Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

La narrazione dell’immigrazione in Italia. Da Lampedusa a Rosarno: cattiva informazione e pratiche di resistenza

di Alessandra Sciurba, Progetto Melting Pot Europa

Abstract: Parte integrante delle politiche migratorie europee appaiono “i discorsi ufficiali”, prodotti
negli ultimi decenni sull’immigrazione grazie soprattutto all’opera dei media mainstream. Molti
giornalisti e attivisti dell’informazione indipendente hanno cercato di opporsi alle retoriche diffuse,
solitamente di stampo allarmistico, che circondano il fenomeno. Non di rado, però, anche le inchieste
più coraggiose hanno portato a risultati contraddittori e ambigui. Particolarmente illustrativa in questo
senso appare l’analisi di quale sia stato il ruolo dell’informazione e della “narrazione” ufficiale, ma
anche di quella “engagée”, rispetto a tre particolari scenari italiani dell’immigrazione: la frontiera
spettacolarizzata dell’isola di Lampedusa, i porti dell’Adriatico dove vengono respinti i profughi in
arrivo dalla Grecia e Rosarno, città del Sud la cui agricoltura sopravvive da anni grazie allo
sfruttamento lavorativo della forza lavoro migrante. Lavorare da anni per un sito di informazione
indipendente come Melting Pot Europa (www.meltingpot.org) ha permesso a chi scrive di impegnarsi
direttamente nell’attività di contro-informazione sulle tematiche delle migrazioni, e di vivere in prima
persona le difficoltà di svolgere un simile mestiere rispetto a un tema così complesso e tanto soggetto
alle più diverse forme di strumentalizzazione.

1 – Introduzione.
In questa relazione parlerò del tema delle migrazioni osservato dal punto di vista della loro
narrazione. La rilevanza che questo fenomeno ha assunto oggi all’interno delle società occidentali è
rappresentata infatti anche dalla quantità di dicorsi che intorno ad esso vengono continuamente
prodotti. Paragonerò costantemente l’attività svolta dai media mainstrem e le inchieste indipendenti
portate avanti da chi cerca, sul tema delle migrazioni, di produrre una contro-informazione che si
opponga alle narrazioni ufficiali. Prenderò ad esempio le narrazioni che si sono sviluppate negli
ultimi anni intorno a tre scenari differenti in cui si sono prodotti alcuni tra gli effetti più significativi
delle politiche migratorie italiane: l’isola di Lampedusa, i porti dell’Adriatico e la cittadina di
Rosarno, in Calabria. La tesi da dimostrare è che la comunicazione e l’informazione costruite intorno
agli eventi connessi alle migrazioni abbiano effetti particolarmente performativi della realtà stessa
che ne è oggetto, e comportino quindi una “responsabilità” diretta in capo a chi produce narrazioni
ad essa relative.
Da prendere in considerazione sono innanzi tutto le retoriche ufficiali, quelle costruite attraverso le
parole delle autorità istituzionali e dei media mainstream. Michel Foucault ha lasciato notevoli
pagine di riflessione sull’importanza di questo tipo di discorsi come elementi produttori di verità, e
sulla necessità strutturale che di essi ha ogni tipo di potere ufficiale. L’analisi foucaultina della
potenza dei discorsi ufficiali affonda le sue radici nel periodo del grande internamento, momento
storico durante il quale viene elaborata e si afferma quell’idea di Norma, da cui discende il concetto
di Normale e a partire dalla quale la Normalizzazione dei soggetti e dei fenomeni si afferma come
principale modalità di governo delle vite (1). Sono i discorsi ufficiali che producono e sanciscono l’idea
della norma e dell’anormalità. L’attenzione che si sviluppò tra la fine del XVII e il XVIII secolo in
relazione all’individualità di chi veniva definito come anormale, della sua storia autobiografica,
dell’interpretazione dei suoi gesti, risulta scomparsa nell’odierno processo di massificazione della
diversità che sta investendo i meccanismi di confinamento e autoconfinamento della società
contemporanea: dovendo definirla, la nostra epoca appare piuttosto quella delle “autobiografie negate (2)”.
Nonostante ciò, ancora ben si attaglia alla rappresentazione della realtà contemporanea la
definizione foucaultiana di questo tipo di discorsi ufficiali come discorsi che, oggi come allora,
“possono uccidere” mentre “fanno ridere (3)”, per il loro disancoramento dai dati oggettivi e dalla
razionalità che dovrebbe invece supportare ogni tipo di dichiarazione pubblica e istituzionale. Si
tratta infatti di discorsi “grotteschi” elevati allo statuto di discorsi scientifici, e pertanto carichi di
conseguenze sull’esistenza di chi ne diviene oggetto; oggi, ad esempio, di fronte alla violazione che
commette un migrante solo perché privo di regolare permesso di soggiorno, tali discorsi “spostano il
livello di realtà dell’infrazione, poiché ciò che questi comportamenti trasgrediscono non è la legge,
ma ciò contro cui si ergono è un livello di sviluppo ottimale, un criterio di realtà, delle qualificazioni
morali, delle regole etiche (4)”. È seguendo slittamenti semantici di questo tipo, che trovano accoglienza
nell’opinione pubblica discorsi più o meno impliciti che definiscono la clandestinità sul territorio
come deliberata scelta di un modo di vivere, piuttosto che come una condizione rigidamente imposta.
Si tratta di una lettura della realtà tanto irrazionale quanto diffusa, cui contribuiscono differenti
fattori strettamente connessi l’uno all’altro: le politiche migratorie ufficiali, la selezione delle notizie e
l’angolatura e la scelta del linguaggio utilizzati per raccontarle da parte dei media, le prassi di
deportazione e detenzione dei migranti, la criminalizzazione di intere categorie di persone che ad
esempio in Italia, negli ultimi anni, sono state genericamente definite come clandestini, lavavetri,
zingari, vagabondi o extracomunitari (anche quando si trattava di detentori della cittadinanza
comunitaria come i romeni o i rom e sinti italiani).
Alcune delle ragioni della facile diffusione di simili discorsi sono facilmente intuibili: come scrive
Balibar, “gli ideologi razzisti storicamente efficaci hanno sempre costruito delle dottrine
‘democratiche’, immediatamente intelligibili e quasi adatte in anticipo al livello, ritenuto basso,
dell’intelligenza delle masse (5)”. Certamente, all’origine di queste costruzioni pregiudiziali da parte
delle élites istituzionali, resta la ricerca di un riconoscimento politico che per le democrazie
parlamentari, in un momento di evidente “disgiunzione tra sovranità e stato nazione (6)”, appare
sempre più difficile da ottenere.
Fomentando il pregiudizio è possibile creare un’opinione pubblica
in grado di assimilare senza sforzo la parte più restrittiva e sicuritaria delle politiche migratorie ma
anche, più in generale, delle politiche economiche e sociali messe in atto dai governi europei. È
significativo il modo in cui i discorsi ufficiali sulle migrazioni “illegali” (ma anche su quelle regolari e
ormai interne, come nel caso dei romeni) intreccino costantemente quelli relativi al terrorismo e alla
criminalità, interpretando di conseguenza la gestione della mobilità migrante come campo di
intervento prioritario al fine di garantire ai cittadini europei un’esistenza sicura (7). A questi motivi
prettamente simbolico-politici che conducono ad un rafforzamento del razzismo europeo va poi
accostata un’interpretazione di tipo economico che trova nelle infinite possibilità di sfruttamento
lavorativo di persone prive di diritti una delle principali ragioni delle politiche migratorie europee e
in generale occidentali.
Appare evidente, quando si tratta della narrazione delle migrazioni nei paesi dell’occidente
contemporaneo, la pericolosità di un siffatto modo di interpretare la realtà a fini strumentali,
all’interno di società già di per sé mutate, composite e strutturalmente in divenire. Il rischio di incoraggiare e generare conflitti violenti – di per sé connaturati alla fase storica che stiamo
attraversando – è implicito nell’istigazione al razzismo che prende piede a partire dai discorsi
istituzionali diffusi a livello nazionale e comunitario.
Lo si è detto: i media mainstream hanno avuto e hanno tutt’ora una pesante responsabilità in tutto
questo e, ad esempio in in Italia, il loro ruolo nella narrazione ufficiale delle migrazioni rimane
strettamente legato alla produzione di quei discorsi ufficiali che si rivelano spesso performatori della
realtà e anticipatori dell’inasprimento delle norme giuridiche. Scriveva già nel 1999 Dal Lago (8), come
una campagna giornalistica anti-immigrati, partita dalla notizia di alcuni stupri compiuti da cittadini
di origine straniera, avesse pesantemente influenzato la formulazione della legge 286 del 1998
sull’immigrazione mentre essa di trovava in discussione al Parlamento, portando all’introduzione di
una serie di emendamenti che ne hanno poi fatto la prima vera legge italiana repressiva nei confronti
dei migranti, e preparando il terreno perché l’opinione pubblica ne approvasse tutti i contenuti,
compresa l’introduzione della detenzione amministrativa negli allora Centri di permanenza
temporanea.

Solo quest’anno la Federazione Nazionale della Stampa Italiana ha finalmente diramato un
comunicato in cui ha ammesso “la forte responsabilità del clima di xenofobia” che si respira oggi in
Italia anche a causa delle “tante volte in cui enfatizziamo singoli casi di cronaca, per le troppe volte
in (…) agli stessi reati diamo titoli e spazi molto diversi, a seconda che gli immigrati siano nella
parte dei colpevoli o nella parte delle vittime (9)”.

2 – Lampedusa. Ovvero lo spettacolo della frontiera.
A partire dagli anni ’90, iniziò in Italia una sovraesposizione mediatica del momento degli arrivi dei
migranti via mare che non si è più arrestata fino al 2009. Le immagini dei cosiddetti “sbarchi”
entrarono dentro le case degli italiani attraverso la televisione e i giornali senza che mai, in tutti quegli
anni, gli stessi media che le commentavano affiancassero ad esse dei dati oggettivi che avrebbero
dimostrato come questo modo di raggiungere l’Italia non abbia mai in realtà rappresnetato più del
15% degli arrivi “irregolari”.
Al contrario, i media hanno continuato a fomentare l’opinione pubblica
italiana utilizzando un linguaggio allarmistico atto a creare una vera e propria “ansia da invasione”: di
volta in volta si sono avvicendati termini “idraulici” (ondate e maree umane), bellici (assalti, sbarchi,
invasioni), accanto a termini pietistici (disperati), all’interno di una comunicazione ufficiale che non
accennava quasi mai alle cause della fuga e al diritto connesso ad esse di chiedere asilo politico. In tal
modo, le immagini di questi migranti, pur ripresi e fotografati da media nazionali e internazionali,
sono entrate nell’immaginario comune italiano come l’emblema della “clandestinità”.
Una volta definito “quel che si doveva sapere”, è stato facile per i governi di entrambi gli
schieramenti che si sono susseguiti stabilire “quel che si doveva fare”: grazie all’ansia prodotta da
questo modo di raccontare le migrazioni, ad esempio, l’istituto della detenzione amministrativa in
Italia ha ricevuto piena legittimazione, e una delle sue prime concretizzazioni è stata, come era
prevedibile, il centro costruito nell’area aeroportuale dell’isola di Lampedusa.
Proprio a Lampedusa ho fatto, nel 2004, la mia prima incursione da “giornalista” indipendente insieme a una delegazione della Rete Antirazzista Siciana, per
filmare le deportazioni di migliaia di migranti verso la Libia a bordo di cargo militari C-130.
Nonostante ci fossero in quei giorni sull’isola decine di giornalisti, fu proprio il video molto
rudimentale che girai insieme ad un’amica, nascoste sul tetto di una palazzina da cui si vedeva la
pista dell’aeroporto, ad essere portato tramite Asmnesty International al Parlamento europeo che
poi condannò l’Italia per quelle deportazioni di massa vietate dalle Convenzioni iternazionali.
In un primo momento, in reazione a questa e ad altre azioni di contro-informazione, i Cargo militari
vennero sostituiti da aerei civili, finché, a partire dalla seconda metà del 2005, le deportazioni dirette
verso la terra di Gheddafi si arrestarono.
Nel 2006, un giornalista coraggioso, Fabrizio Gatti, si fece passare per un migrante irregolare
ripescato per mare e fu detenuto per due settimane dentro il centro di Lampedusa. Ne venne fuori
una testimonianza innoppugnabile delle sevizie quotidiane e delle violazioni della dignità umana
condotte all’interno del centro, e si sollevò uno scandalo che per un attimo sembrò dovesse cambiare
qualcosa nella percezione generale della detenzione amministrativa di migranti.
Il ruolo degli scandali nell’incedere della storia, però, è spesso poco lineare. Molte volte accade,
infatti, che il momento dello scandalo – l’esplosione simultanea di migliaia di commenti, la
sovraesposizione mediatica di un argomento scabroso – finisca per diventare il presupposto della
normalizzazione del suo stesso oggetto. Il fulcro della discussione che seguì il reportage di Gatti fu
infatti quello dell’opportunità o meno di modificare le modalità di gestione, o magari le
caratteristiche logistiche, dei centri di detenzione per migranti, mentre si fecero sentire per poco le
voci, soprattutto quelle istituzionali, che rimettevano in discussione il principio a monte di questo
tipo di detenzione, la cronica mancanza di garanzie dei diritti di chi viene amministrativamente
internato, la legittimità di procedere alla privazione della libertà personale per infrazioni connesse al
possesso o meno di un documento. Possiamo dire che lo scandalo del Cpt di Lampedusa inaugurò
nei fatti la fase italiana della retorica sull’umanizzazione di questi centri.
A seguito delle polemiche,
l’allora ministro degli Interni Pisanu ordinò un’ispezione al Cpt, dichiarò di volerne migliorare la
struttura e trasferendolo in un luogo più ideone, e lo scandalo rientrò così nel giro di pochi giorni.
Il
successivo governo di centro-sinistra continuò, seguendo lo stesso tipo di ragionamento, istituì
addirittura una “Commissione democratica” che doveva valutare le condizioni di tutti i Cpt italiani al
fine di apportare i miglioramenti necssari.
Nel frattempo, il Cpt di Lampedusa aveva cambiato per la
prima volta, ufficialmente, nome, diventando anche formalmente un centro di prima accoglienza,
come per anni lo avevano definito, con più o meno buona fede, giornalisti e politici. Con la visita
della Commissione (annunciata molto tempo prima e durata solo un giorno dentro un centro
semisvuotato e ripulito), la pratica dell’accoglienza detentiva veniva legittimata da un gruppo di
associazioni ritenute autorevoli in tema di diritti dei migranti, e rappresentative anche di una parte
della società che contro i Cpt aveva sempre combattuto.
Intanto, poco pubblicizzate, le rivolte e le fughe non hanno mai cessato di consumarsi in tutto il
paese. Nell’autunno del 2007, nonostante le promesse di superamento, le commissioni governative e
la nuova gestione sociale dei centri di detenzione amministrativa, nel Cpt di Modena due ragazzi di
ventitre e venticinque anni si suicidano impiccandosi con le stringhe delle scarpe. Alcuni servizi ai
telegiornali nazionali tornano a riproporre per un giorno il tema dei Centri di permanenza
temporanea in Italia. Ancora si parla della necessità di apportare lievi modifiche all’istituto. Poi la
notizia viene dimenticata e riassorbita da una società che sembra ormai aver pienamente
normalizzato la detenzione amministrativa come modalità di gestione della vita umana. L’ultimo atto
della fase di umanizzazione dei centri si rende palese ancora una volta a Lampedusa prima che
altrove, quando nelle gare d’appalto per la gestione del confinamento dei migranti sull’isola
partecipano e vincono due Cooperative affiliate alla Legacoop (10), che ha da decenni promosso in
Italia modalità di mercato equo e sostenibile in difesa dei diritti di tutti gli individui.
La nuova
società “eticamente corretta”, chiamata “Lampedusa accoglienza” e nata con lo scopo dichiarato di
portare innovazione all’interno del centro migliorandone le condizioni di trattenimento, si è trovata
così a gestire le violenze e le deportazioni orchestrate all’inizio del 2009 dal Ministro Maroni della
Lega Nord, all’interno di un centro nuovamente spogliato dall’ipocrisia dell’accoglienza e ribattezzato d’urgenza, come tutti gli altri, Centro di identificazione ed espulsione.
Tutto il mondo
conosce quello che è accaduto a quel punto, quando il nuovo Trattato di Amicizia italo-libico ha dato
avvio alla pratica dei respingimenti in mare dei migranti, festeggiata come una grande vittoria contro
l’immigrazione clandestina, invece che come un oltraggio ai diritti fondamentali e la distruzione
definitiva dell’asilo politico in Italia.
Solo siti di contro-informazione come “Fortesse-europe”, “peace Reporter”,
“Storie migranti” o “Melting Pot”, oltre che video autoprodotti da documentaristi impegnati sui temi
dei diritti umani quali “Come un uomo sulla terra” e poche trasmissioni televisive come “presa diretta” (oltre che il solito Fabrizio Gatti su l’Espresso), hanno cercato di raccontare la realtà celata dietro
la fine degli arrivi dei migranti a Lampedusa, ovvero il ritorno in Libia, l’incarcerazione, gli stupri,
l’abbandono nel deserto.
Ma tutto questo sembra avere raggiunto solo in minima parte e comunque
poco turbato le coscienze di tutti quegli italiani che hanno salutato la sparizione dai propri schermi
televisivi delle “carrette della speranza” come un passo fondamentale nella lotta per la sicurezza.
La sovraesposizione mediatica della frontiera di Lampedusa, quindi, è stata il presupposto
fondamentale per l’attuazione delle più cruente politiche migratorie che questo paese abbia
conosciuto dal secondo dopoguerra.
Tali politiche, per di più, nonostante la diversa narrazione
prodotta dai discorsi ufficiali, sono state rivolte soprattutto a contrastare l’ingresso di potenziali
rifugiati, mentre ha sempre continuato a crescere, nel silenzio, il numero di persone senza documenti – e quindi sfruttabili sul mercato del lavoro – che fanno ingresso in altro modo (soprattutto con dei
regolari visti che poi scado) sul territorio italiano.

3 – I porti dell’Adriatico. La frontiera invisibile.
Mentre a Lampedusa, con queste finalità, si consumava lo spettacolo della frontiera, ad est
dell’Italia, lungo le coste dell’Adriatico, un altro fenomeno legato all’arrivo di profughi veniva invece
poco pubblicizzato. Almeno a partire dalla metà degli anni 2000, dai porti di Venezia, Ancona,
Patrasso, Bari e Brindisi, la polizia di frontiera ha cominciato a repingere migranti – soprattutto
curdi e afghani, ma da ultimo anche africani – tramite procedure informali che si rifanno a un Trattao
italo-greco del 1999, in realtà ampiamente superato dalle convenzioni internazionali e dalle direttive
comunitarie. Fino alla fine del 2008, le notizie riguardanti l’arrivo dei profughi a questa frontiera e le
modalità di trattamento attuate nei loro confronti dalla polizia provenivano soltanto da laconiche
dichirazioni che le autorità coinvolte affidavano ai giornali, comunicando, con una certa
soddisfazione, di avere respinto numeri variabili di “clandestini” nascosti dentro o sotto i tir in arrivo
dalla Grecia e intercettati ancora a bordo o all’interno dell’area portuale. Nessuna valutazione veniva
fatta circa la liceità di questi respingimenti o lo status dei respinti. Qualche articolo più approfondito
veniva pubblicato solamente quando qualcuno dei profughi veniva ritrovato morto perché asfissiato
o schiacciato dalla merce o dalle ruote dei tir, in prossimità dei porti italiani.
Neppure dopo la morte alla periferia di Venezia, nel 2008, di Zaher Rezai, un ragazzino afghano di
15 anni caduto dal tir sotto il quale si era nascosto per sfuggire ai controlli di frontiera, i giornali e le
trasmissioni televisioni, che pur ne parlarono, si posero una domanda semplice ma fondamentale:
perché un minorenne afghano, figura ultratutelata da decine tra Trattati, Convenzioni, Direttive e
normative nazionali, invece che entrare in Italia e chiedere asilo politico, si nascondeva sotto un tir
legato con una cinghia che poi ha ceduto lasciando che si sfracellasse sull’asfalto? Ingenuità?
Ignoranza delle leggi? O forse consapevolezza che le leggi, dentro i porti dell’Adriatico, non valgono
nulla?
Gli unici a sollevare questi dubbi furono gli attivisti di una rete di associazioni veneziane,
“Tuttiidirittiumanipertutti”, che fecero della contro-informazione sui respingimenti dai porti
dell’Adriatico lo scopo principale del loro impegno (11).
Solo attraverso un inchiesta indipendente portata avanti da queste associazioni nei porti greci da cui
si imbarcavano e dove venivano respinti i migranti in transito verso l’Italia, si è potuto dare una
risposta certa a questi interrogativi. È lì che, insieme a una delegazione della Rete, ho potuto raccogliere le storie di decine di respingimenti,
documentarle fotograficamente, scrivere report di denuncia e far firmare le procure servite a costruire
un importante ricorso conto lo Stato italiano e lo Stato greco che la Corte europea di Strasburgo ha
ritenuto ammissibile (12).
Anche questo lavoro, però, seppur svolto nella più completa buona fede e da persone che avevano
dedicato anni della propria vita a studiare le migrazioni, ha portato alla fine degli effetti in qualche
modo contraddittori.
Anche chi racconta, disvela, denuncia realtà sommerse o trasfigurate dai
discorsi ufficiali, assume sulle proprie spalle una responsabilità profonda che riguarda le
conseguenze delle proprie indagini e delle proprie narrazioni. Mentre si indaga la realtà la si
trasforma forzatamente, e non sempre si hanno gli strumenti per comprendere e orientare questa
trasformazione.
Dopo i report pubblicati su Melting Pot, dopo il ricorso e la pubblicità fatta al
ricorso anche grazie al coinvolgimento di alcune trasmissioni televisive e di testate nazionali come il Corriere della Sera (con un’editorale di Gian Antonio Stella), dopo le
interrogazioni parlamentari e la pubblicizzazione anche in Italia dei rapporti dell’Unhcr e della
Commissione europea che descrivevano la cronica violazione dei diritti dei richiedenti asilo nella
Repubblica ellenica e invitavano quindi gli altri Stati membri a sospendere i respingimenti verso la
Grecia, la situazione ai porti dell’Adriatico, e soprattutto a quello di Venezia, è cambiata, ma non è
facile valutare la qualità di questo cambiamento.
I giornalisti scrivono di rado, adesso, quanta gente
venga respinta dai porti, forse perché le autorità non lo comunicano quasi più: un certo numero di
minori e di donne, anzi, viene accolto dalla polizia anche senza l’intervento degli enti preposti alla
tutela del diritto d’asilo, ma non è spiegabile come mai, stando ai dati ufficiali, sembra che gli uomini
adulti abbiano smesso di arrivare.
In ogni caso, nulla è cambiato rispetto al fatto che la stessa polizia
di frontiera continua a svolgere in realtà un ruolo che non è di sua competenza: anche un decreto
legge emanato dal governo italiano nel 2008 ha ribadito come essa non possa avere le competenze
necessarie per valutare la situazione dei profughi e dei richiedenti asilo che arrivano in frontiera.
Probabilmente, ma questa è solo una supposizione che andrebbe dimostrata, avere sollevato lo
scandalo dei migranti in fuga dalla guerra e respinti illegalmente dalla polizia italiana ha fatto soltanto
in modo che i controlli si facessero più accurati di prima e i respingimenti avvenissero in maniera più
nascosta, probabilmente ancora a bordo delle navi.
Nelfrattempo, il campo di Patrasso in cui vivevano in modo auto-organizzato migliaia di
migranti in attesa di raggiungere l’Italia è stato smantellato nella violenza, alcuni dei ricorrenti alla
Corte europea sono stati deportati in Turchia e da lì a Kabul, e adesso è molto più difficile
comunicare con i profughi rimasti che si nascondono nei boschi intorno alla città e non hanno più
fiducia in chi pone loro domande, visto che l’esposizione mediatica ha portato loro solo ulteriore
sciagura.

4 – Rosarno. Una rivolta annunciata
Il terzo e ultimo scenario da analizzare rispetto al ruolo che la narrazione delle migrazioni in Italia ha
avuto negli ultimi anni è davvero recente: si tratta della cosiddetta “rivolta” dei migranti africani che
si è consumata all’inizio del 2010 a Rosarno, cittadina agricola della Piana di Gioa Tauro, in Calabria.
Centinaia di lavoratori che ricevevano meno di venti euro al giorno per spaccarsi la schiena nei campi
e dormire come bestie dentro vecchi capannoni abbandonati senza acqua nè luce, si sono riversati per
strada armati di bastoni in risposta alla violenza dei cosiddetti “caporali” alle dipendenze dei quali
lavoravano, ma anche, più in generale, come reazione all’ostilità della popolazione del luogo che più
di una volta aveva loro sparato addosso. La mattina del 7 gennaio, tutti i giornali italiani riportavano
la notizia enfatizzando gli elementi dell’accaduto da prospettive differenti a seconda delle diverse
aree politiche di appartenenza delle testate, ma restituendo tutti, in egual misura, la sensazione di
sgomento e sorpresa che ha colto il paese dopo l’esplosione di una situazione di cui pochissimo si
era parlato prima.
Tanto ci sarebbe da dire sull’importanza politica e sociale della rivolta di Rosarno, sulla presa di
parola da parte di migranti apparsi finalmente in una sfera pubblica per esercitare un “right to stay (13)”
che ridisegna i confini di una cittadinanza non più concepibile soltanto come status “concesso”, ma
non è questo il tema della mia relazione.
Rispetto al filo conduttore seguito fino ad ora, invece, va sottolineato come anche nel caso della
rivolta di Rosarno ancora una volta, sia stata soprattutto l’informazione indipendente e quella
“politicamente” impegnata sul terreno dei diritti dei migranti a restituire le ricostruzioni più nitide e
approfondite di quanto accaduto, senza cercare di operare sintesi o riduzioni della complessità
intrinseca a quegli eventi.
Basti pensare al video “Il tempo della arance”, prodotto da Insu Tv,
“telestreet” indipendente napoletana i cui operatori sono stati gli unici a recarsi immediatamente a
Rosarno anche in una situazione di grande caos e violenza e a rimanervi giorni, intervistando i
migranti e la gente del luogo anche grazie a relazioni costruite negli anni. Per loro, infatti, la “rivolta”
di Rosarno non è stata una sorpresa, come non lo è stata, in realtà, anche per alcune associazioni
internazionali come Medici senza Frontiere che a lungo avevano operato sul territorio, o per certa
parte della magistratura che aveva seguito numerose inchieste, e per pochi altri sparuti giornalisti che
negli anni avevano cercato di denunciare quanto avevniva nella Piana di Gioia Tauro con lo
sfruttamento mafioso della manodopera migrante, ma le cui voci erano rimaste inascoltate.
Questo
prezioso lavoro di contro-informazione prodotto ben prima che gli eventi costringessero anche
l’informazione ufficiale a rapportarsi con i fatti di Rosarno, è confluito in un Rapporto dal titolo
“Arance insanguinate – Dossier Rosarno: una caccia lunga vent’anni”, curato dalle piccola
associazioni DaSud e Stopndrangheta.
In queste pagine viene dimostrato come “la caccia al nero” che
è venuta sotto gli occhi di tutti nel gennaio del 2010 durasse in realtà da almeno sedici anni. Facile
comprendere perché queste voci siano state a lungo messe a tacere: enfatizzare il livello massiccio e
strutturale di sfruttamento dei migranti (soprattutto irregolari) nell’economia italiana entra
certamente in contrasto, infatti, con l’immagine che le istituzioni di tutti gli schieramenti politici
hanno cercato di dare delle migrazioni e delle loro politiche migratorie negli ultimi decenni. Il timore
appare quello di disvelare l’ipocrisia di un divieto di accesso al territorio riservato solo a poche
migliaia di profughi quasi tutti potenziali rifugiati, mentre centinaia di migliaia di migranti vengono
inseriti irregolarmente e quindi senza diritti nell’economia del paese. Per queste ragioni, all’indomani
dell’esplosione di rabbia da parte degli africani di Rosarno, le autorità italiane, Ministro dell’interno
in testa, hanno provato a liquidare l’accaduto come un’orgia di violenza immotivata, quasi un
impazzimento collettivo derivante dallo stato di clandestinità che sempre più, in questo paese, viene
raccontato come sinonimo di criminalità connaturata. Ma gli stessi eventi, al di là della narrazione
che di essi veniva fatta, hanno costretto a diradare la cortina di menzogne che da anni in Italia
accompagna ogni discorso che riguardi l’immigrazione. Non ha retto neppure per un istante l’ipotesi
che il problema derivasse dalla mancata applicazione della linea dura voluta dal governo.
L’azione
diretta dei migranti di Rosarno ha messo finalmente a nudo tutte le ipocrisie delle ultime leggi che
in Italia hanno gestito il fenomeno dell’immigrazione producendo strutturalmente illegalità perché
impedendo, con calcolo, qualunque forma di regolarizzazione anche per chi ha un lavoro da anni, e
rendendo allo stesso modo impossibile l’attivazione di canali di ingresso legali sul territorio.
Solo loro gli uomini che da anni subiscono tutto questo potevano raccontarlo con tanta chiarezza.
Gli eventi di Rosarno hanno in tal modo forzato la narrazione che di quegli eventi è stata fatta e, in
qualche modo, anche le narrazioni future che intorno al fenomeno delle migrazioni in Italia si
produrranno.
Resta il fatto, però, che la presa di parola diretta dei protagonisti degli eventi connessi
alle migrazioni e quindi in qualche modo subalterni rispetto ai cittadini formalmente riconosciuti
come tali, continua a incontrare la costante opera di censura dei media mainstream. Eclatante
esempio, ancora a proposito di Rosarno, è la lettera che gli stessi migranti che avevano agito in
quelle giornate di rivolta hanno scritto per spiegare le loro ragioni(14), mai pubblicata dalle testate
nazionali che sull’interpretazione dell’accaduto avevano però speso fiumi d’inchiostro.

Note:
(1) Michel Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique. Gallimard, paris 1972, trad. it. Storia della follia nell’età classica, pp. 201 ss.
2) Federica Sossi, Autobiografie negate. Immigrati nei Lager del presente, Manifestolibri, Roma 2002.
(3) Michel Foucault, Les anormaux, cours au Collège de France (1974-75), Gallimard, Paris 1999, trad. it. Gli anormal i
(1974-5), Feltrinelli, Milano 2000, p. 17
(4) Ivi, p. 25
(5) Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein, Race, nation, classe. Les identités ambugües, la Découverte, Paris 1988 (Poche 1997),
trad. it., Razza, nazione e classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma 1996, p. 34
(6) Wendy Brown, Murs. Les murs de séparation et le déclin de la souveraineté étatique, Les Prairies ordinaires, Paris 2009, p. 17.
(8) Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004, p. 27.
(9) Fnsi: I media sentano la responsabilità per la xenofobia dei giovani, disponibile all’indirizzo:
http://www.meltingpot.org/articolo15245.html
(10) Alessandra Sciurba, Pratiche di normalizzazione del concentramento (Agosto 2007), disponibile all’indirizzo
http://www.meltingpot.org/articolo10958.html
(11) Bottazzo R., ( acura di), Il POrto dei destini sospesi. Percorsi della rete Tuttiidirittiumanipertutti, Carta, Roma 2009
(12) Alessandra Sciurba, Una speranza per i profughi di Patrasso. La Corte europea dichiara ammissibili i ricorsi contro
Italia e Grecia (Aprile 2009), disponibile all’indirizzo: http://www.meltingpot.org/articolo14431.html
(13) Engin F. Isin, Citizenship in Flux: the Figure of the Activist Citizen, «Subjectivity», 2009, 29, 367-388
(14) L’Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma, I mandarini e le olive non cadono dal cielo, disponibile
all’inidrizzo http://www.storiemigranti.org/spip.php?article680