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La penombra del diritto: respingimenti, espulsioni, detenzioni

Brevi considerazioni a margine di una nuova era per la detenzione amministrativa

Lo scenario

Di ritorno da Lampedusa ci siamo lasciati con l’immagine di un’isola divenuta un centro di permanenza temporanea.
Allora eravamo appena agli inizi, il grande esodo verso l’Europa interessava solo la Tunisia e gridavamo protezione temporanea; già pensavamo al possibile processo di clandestinizzazione che di lì a poco, esauriti i soccorsi, sarebbe stato messo in campo.
I migranti, una volta recuperati in mare aperto, venivano tradotti sul molo, soccorsi e portati nel centro di accoglienza completamente esploso.
Durante le interviste, tutti ci mostravano il cartellino per i pasti e un verbale di ingresso che avrebbe poi costituito la prova grazie alla quale usufruire della protezione temporanea.
Sentivamo già parlare di asilo; ma non si riferivano ai tunisini, aspettavano i libici, i rifugiati.
Subito venivano a galla le prime sperimentazioni del nuovo confinamento: Mineo, Manduria, Santa Maria Capua Vetere, integravano il dizionario delle sigle della detenzione amministrativa italiana.
Dopo l’8 aprile il lavoro delle Questure era celere, gli uffici lavoravano giorno e notte per il rilascio dei “nuovi” permessi umanitari.
Appena in mano i titoli di soggiorno e di viaggio, i migranti impauriti di rimanere “appena solo un giorno in più in Italia”, scappavano dai nuovi centri, verso
la Francia, il Belgio, mete più “sicure”.
L’Italia si trasformava in una penisola di permanenza temporanea, perché la Francia aveva deciso che dovevano essere tutti respinti, o riammessi, verso il Paese che aveva rilasciato i permessi.
Il fenomeno era ancora troppo ridotto, per questo l’Italia doveva accollarsi la protezione di tutti.
E così accadeva, almeno in parte, quindi il sistema dell’accoglienza nazionale ridefiniva i suoi criteri e dettava le sue linee guida: chi entra dalla Tunisia è tunisino, ergo non è un potenziale rifugiato, se non ha la protezione temporanea va espulso, quindi trattenuto!
Poi da Lampedusa cominciavano ad arrivare segnali di cambiamento, soprattutto in relazione all’itinerario dei rimpatri e al destino degli irregolari.
Mentre i primi arrivati ricevevano un verbale di ingresso grazie al quale riuscivano a dimostrare la loro presenza entro il 5 aprile e quindi a richiedere la protezione temporanea, per i nuovi – post 5 aprile – il trattamento si rivelava più aspro.

Ciclicamente, quando un movimento si trasforma, acquista potenza e velocità, si scontra inevitabilmente con le reazioni delle istituzioni, le quali si proporzionano a questo grado di trasformazione ed escogitano nuovi dispositivi di controllo e contenimento delle eccedenze.
In particolare, nel diritto, la connessione tra istituti e sistema assume rilevanza quando l’intero insieme del controllo intende mantenere quel grado di efficienza tale da portare avanti un certo tipo di discorso autoritario.
Esercitare un potere previsto dalla legge per realizzare una determinata funzione, è un presupposto di legittimità nei provvedimenti amministrativi.
Questa legittimità è indice di un corretto funzionamento della macchina amministrativa, anche nei momenti storici più difficili, nei quali uno Stato si trova a far fronte ad un esodo dovuto allo stravolgimento civile e politico di Paesi vicini.
Laddove il potere utilizzato eccede dai canoni di legittimità fissati dalla legge, le intenzioni dell’Amministrazione si fanno più cupe, si muovono nella penombra del diritto, in deroga altresì alle ordinarie garanzie dell’individuo.
E’ proprio a questo punto che i dispositivi prendono forma e ai nostri occhi appare solo l’effetto di un marchingegno già congegnato per ripristinare l’equilibrio del controllo.
A Lampedusa le nuove espulsioni sono emesse sotto la forma dei decreti di respingimento: questi provvedimenti costituiscono uno dei più crudeli strumenti di governance dell’irregolarità.

I decreti di respingimento c.d. differito ex art. 10, c.2 T.U.

Il respingimento con accompagnamento alla frontiera è altresì disposto dal questore nei confronti degli stranieri: a) che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo; b) che, nelle circostanze di cui al comma 1, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso.

Alla stregua di tutti i provvedimenti di espulsione, il decreto di respingimento c.d. differito comporta una restrizione della libertà personale del migrante, poiché costituisce un provvedimento la cui esecuzione produce il trattenimento presso i C.I.E. oppure l’accompagnamento forzato.
Una volta fermata subito dopo il suo ingresso alla frontiera, la persona è respinta ai sensi dell’art. 10, c.2 T.U. e tradotta nei centri dell’immigrazione.
La locuzione del “subito dopo al suo ingresso” è assai dubbia, difficile da comprendere e da inquadrare nel caso concreto.
Da quando la persona è fermata a quando riceve il decreto di respingimento possono passare ore, giorni o settimane; questo non importa, il provvedimento vale a prescindere della reale detenzione amministrativa che la persona ha sofferto.
Come rilevato dal Giudice di Pace di Agrigento (decreto 12 luglio 2011, n.10910), lasciare nell’attesa il migrante di ricevere un decreto di respingimento costituisce di fatto una forma di trattenimento, di detenzione amministrativa.
Nonostante la Costituzione imponga espressamente alle Autorità di Pubblica Sicurezza di rispettare dei canoni temporali stringenti ed indicati espressamente in materia di limitazione della libertà, per coloro che arrivano alla frontiera e sono fermati subito dopo all’ingresso, il legislatore ha previsto delle conseguenze ben diverse.
Infatti, mentre teoricamente il calcolo delle 96 ore entro le quali è prevista la convalida del Giudice dovrebbe cominciare dall’inizio della limitazione della libertà personale, per chi arriva a Lampedusa e subisce un respingimento differito, lo stesso calcolo comincia più tardi e non si computa l’iniziale detenzione del migrante.
Ciò sta a significare che l’Autorità di Pubblica Sicurezza non considera il periodo antecedente alla notifica del respingimento differito come un trattenimento che, cionostante, resta evidentemente una vera e propria forma di limitazione della libertà.
Durante il soggiorno sull’isola di Lampedusa, i migranti sono trattenuti nel locale Centro di detenzione amministrativa in condizioni di privazione della loro libertà personale, ma senza alcun titolo legittimante.
Questi provvedimenti di respingimento rappresentano nientemeno che certificati formali di una detenzione che ha già avuto inizio prima che fossero emessi.

Ma parlare di espulsione o di respingimento rispetto alle immediate conseguenze che essi producono, non è la stessa cosa.
A seguito dell’entrata in vigore della Direttiva Rimpatri (2008/115/CE), l’Italia ha dovuto modificare parte del suo sistema in materia di espulsioni, garantendo quegli standard minimi di tutela dei diritti fondamentali per il migrante.
Come recita la direttiva, le Autorità esercitano il potere espulsivo caso per caso, esaminando le posizioni e le eventuali condizioni di vulnerabilità e di protezione, concedendo il termine per il rimpatrio volontario e ricorrendo alla detenzione amministrativa solo come estrema ratio.
La detenzione, invece, per chi viene respinto da Lampedusa con un decreto della Questura di Agrigento, è pressoché l’unica conseguenza salvo essere poi accompagnati con la forza alla frontiera, quindi caricati nel primo volo e riportati al di là del Mediterraneo.

I respingimenti differiti e il diritto di difesa

Art. 24 Cost. “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.
Art. 13, c.8 T.U. “Avverso il decreto di espulsione può essere presentato unicamente il ricorso al giudice di pace del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione”.

Una volta trattenuti nei C.I.E., ai migranti non resta che difendersi sfruttando ogni strumento messo a disposizione dalla legge per tentare di tornare in libertà.
L’eccezione preliminare che risalta leggendo il testo normativo è legata all’assenza di una procedura codificata che indichi quale sia la forma di un eventuale ricorso e il Giudice competente a giudicare sulla legittimità dell’atto impugnato.
Dottrina e giurisprudenza hanno tentato di colmare questa pericolosa lacuna normativa, applicando la disciplina prevista per le espulsioni ai respingimenti differiti.
Di conseguenza i migranti avrebbero potuto ricorrere ai Giudici di Pace aderenti a questo orientamento, al fine di annullare i provvedimenti posti alla base del loro trattenimento.
Tuttavia ciò non è bastato, poiché secondo il Testo Unico in materia di espulsioni, il Giudice competente per territorio sui ricorsi avverso questi decreti è il Giudice del luogo in cui ha sede l’Autorità che ha emesso l’atto, pertanto solo la Questura di Agrigento.
Non è rilevante che il migrante sia stato nel frattempo smistato presso un C.I.E. lontano migliaia e migliaia di Km, come Bologna o Torino, dal luogo in cui ha sede il rispettivo Giudice di Pace territorialmente competente.
Se la Questura di Agrigento, infatti, emette un decreto di respingimento differito e poi l’interessato viene tradotto verso Bologna o Torino, la competenza rimane attratta, a detta del Testo Unico, ad Agrigento; e tutto ciò risulta di palese ostacolo all’esercizio del diritto di difesa e in violazione dell’art. 24 della Costituzione.

In questi casi, riusciamo a comprendere gli effetti del dispositivo e a percepirne la portata vessatoria e in attrito con le dovute garanzie per il migrante, privato della libertà personale.
L’unica possibilità di esercitare il diritto a difendersi dai dispositivi della detenzione amministrativa del Testo Unico sull’immigrazione, oltre alle ingannevoli speranze delle udienze di convalida e di proroga, è il ricorso avverso il provvedimento di espulsione.
L’espulsione rappresenta il titolo del trattenimento e qualifica le posizioni soggettive delle persone all’interno dei centri, che sono espulse anche se rimangono nel territorio in attesa di essere rimpatriate.
I decreti di respingimento svolgono la medesima funzione dei decreti di espulsione, con la differenza che i trattenuti non sono espulsi, bensì respinti.
Il comune denominatore tra questi provvedimenti è l’effetto della privazione della libertà personale, pertanto come ritenuto già dalla dottrina il respingimento differito costituisce una specie del genere delle espulsioni.
Ciononostante, se si ostacola il trattenuto nella facoltà di chiedere l’annullamento del provvedimento espulsivo, si realizza una netta preclusione nell’esercizio del diritto di difesa contro il mantenimento sino a 18 mesi all’interno dei C.I.E..

Il D.L. 23 giugno 2011 n.89 e le indicazioni dell’Unione Europea

Qualora non sia stato possibile procedere all’allontanamento, nonostante sia stato compiuto ogni ragionevole sforzo, a causa della mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo interessato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi terzi, il questore può chiedere al giudice di pace la proroga del trattenimento, di volta in volta, per periodi non superiori a sessanta giorni, fino ad un termine massimo di ulteriori dodici mesi (che innalzano il termine di sei mesi già previsti dal Testo Unico, ndr)”.

Il dispositivo generato dal decreto di respingimento differito e dal sistema di norme contenuto all’interno del testo unico assume una portata ancora più violenta, a seguito dell’allungamento sino a 18 mesi del trattenimento presso i C.I.E..
Negli anni passati, risultava già nei progetti del Governo l’estensione sino al limite massimo consentito dall’Unione Europea della detenzione amministrativa, ma poi il passo indietro costituito dall’allungamento sino a sei mesi aveva trovato un equilibrio “accettato” per l’introduzione del reato di clandestinità di cui all’art. 10 bis del Testo Unico, come moneta di scambio.
Sarebbe stato eccessivo per uno stato di diritto l’entrata in vigore del reato di ingresso e soggiorno illegale unitamente all’allungamento sino a 18 mesi del trattenimento, considerati gli effetti che già alcune disposizioni producevano in campo penalistico: fra tutti, l’art. 14, c.5-ter (l’inosservanza all’ordine di allontanamento sanzionata con la reclusione da uno a quattro anni).
A seguito della bocciatura da parte della Corte di Giustizia dell’art. 14, in poco tempo il Governo ha dovuto riscrivere tutto il sistema delle espulsioni in ottemperanza alle indicazioni dell’U.E.
Se da un lato quest’ultimo reato è stato abrogato nella parte in cui sanzionava con la reclusione sino a quattro anni coloro che disobbedivano al foglio di via, dall’altro ha allungato la detenzione amministrativa fino ad un anno e sei mesi.
Questa estensione va messa a confronto con la sanzione previgente dell’art. 14 T.U. (le cui condanne dei Tribunali monocratici oscillavano a cavallo dell’anno di reclusione), proprio poiché costituisce sempre una forma di “ingiusta” detenzione nei confronti del migrante irregolare.

Quindi l’art. 14 T.U. è uscito dalla porta per rientrare dalla finestra?
Sicuramente, quest’opera di rimescolamento delle carte in tavola trova una matrice nelle indicazioni della Corte di Giustizia, che nel condannare l’Italia ha da un lato sostenuto gli interessi dell’Unione Europea criticando la condotta dell’Italia nella gestione dell’esodo nordafricano e, dall’altro, ha richiamato lo stesso stato a costruire dei percorsi più veloci e snelli nel rimpatrio degli irregolari.
Prevedere la reclusione sino a quattro anni, a detta della Corte, significa rallentare l’espulsione dall’Unione Europea – non solo dall’Italia – dei migranti irregolari.
La risposta dall’Italia non si è fatta attendere, e l’allungamento sino a 18 mesi della detenzione amministrativa ne è la prova, proprio in un periodo in cui sarebbe più consono per uno stato di diritto privilegiare discorsi di accoglienza e protezione.
Mentre i C.I.E. costituiscono i luoghi della “nostra” accoglienza, dove le garanzie non esistono e dove si attende l’espulsione o la fuga, l’unica certezza che possiamo avere è quella dei fatti: questi ci parlano di un Nord Africa ancora in stato di emergenza umanitaria, dalla Libia all’Egitto, dal Marocco sino alla Tunisia, dove proprio qualche giorno fa è tornato il sangue nelle piazze e da dove
in centinaia di migranti ogni giorno scappano alla ricerca di libertà e democrazia.

Pietro Fanesi