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Articolo pubblicato dal settimanale Carta n. 30/2010

Una scuola escludente alimenta il razzismo

di Simonetta Salacone, già dirigente della Iqbal Masih di Roma

I dati ci dicono che quest’anno nella scuola pubblica italiana frequenteranno 64 mila nuovi alunni di classe prima elementare, appartenenti a famiglie non italiane. Si aggiungono agli alunni di famiglie migranti già frequentanti nei diversi ordini e gradi di scuola nel precedente anno scolastico, complessivamente circa 630.000. Gran parte di loro è nata in Italia. Il picco delle iscrizioni si raggiungerà nel 2015, quando i nuovi iscritti in prima classe, figli di genitori stranieri, supereranno i 100.000, Le comunità più rappresentate sono quelle rumena, albanese, marocchina, cinese, equadoriana, filippina. Molti anche i migranti provenienti dal subcontinente indiano.
L’Italia, rispetto ad altri paesi europei, si caratterizza per la velocità con la quale si sta realizzando il fenomeno dell’immigrazione. La scuola italiana ha imparato a fare i conti con la multiculturalità, in misura massiccia, da poco più di una decina di anni, da quando la legge Turco – Napolitano del 1998 ha introdotto regole per disciplinare gli ingressi e i ricongiungimenti familiari. La scolarizzazione di figli di stranieri è avvenuta, nei primi anni, soprattutto nella scuola dell’infanzia e in quella dell’obbligo, dove è stato naturale accogliere, fra le tante diversità, quelle legate alla provenienza geografica.
Alcune condizioni rendono la scuola dell’infanzia e la primaria più adeguate di altri ordini scolastici ad accogliere e integrare alunni di famiglie straniere: l’impianto pedagogico più nuovo, che valorizza tutte le dimensioni dello sviluppo e tutti i linguaggi; i tempi scuola più dilatati [otto ore nella scuola dell’infanzia, modulo e tempo pieno nella scuola elementare], le indicazioni programmatiche meno prescrittive che in altri segmenti scolastici, alcuni spazi dell’orario quotidiano nel quale le/i docenti sono in compresenza e possono seguire gruppi più ridotti di alunni o realizzare percorsi individualizzati per l’apprendimento della lingua italiana o per il rinforzo didattico. Il percorso della scuola media ha offerto a molti alunni «stranieri» esperienze di tempo prolungato e di bilinguismo, che hanno permesso di valorizzarne le capacità e di curarne le difficoltà.

Quelli fra gli alunni «stranieri» che proseguono negli studi, hanno scelto per lo più scuole tecniche o professionali, dove molto tempo è dedicato ad attività di laboratorio. Queste ultime favoriscono l’acquisizione di competenze operative e facilitano la collaborazione con gruppi di compagni e quindi favoriscono le relazioni con gli altri studenti e con docenti di discipline tecnico-pratiche,
è certo più complicato inserire nelle scuole secondarie alunni che arrivano in Italia nell’età dell’adolescenza: in questi casi si pone il problema della lingua, non solo nella funzione strumentale alla comunicazione, ma come struttura complessa, che deve sostenere gli apprendimenti disciplinari della cultura italiana. Non si può infatti prescindere dai contesti sociali, culturali, storici entro i quali la lingua italiana si è evoluta, né si può ignorare un confronto con la lingua e la cultura di provenienza degli alunni stranieri.
Allo stesso modo, nell’approccio con alunni di famiglie straniere, non si può né si devono trascurare o umiliare le culture di provenienza, pena una cattiva assimilazione e una identità debole [o conservata in modo integralista e risentito, ancorché soffocata all’esterno(.
La scuola, complessivamente, ha operato, in questi anni da sola e con scarse risorse economiche, spesso affidandosi all’autoaggiornamento dei docenti e alla loro volontà di riuscire in un nuovo e delicato compito professionale. Ha preso a cuore anche l’accoglienza di alunni di comunità culturalmente più complesse da conoscere e da accogliere, come le comunità rom e sinte e ha rifiutato, spesso da sola e contro il cattivo senso comune delle comunità locali, azioni di emarginazione e respingimento di questi gruppi.
Ha rifiutato la logica delle classi speciali, in cui raccogliere, separandoli dagli altri, tutti i bambini migranti per percorsi accelerati di apprendimento-insegnamento della lingua, e si è fermamente opposta ai «tetti», svelandone l’astrattezza e l’impraticabilità. Ha rivendicato alla propria organizzazione didattica flessibile l’integrazione degli alunni di famiglie migranti, attraverso la ricchezza delle relazioni e delle proposte didattiche, perseguendo, in genere, buoni risultati, a volte eccellenti.

Oggi, però, la scuola perde alcune di quelle condizioni che le hanno permesso, pur fra tante difficoltà, di essere una istituzione accogliente.
Il ministro ha eliminato tutte le compresenze nella scuola elementare e media, impedendo così di realizzare percorsi individualizzati, laboratori, e tutte quelle attività che permettono di far apprezzare le ricchezze storico-ambientali a bambini e adolescenti che vengono da lontano. Nella scuola superiore ha ridotto le ore di curriculum, tagliando in particolare quelle di laboratorio nei tecnici e nei professionali (le scuole più frequentate da alunni «stranieri») e ha soppresso le sperimentazioni sui nuovi linguaggi, le più efficaci per aggirare l’handicap linguistico.
Ha introdotto rigidità nella valutazione scolastica, penalizzando chi non domina tutte le discipline allo stesso modo e, in particolare, chi non riesce a esprimersi correttamente in italiano o chi, per vicende legate a difficoltà familiari e a permessi di soggiorno irregolari, rischia di superare le assenze possibili in un anno, anche se si tratta di alunni capaci e meritevoli.
Ha permesso che l’Istituto per la valutazione, l’Invalsi, sottoponesse tutte le classi seconde e quinte della scuola primaria e le classi di terza media a prove di valutazione finale uguali per tutti gli alunni, indipendentemente dal contesto e quindi a prescindere dal fatto che nelle classi vi fossero alunni di famiglie straniere, magari di recentissima immigrazione.

Ha ridotto in misura feroce il personale amministrativo e i collaboratori scolastici, indispensabili quanto i/le docenti per favorire la prima accoglienza, l’orientamento all’interno della normativa e dei servizi territoriali e l’integrazione non solo degli alunni, ma anche delle famiglie. Che dire poi dei tagli ai finanziamenti e dei ritardi nell’assegnazione delle risorse dovute, che impediscono alle scuole qualunque acquisto di sussidi e materiali didattici?

Inoltre, aumentando a dismisura la precarietà dei docenti, tutte le scuole sono costrette a operare con personale precario e in continuo movimento. Se la costanza del rapporto educativo è fondamentale per tutti gli alunni, lo è in particolare per i più fragili: disabili, alunni in situazione sociale disagiata, o con disturbi specifici dell’apprendimento, ma anche alunni di provenienza straniera, per i quali stabilire relazioni affettive ed educative è più delicato e complesso.
Per concludere: in una scuola che il ministro disegna come più selettiva, escludente, di classe, con docenti spinti a ottenere risultati misurabili solo in termini di competenze e di abilità, con un impianto competitivo che premierà i docenti e gli alunni più capaci, ci sarà ancora tempo per curare l’ascolto, le relazioni affettive e amicali, i rapporti con le famiglie, la narrazione, il gioco…?