colpo, senza nessuna ragione per lui comprensibile.
Nell’autunno del 2009, però, K. sarebbe riuscito ancora una volta a imbarcarsi e fuggire dalla Repubblica ellenica raggiungendo L’Italia. Stavolta, per ovvie ragioni, avrebbe deciso di proseguire subito, ancora clandestinamente, alla ricerca di un paese che potesse finalmente riconoscere i suoi diritti.
Quando lo avevo incontrato di nuovo nel giardinetto del X arrondissement di Parigi, dove tutt’oggi si affollano gli afgani in transito, il suo cellulare era pieno di foto della capitale da cartolina che lo ritraevano come un turista qualunque: stavolta aveva in testa il cappellino della Tour Eiffel.
L’importante è prendere la metro e non andare troppo in giro a piedi”, mi aveva spiegato. Aveva riso, e poi era diventato serio.
“è da quattro anni che vago per l’Europa. Adesso ho deciso che qualunque cosa andrà bene. Anche la legione straniera, qui in Francia. Tutto, pur di avere un permesso di soggiorno“.
La sua richiesta di asilo, infatti, anche stavolta sembrava essersi arenata. Per fortuna, in Francia K si era imbattuto in Migreurop, che aveva seguito fin da subito i rivolgimenti del suo caso.
È proprio con Sara, la coordinatrice di questa rete internazionale di associazioni, che, la mattina del 26 marzo 2010, siamo entrate al Cra di Vincennes, divenuto tristemente famoso nel giugno del 2008, per andare a trovare il nostro amico ancora una volta catturato, ancora una volta perseguitato a causa del Regolamento di Dublino II.
Anche la Francia, infatti, ha dichiarato di non volerlo, come non lo aveva voluto l’Italia. Quelle impronte lasciate in Grecia sembrano davvero non avergli lasciato alcuna via di scampo.

Con Sara e con me, al Cra di Vincennes, è venuta anche Regina, una ricercatrice greca che aveva incontrato K. in un altro momento ancora del suo percorso migratorio. La polizia che gestisce il centro è rimasta stupita dalla nostra presenza, ma le visite sono concesse a chiunque, e hanno dovuto lasciarci passare dopo averci controllato le borse e i vestiti.
Fa impressione il Cra di Vincennes. In una zona verde, di fianco all’ippodromo, le persone fanno footing intorno ai bastioni di questo vecchio forte circondato da due giri di sbarre e dal filo spinato.
Per raggiungere K. abbiamo dovuto attraversare due cortili: nel secondo c’erano più di 50 tra volanti e camionette della polizia. Le guardie armate erano dovunque. “Ma non è una prigione”, ha voluto dirci uno dei poliziotti. “Solo che mica si possono accogliere tutti”.
Siamo state scortate fino a una piccola scala di ferro, e poi siamo entrate nella stanza delle visite. Tre tavoli, tre detenuti. Seduto dietro a quello di mezzo c’era K., stordito dal fatto di vedere le sue tre amiche arrivare lì tutte insieme, da tre parti diverse d’Europa.
Accanto a noi, ha scritto una lettera alla Corte europea dei diritti umani, chiedendo di fermare, ex articolo 39, la sua ennesima deportazione, stavolta dalla Francia verso la Grecia. Ci ha detto che eviterà di mangiare perché sa, come lo sanno tutti i migranti, che, quando li devono mettere su un aereo, prima danno loro qualcosa che li tramortisca, per far sì che si risveglino già a bordo, coi motori accesi.