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Pantelleria – Tra centri disumani, pregiudizi e straordinaria solidarietà

Parla la famiglia che ha accolto i superstiti del naufragio di Aprile. E che se li è visti portare via.

di Alessandra Sciurba

La lettera in cui si dice che sono un membro del Cda di Migreurop, firmata, datata e spedita da Parigi, è servita a poco.
Non è bastata né a far sì che qualcuno dei carabinieri che gestisce di norma “le operazioni” accettasse di farsi intervistare da me, anche solo per darmi qualche dato sugli arrivi e le partenze, né tanto meno ad aprirmi le porte dell’ex caserma Barone, dove vengono rinchiusi i ragazzi tunisini che continuano ad arrivare sull’isola con cadenza quasi quotidiana. Tutto quel che ho potuto fare nella mia permanenza agostana a Pantelleria è stato passare davanti quel luogo dallo statuto giuridico inesistente ogni giorno ed ogni notte, verificare quante finestre fossero illuminate, quanta gente si vedesse muoversi dentro gli stanzoni dell’edificio principale, che si vede bene dalla perimetrale e poi dalla strada che gira verso l’entroterra, e quanta ne camminasse all’interno del cortile racchiuso dalla rete.

Questo “centro” improvvisato ma ormai utilizzato da tempo, è formato da un grande casermone bianco fatiscente e da alcuni corpi bassi che, a vederli così, non andrebbero bene neppure come canili. Su uno di questi, di cemento rosa con delle piccole feritoie chiuse da sbarre, si vedono ancora i segni di un incendio. Dopo le prime rivolte sono arrivati i blindati e un carabiniere, di notte, ha iniziato a presidiare l’ingresso. Il Sindaco dell’isola ha declinato ogni responsabilità denunciando apertamente le condizioni degradate e degradanti di questo luogo in realtà inagibile in cui le persone vivono come “fantasmi senza diritti”.

Tutti sull’isola sanno quando c’è stato uno “sbarco”: da quando si sono intensificati c’è sempre qualcuno che ha visto e che ha raccontato. Tutti sanno che poi li portano lì, all’ex caserma, e che dopo qualche giorno, a volte dopo qualche settimana, li fanno ripartire. Se si va a chiedere qualche informazione al piccolo ospedale rosso in riva al mare, costruito sulla lava nera, si trova quasi sempre un infermiere gentile disposto a scambiare due chiacchiere. Loro non rispondono come i carabinieri che: “non siamo autorizzati a parlare ed è tutto gestito per diretto ordine del Ministero degli interni”.
In ospedale raccontano piuttosto di quando i migranti arrivano e a volte sono bambini, a volte uomini feriti e donne quasi esanimi. Il tono empatico, però, vale soprattutto per alcune delle persone venute dal mare, e non per tutte, ed è proprio all’ospedale che ascolto per la prima volta quella distinzione che risentirò poi quasi tutte le volte che tornerò sull’argomento: “i neri sono migliori, sono gentili, scappano veramente da qualcosa di terribile. I tunisini, invece, che li riconosci perché sono più chiari, sono quasi tutti ex-galeotti”.

Nessuno riuscirà mai a rispondere alle domande semplici che porrò sempre: “galeotti di quale paese? (perché esserlo sotto Ben Alì potrebbe non essere stata una cosa tanto negativa…)” e poi, “ come fate a saperlo?”. Silenzio, tutte le volte.
Tunisini “galeotti”. Questa parola in disuso è il loro stigma per quasi tutti i panteschi. Funziona così: inizia una voce e si fissa nell’aria e nella testa di tutto un paese.
Ma l’isola di Pantelleria, oltre la superficialità di questi pregiudizi, ha un’indole che nel profondo è diversa. Centro del Mediterraneo quanto Lampedusa, è ancora più vicina all’Africa. Capo Bon, nelle giornate terse, ti sembra di poterlo sfiorare allungando le braccia verso l’orizzonte del Sud.
E tra le case di quest’isola, infatti, riesco a raggiungere una famiglia che di Pantelleria sembra concentrare proprio la parte migliore, quella dell’antica sapienza che discende diritta dalla sua storia fatta di passaggi e scambi e intreccio di vite.
Sono un marito e una moglie, con i loro tre figli di cui due ormai emigrati, come tanti ragazzi siciliani, verso il Nord. Sono le persone che, in un giorno di Aprile, dopo quello sbarco tanto diverso dagli altri cui Pantelleria era abituata, hanno scelto di accogliere nella loro casa un’altra famiglia, venuta da lontano e colpita dal lutto. Hanno vissuto con quel padre e con i suoi cinque bambini, fino a che la legge non li ha separati. E hanno accettato di raccontare la loro storia.

Giuseppina: “Il “naufragio è avvenuto alle cinque di mattina, di fronte alle coste dell’isola. La nostra casa lo vedi, è di fronte al porto, e noi abbiamo sentito le sirene. Abbiamo pensato che fosse “il solito sbarco”.

Mariano: “Diciamo “solito” perché già dodici anni fa Pantelleria era meta di sbarchi continui di tunisini. Mi ricordo un natale in cui a Nicà ne sono morti sette. Avevano sbagliato strada anche quella volta. Dipende da dove partono… ma fino a quest’anno si era sempre trattato di barche con a bordo dieci, quindici, trenta persone al massimo”.

G.: “La mattina di quel 13 aprile in ufficio da me c’era tanta confusione. Ciascuno raccontava a modo suo quello che stava succedendo; “c’è l’inferno: non riescono a sbarcare”. Allora chiedo meglio ai miei colleghi e vengo a sapere della barca con duecento persone che si è arenata all’Arenella. Le notizie arrivano una alla volta: è morta una donna. Ci sono dei bambini. E poi qualcuno inizia a dire che quella donna morta era proprio la mamma di quei bambini. In ufficio arriva anche un signore che li ha visti, che ci dice che quei bambini stanno piangendo. E allora tutti si chiedono cosa fare e io dico subito: portateli a casa mia. Non sapevo niente di loro, neppure di che nazionalità fossero”.

M. “Prima di tutto, però, li hanno portati in ospedale. Mia moglie mi aveva chiamato in studio dicendo di questo sbarco e chiedendomi se con il Rotary a cui appartengo avremmo potuto fare qualcosa. Io ho telefonato alle autorità e loro mi hanno detto che quelle persone avevano freddo, che sarebbe stato gradito di sicuro un tè per riscaldarsi. E noi glielo abbiamo portato e siamo rimasti sconvolti: dopo cinque giorni senza bere né mangiare quelle donne e quegli uomini si sono messi in fila in modo composto, con una dignità incredibile. Certo, i tunisini è vero che si comportano in modo diverso, che hanno pure incendiato il centro, ma lo fanno quando capiscono che li stanno rimpatriando… comunque, da quando ci sono loro noi a noi nel centro non ci fanno entrare più”

G. “Com’è il centro? beh, noi ci siamo arrivati in quei giorni di aprile all’indomani dello sbarco ed effettivamente in meno di ventiquattr’ore avevano sistemato materassi e lenzuola, cercato di renderlo vivibile. Ma bisogna dire che quel posto non è organizzato per viverci. Quelle duecento persone ci sono rimaste quasi un mese. Mi ricordo che a un certo punto siamo andati a comprargli dei palloni, perché avessero qualcosa da fare”.

M. “Per prima cosa hanno chiesto spazzolini e dentifrici”

G. “Con quelle duecento persone tutta la popolazione di Pantelleria si è prodigata al massimo. Ho ancora una stanza piena di cose che mi hanno portato per loro. Le hanno portate a me perché alla fine a vivere qui ci sono venuti davvero. Una delle famiglie che c’erano, quella che aveva perso la mamma. C’era anche un altro papà da solo con la sua bambina. Ma loro erano proprio arrivati così, in due. È stato brutto perché questo papà lo tenevano al centro, mentre la sua bambina in ospedale per tutto il tempo. Li tenevano separati. Quando ho chiesto alle autorità il permesso di portare anche la piccola a casa mia, perché almeno non stesse da sola in ospedale, non mi è stato permesso. Poi c’era una coppia con una bimba di un anno che è stata accolta da un’altra signora di Pantelleria. Poi c’era la nostra famiglia: Camillle e i suoi cinque figli.
A morire sono state due donne e un uomo. Sono morti qui davanti, sono morti in un metro d’acqua. Pazzesco arrivare fino a qui a morire in questo modo.
Camille era l’unico uomo a non essere stato messo nel centro. Ha avuto un “trattamento di favore” anche perché si era fatto male. Aveva fatto sbarcare i suoi cinque figli uno ad uno in mezzo a quella tempesta. Lui è una persona eccezionale. Sono congolesi, e lui in Congo era insegnante di francese”.

M. “Poi ci ha raccontato che era dovuto scappare in Niger, perché faceva parte dell’opposizione, e da lì in Libia, per cercare di dare un’istruzione migliore ai suoi figli. In Libia lui faceva l’imbianchino. E poi è arrivata la guerra. Allora erano andati fuori Tripoli, a rifugiarsi in campagna, ma lì non riuscivano quasi a sopravvivere, a comprare qualcosa da mangiare. E poi se andavano a cercare cibo i ribelli li scambiavano per mercenari e i mercenari per ribelli. Per un mese erano stati chiusi nella casa di un contadino che poi li ha aiutati a scappare. Hanno pagato 4.500 dollari solo per la traversata dalla Libia fino a qui. E sono rimasti qui, nella nostra casa, dal 14 aprile fino ai primi di Maggio”.

G. “Io li ho fatti venir qui rassegnata al fatto che ci sarebbe stata una grande confusione, che sarebbe stato difficile. E invece, con nostra grande sorpresa, è stata una convivenza eccezionale. All’inizio non li sentivamo quasi camminare. Quando gli assistenti sociali sono arrivati dal Comune a portare i pasti per loro, io sono andata a bussare nella stanza dove dormivano pensando che fossero ancora a letto per il silenzio che c’era. Invece si erano alzati tutti e stavano lì, intorno al tavolo, tutto era in un ordine perfetto e io sono rimasta sbalordita. A fare confusione era invece la gente del posto che faceva a gara per portarci delle cose. Io però era preoccupata: non volevo che Camille e i bambini si illudessero, non volevo fargli vedere chissà che cosa, come se qui fosse il paradiso. I bambini dell’isola volevano tutti giocare con Ernest, che ha cinque anni ed è meraviglioso. Poi c’è Rais che ne ha 7, Viani che ne ha 9, Kathrine che ne ha 15 e Aisha che ne ha 17. Le due ragazze sono bellissime.
Hanno elaborato il lutto con noi. Il funerale della loro mamma è stato fatto dopo una settimana”.

M. “Tutte le persone di quello sbarco erano molto religiose. La domenica volevano andare a messa e i carabinieri li facevano uscire dal centro per quell’occasione accompagnandoli con il pullman”.

G.I primi di maggio, però, in due giorni li hanno portati tutti via. A Trapani, Salina Grande, il centro per chi richiede asilo. A noi hanno detto: “il tempo del riconoscimento. Lunedì saranno qua”. Io ho dato la notizia a Camille e lui, flemmatico come sempre, l’ha data ai suoi figli. Loro ci sono rimasti malissimo. Avevamo una vita insieme, anche se da poco tempo e i bambini si stavano appena iniziando a riprendere.
Non dimenticherò mai i piccoli di fronte alla nave, il giorno in cui sono andati. Avevano terrore del mare, dopo quello che avevano vissuto, e continuavano a urlare: No, le bateau, no! S’il vous plait!”.
Mio figlio, da quando sono andati via mi chiede sempre: “perché non tornano?”.
Il fatto è che quando sono andati a Salina Grande si è scoperto che non tutti e cinque erano figli naturali di Camille, ma solo i due piccoli. Lui, quando era morta sua moglie, per onestà aveva chiamato il primo marito di lei e gli aveva raccontato tutto. Quest’altro, che abitava in Francia, era venuto in Italia per portarsi via i figli. Loro, però, non ci volevano andare. Camille è sempre stato loro padre. Ma si è messo in moto il tribunale dei minori e stiamo ancora aspettando. Camille dice che in Congo aveva già legalmente adottato i ragazzi, ma che nel naufragio si sono persi tutti i documenti. Sta provando a farseli rispedire. Quello che abbiamo capito è che adesso i bambini sono affidati a un assistente sociale che autorizza o meno le loro uscite dal centro di Trapani.
Certo che siamo andati a trovarli. Salina grande non è un bel posto. Le stanzette sono anguste e le lenzuola sono di carta. Loro cinque avevano il loro bagno ma la sezione era mista, i bambini stanno con gli adulti anche se la loro stanza era separata da una porta. Le zanzare sono terribili. I bimbi, quando sono arrivati qui da me avevano la pelle come il velluto. Adesso era piena di eritemi da tutte le parti. Ernest, il piccolino, aveva la tosse forte. Devo dire che proprio a lui hanno anche fatto un’operazione per togliergli un’ernia ombelicale, ma in generale non stavano bene.
Sì, la Commissione li ha già intervistati ma ancora non escono. Quando siamo andati via piangevano, speravano di poter tornare a casa con noi”

M. : “l’avvocato dice che se davvero l’amministrazione pantesca consegneranno loro una casa le cose per Camille saranno più facili. Lui e i suoi figli continuano a dire di volere tornare qui. La loro mamma è in questo cimitero, su quest’isola. Loro qui sono stati bene accolti, e io penso davvero che l’isola li vorrebbe”.

G. “Se lo rifaremmo? Sicuramente si. Dovrebbero farlo tutti perché è una cosa che fa crescere in maniera inimmaginabile.
La gara di solidarietà che c’è stata a Pantelleria per queste persone, però, è stata una cosa molto particolare. È successo così perché ci sono stati i morti, i feriti, i bambini. Qui manca un’azione coordinata di qualunque tipo, anche di questo volontariato.
Sul centro dove portano tutti i migranti che sbarcano, io che devo dire? Quello non è un centro. Per quel che ne so stanno utilizzando un posto abbandonato che non ha alcun requisito idoneo. Con il caldo che fa e solo due bagni per tutti è chiaro che lì dentro si può perdere la testa. Non è una situazione umana. Credo sia per questo che alcuni tunisini hanno fatto lo sciopero della fame, verso giugno, anche se so che ad alcuni tra i più giovani è stato imposto da altri. Poi si sono tagliati con le lamette… per non essere rimpatriati. Per queste cose successe, qui sull’isola si dice che quei duecento erano subsahariani ed erano brave persone, mentre i tunisini che continuano ad arrivare adesso sarebbero gente poco raccomandabile…”

M.: “Anche i carabinieri rinforzano queste voci. E ora sull’isola c’è più agitazione, le persone si preoccupano.
Ma in realtà non è successo proprio niente, anche quelli scappati non hanno fatto niente di grave, se uno ci pensa. Hanno forzato una pompa di benzina? (anche se non c’è alcuna prova che siano stati loro…) questione di sopravvivenza, piccole cose”.

G.:” Mai hanno fatto male contro le persone. Io non riesco a dire che uno è buono e l’altro è cattivo in base alla nazionalità. Pensiamo alla Tunisia: l’Eldorado per loro si vede dalla costa. Nelle giornate limpide si capisce che siamo vicinissimi e finché le persone non staranno meglio nel loro paese è normale che continueranno a venire. Non aiutandoli o facendoli morire su questi barconi, come qualche politico ha osato dire, questa cosa non si affronta in alcun modo”.

Camille: “Pronto? Si, sono ancora qui nel centro. Vorremmo tanto tornare a Pantelleria, riabbracciare Giusy e Mariano, la nostra famiglia. Ma se Dio vuole lo faremo, adesso possiamo solo aspettare”.

Camille e i suoi figli sono in attesa di poter lasciare Salina Grande, hanno ottenuto tutti un permesso di soggiorno per asilo politico. Se da questo punto di vista la loro storia è migliore di tante altre concluse con detenzioni lunghissime e deportazioni, rischiano ancora di venire separati e che i bambini siano affidati a un assistente sociale
Giusy e Mariano, pur tra tutte queste difficoltà, stanno aspettando di riaccogliere la loro famiglia venuta dal mare, hanno trovato un lavoro a Camille, e attendono la prossima udienza.
A loro va ogni ringraziamento per il modo in cui hanno vissuto e raccontato questa storia, fin dal primo istante, senza mai avere paura.
Mi hanno chiesto se l’Italia garantisca un sussidio per chi ha avuto asilo politico e ha affrontato esperienze come quelle di Camille, e sono stati delusi dalla mia risposta.
La solidarietà, i legami affettivi, la possibilità dello scambio, del dono, dell’intreccio di vite diverse, è in questo paese costantemente umiliata e impedita dalla legge del controllo, della separazione, della razzizzazione che diventa più che mai visibile in tutti i luoghi di confinamento di cui è costellato il suo territorio. Siano essi centri di detenzione, di attesa, di “accoglienza”, di raccolta, siano essi Cara come quello di Salina Grande, in cui la pelle dei bambini si riempie di eritemi, Cie istituzionali come quello di via Mattei a Bologna dove tante donne sono state picchiate a seguito delle proteste estive dopo l’innalzamento del tempo di detenzione a 18 mesi, o siano infine i luoghi fuori da ogni formalità come quello improvvisato a Pantelleria, il cui regime si è molto inasprito con l’arrivo intensificato di tanti ragazzi provenienti dalla Tunisia.

Si ringrazia la dottoressa Mimmi Panzarella per avere reso possibile questa intervista.