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La sentenza della Corte di Giustizia del 28 aprile 2011 fa luce sul contrasto tra la direttiva rimpatri e l'inottemperanza all'ordine di allontanamento del Questore

L’art. 14, c.5-ter del T.U. va disapplicato poichè contrario al risultato della direttiva 2008/115

a cura di Pietro Fanesi

La questione pregiudiziale era stata proposta nell’ambito di un procedimento penale a carico del cittadino algerino Hassen El Dridi, il quale veniva condannato alla pena di un anno di reclusione per il reato di inottemperanza senza giustificato motivo, all’ordine di allontanamento del Questore di Udine ex art. 14, c.5-ter del T.U.

La Corte di Appello di Trento chiedeva che il rinvio pregiudiziale venisse sottoposto al procedimento di urgenza previsto dall’art. 104 ter del regolamento di procedura della Corte, visto lo status di detenuto del diretto interessato.

A seguito di una attenta disamina dei considerando più significativi della direttiva 115/2008, la Corte di Giustizia – in accoglimento della procedura di urgenza – operava una prima analisi paralela dei rispettivi procedimenti previsti dalla Direttiva comunitaria e dal Testo Unico sull’immigrazione D.L.vo 286/98.

Oggetto del quesito della Corte d’Appello di Trento, la possibilie ostatività alla normativa dello Stato italiano che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.

Il glimaldello posto a parametro della illegittimità dal giudice del rinvio: il principio di leale cooperazione di cui all’art. 4, n.3, TUE, nonchè l’obiettivo di assicurare l’effetto utile del diritto dell’Unione.

Già prima della scadenza del termine per l’attuazione della stessa Direttiva, alcuni commentatori avevano sostenuto il contrasto tra quanto disposto in sede comunitaria ed alcuni elementi cardini del nostro procedimento amministrativo finalizzato all’effettivo rimpatrio dello straniero, in relazione alla gradualità delle misure coercitive adottabili prima del trattenimento, come l’obbligo di dimora per esempio.

Ad oggi, dopo l’interpretazione autorevole della Corte di Giustizia, ci troviamo di fronte ad una vera e propria fase di cambiamento dovuta.

Nel secondo considerando, la direttiva persegue l’attuazione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinchè le persone interessate siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità.
Detta direttiva, rileva la Corte di Giustizia, non permette agli Stati di applicare norme più serevere nell’ambito che essa disciplina.

Sull’applicabilità diretta della disciplina comunitaria, questione oltretutto al vaglio del giudizio di legittimità della Corte di cassazione, la Corte sottolinea che la direttiva stabisce con precisione la procedura che ogni stato membro tenuto ad applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale proceura.
Seccondo l’art. 15 della direttiva, gli Stati membri devono procedere all’allontanamento mediante le misure meno coercitive possibili
. Infatti, solo qualora l’esecuzione della decisione di rimpatrio sotto forma di allontanamento rischi, valutata la situazione caso per caso, di essere compromessa dal comportamento dell’interessato, detti Stati possono porivare quest’ultimo della libertà ricorrendo al trattenimento.

Inoltre, secondo lo stesso art. 15, n.1, secondo comma, tale privazione della libertà deve avere durata quanto più breve possibile e protrarsi solo per il tempo necessario all’espletamento diligente delle modalità di rimpatrio.

E’ importante sottolineare alcuni passaggi dell’obiter dictum della sentenza, nei quali la Corte di Giustizia interpreta l’impianto della direttiva secondo i principi che la stessa norma guida comunitaria esplicita nei considerando. Rileva infatti che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 corrisponde ad una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell’interessato – la concessione di un termine per la sua partenza volontaria – alla misura che maggiormente limita la sua libertà – il trattenimento in un apposito centro – fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l’obbligo di osservare il principio di proporzionalità.

Stesso principio che esprime quel parametro di valutazione discrezionale di cui l’Autorità che espelle deve tenere conto nella decisione di rimpatrio, a differenza dell’automatismo espulsivo che caratterizza il procedimento amministrativo disciplinato dal testo unico sull’immigrazione.

Entrando nel vivo del ragionamento dell’interpretazione della Corte, la stessa osserva che, sebbene il decreto del Prefetto di Torino integri una decisione di rimpatrio, la procedura di allontanemento prevista dalla normativa italiana in discussione nel procedimento principale differisce notevolmente da quella stabilita da detta direttiva.

Nell’ambito della questione attinente alla possibilità da parte del legislatore interno di utilizzare misure di carattere penale, la stessa Corte non contesta la facoltà in capo ad uno Stato di ricorrere a previsioni penali a scopo dissuasivo del soggiorno irregolare. Ad ogni modo non è esclusa una competenza penale degli Stati membri in tema di immigrazione clandestina e di soggiorno irregolare, è tuttavia inequivocabile che gli stessi Stati membri rispettino il diritto dell’Unione Europea.

In particolare, detti Stati non possono applicare una normativa, sia pure di diritto penale, tale da comprometterela realizzazione degli obiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest’ultima del suo effetto utile.

Per concludere, rileva la Corte, gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale e particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi dervivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle Istituzioni dell’Unione e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, compresi quelli perseguiti dalle direttive.

Essendo infatti obiettivo comune quello di provvedere all’allontanemento – il più rapidamente possibile – dello straniero irregolare, attraverso una gradualità progressiva ed in ossequio al principio di proporzionalità di misure atte alla espulsione effettiva della persona interessata, una fattispecie che preveda la detenzione fino a quattro anni di carcere non può che apparire in evidente contrasto con la direttiva.

Infatti, una tale pena segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell’obiettivo perseguito da detta direttiva, ossia l’instaurazione di una politica efficae di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare. In particolare una normativa nazionale come quella ad oggetto del procedimento principale può ostacolare l’applicazione delle misure previste dalla direttiva e ritardare l’esecuzione della decisione di rimpatrio.

Alla luce di quanto precede quindi, al giudice di rinvio – la Corte di Appello di Trento – incaricato di applicare, nell’abito della propria competenza, le disposizioni del diritto dell’Unione Europea e di assicurarne la piena efficacia, spetterà disapplicare ogni disposizione del Testo Unico, segnatamente l’art. 14, c.5-ter, di tale decreto legislativo.

La valutazione che può quindi essere estrapolata dalla sentenza della Corte, oltre all’ovvio monito interpretativo di cui tutte le autorità giurisdizionali adite non possono che farsi carico, a qualunque stato e grado del giudizio, è una valutazione rispetto alla posizione e alla funzione che siffatta fattispecie di inottemperanza ha assunto nella panacea dei provvedimenti espulsivi.

L’art.14, c.5-ter è divenuto col tempo uno strumento di governance della clandestinità, la quale a seguito del provvedimento di espulsione e all’eventuale trattenimento/detenzione presso i C.I.E., una volta non ottemperato il foglio di via impattava con alta probabilità con il carcere.

La funzione ancillare del reato di cui all’art. 14, c.5-ter nei confronti dell’esigenza amministrativa di espellere i clandestini dal territorio è pacifica, nella dottrina e nella giurisprudenza. Ora come non mai anche un organo comunitario come la Corte di Giustizia afferma che quanto è venuto a crearsi nell’assetto del nostro ordinamento è illegittimo poichè in contrasto con la stessa finalità di espellere velocemente chi non è in possesso di un titolo di soggiorno.

Dall’Unione Europea viene messo in discussione un reato che è parte di un procedimento amministrativo.
Alcuni commentatori hanno sostentuto a seguito dell’entrata in vigore della direttiva rimpatri che nonostante fosse dotata di effetto diretto, comunque il reato non era abolito in quanto fattispecie e provvedimento amministrativo seguivano percorsi differenti.

Interpretazione sottile nella sue ricadute pratiche, poichè pensare ad un reato che condiziona così tanti aspetti della vita dei migranti come una semplice ed autonoma fattispecie la cui condanna genera un percorso comunque fatto di garanzie previste dal nostro ordinamento penale, è assurdo.

Proprio oggi si sta tenendo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che deciderà sulla natura della fattispecie di cui all’art. 14, c.5-ter, ossia se rientra nei reati di cui agli art. 380-381 c.p.p. per i quali è previsto l’arresto obbligatorio e facoltativo, ostativi alla sanatoria del settembre 2009.
Una sentenza del genere della Corte di Giustizia avrà di certo ripercussioni sulla decisione dell’Adunanza Plenaria.

Un reato come l’art.14, c.5-ter (inosservanza dell’ordine di allontanamento), rappresenta l’emblema del processo di clandestinizzazione e carcerizzazione che i migranti irregolari subiscono da anni. La condanna per art. 14, c.5-ter del T.U. infatti, fino a poco tempo produceva inevitabilmente l’impossibilità di regolarizzarsi con la sanatoria, quindi il presupposto tipico alla base della impossibilità di trovare dopo anni e anni di clandestinità, una prospettiva di regolarizzazione.

Lo stesso Maroni sulla stampa nazionale ha confuso la notizia della sentenza della Corte di Giustizia con la bocciatura del reato di clandestinità dal nostro ordinamento.

Addirittura lo stesso Ministero dell’Interno ha messo in ballo di nuovo il fatto che altri Paesi dell’U.E. prevedono il reato di clandestinità come fattispecie vigente. Ma non si tratta di questo, per lo meno nel senso tecnico. Il reato di clandestinità, che rappresenta una fattispecie che incrimina una condizione esistenziale del migrante clandestino, nulla ha a che vedere con ciò che negli ultimi anni ha prodotto l’art.14, c.5-ter nel nostro ordinamento e in tutta la nostra società, il quale è sempre servito per incatenare il migrante irregolare nella morsa della clandestinità e molte volte anche del carcere.

Paradossalmente quanto riferito da Maroni sulla stampa è vero, paradossalmente nonostante la campagna contro l’art. 10 bis (reato di clandestinità) del T.U. sia iniziata sull’onda dei pacchetti sicurezza, nel nostro ordinamento il reato di clandestinità è sempre stato vigente, le sue vesta erano e sono tuttora quelle dell’inottemperanza, dell’art. 14, c.5-ter del D.L.vo n.286/98.

Sentenza della Corte di Giustizia Europea C-61/11/PPU del 28 aprile 2011