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Cittadinanza dell’Unione – Commento alla sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione nel procedimento C-34/09

a cura dell'Avv. Dario Belluccio

Con la sentenza che segue la Corte di Giustizia, Grande Sezione, ha statuito sulla domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dal Tribunal du travail de Bruxelles la quale verte sull’interpretazione degli artt. 12 CE, 17 CE e 18 CE, nonché degli artt. 21, 24 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La causa principale origina dall’avere l’ONEm (ovvero l’ufficio nazionale dell’impiego belga) negato il riconoscimento al ricorrente (cittadino colombiano) del diritto alle indennità di disoccupazione secondo la normativa belga.

In particolare l’ONEm aveva escluso la regolarità della richiesta o, comunque, l’aveva rigettata sul presupposto che non fossero stati prestati determinati giorni di lavoro/tirocinio (in relazione alla fascia di età del ricorrente) nel rispetto della normativa in materia di soggiorno dei cittadini stranieri e di occupazione di manodopera straniera. Il cittadino del paese terzo, difatti (la cui storia personale e familiare risulta significativa anche sotto altri aspetti) risultava sprovvisto di un titolo di soggiorno abilitante al lavoro, dovendosi dunque ritenere un lavoratore irregolare benché provvisto di un titolo di soggiorno provvisorio in Belgio.

Dinanzi al giudice del rinvio, il cittadino colombiano ha impugnato la decisione sostenendo, innanzitutto, che il suo diritto di soggiorno discenderebbe direttamente dal TFUE (art. 20) ovvero, in secondo luogo, che godrebbe comunque del diritto di soggiorno derivato, riconosciuto dalla sentenza 19 ottobre 2004, causa C-200/02, Zhu e Chen, essendo padre di un minore cittadino di uno Stato membro (il Belgio, in particolare) e che, per l’effetto di tanto, egli era esonerato dall’obbligo di possedere un permesso di lavoro. A tale fine alcun valore potrebbe discendere dalla circostanza, peraltro non contestata, del mancato spostamento dei suoi figli al di fuori dello Stato membro in questione (come nella sentenza da ultimo citata) e che lui stesso, in qualità di loro familiare, può reclamare un diritto di soggiorno, nonché un’esenzione dal permesso di lavoro in questo Stato membro. Tanto sulla base delle norme sulla cittadinanza europea.

E’ giusto, dunque, riportare il citato art. 20:
“1. È istituita una cittadinanza dell’Unione. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. La cittadinanza dell’Unione si aggiunge alla cittadinanza nazionale e non sostituisce quest’ultima.

2. I cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti nei trattati. Essi hanno, tra l’altro:
a) il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri;
b) il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiedono, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
c) il diritto di godere, nel territorio di un paese terzo nel quale lo Stato membro di cui hanno la cittadinanza non è rappresentato, della tutela delle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato;
d) il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua
.

Tali diritti sono esercitati secondo le condizioni e i limiti definiti dai trattati e dalle misure adottate in applicazione degli stessi”.

La Corte, incidentalmente, da atto che in fattispecie non può farsi applicazione della direttiva 2004/38, il cui art. 3 disciplina analiticamente i beneficiari della stessa e li individua nel cittadino dell’Unione che «si rechi o soggiorni in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza, nonché ai suoi familiari». Di conseguenza, detta direttiva è inconferente al caso di specie, posto che alcuno dei familiari comunitari del cittadino colombiano si è recato o ha mai soggiornato in altro Stato membro.

La sentenza della Corte di Giustizia rimarca invece (come fatto in precedenti occasioni e citando dettagliatamente la pregressa giurisprudenza) che “lo status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri” e che il diniego di soggiorno nei confronti di un cittadino di uno Stato terzo all’interno dello Stato membro dove risiedono i suoi figli, i quali siano a loro volta cittadini di detto Stato membro, nonché il diniego di concedere allo stesso cittadino di un Paese terzo un permesso di lavoro producono l’effetto di privare di fatto i cittadini dell’Unione del godimento dei diritti derivanti dal loro status di cittadini comunitari. L’art. 20 TFUE, dunque, è ostativo a normative similari a quella belga che sostanzialmente limitano la “cittadinanza europea”.

La Corte, conseguentemente, esprime in dispositivo la seguente decisione: “L’art. 20 TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso osta a che uno Stato membro, da un lato, neghi al cittadino di uno Stato terzo, che si faccia carico dei propri figli in tenera età, cittadini dell’Unione, il soggiorno nello Stato membro di residenza di questi ultimi, di cui essi abbiano la cittadinanza, e, dall’altro, neghi al medesimo cittadino di uno Stato terzo un permesso di lavoro, qualora decisioni siffatte possano privare detti figli del godimento reale ed effettivo dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione”.

Sentenza della Corte di Giustizia Europea (grande sezione) C-34/09 dell’8 marzo 2011