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Ritorno al domani: l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica*

di Lauso Zagato

1. Riproporre all’attenzione il caso del crocifisso – deciso dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo (Corte EDU) alla fine del 2009 (3 novembre 2009, Lautsi c. Italia, 30814/06), con sentenza poi rovesciata nel merito dalla Grande Camera nella primavera 2011 (18 marzo 2011, Lautsi e altri c- Italia [GC], 30814/06) – sembra oggi irriverente, quando non meritevole di derisione. Fin dall’inizio la questione, colta in tutta la sua importanza da parte non solo cattolica ma più generalmente dell’assetto conservatore (nell’accezione particolare che apparirà chiara oltre, par. 4) è stata sottovalutata e vissuta con imbarazzo tra quanti combattono contro gli effetti perversi della globalizzazione, e poi della crisi (ed anche qui, mi scuso per l’imprecisione): laicismo pseudo-illuminista, materialismo otto-novecentesco… a fior di labbra, sempre pronta ad essere evocata, l’accusa infamante (?) di vezzo radical-chic.
Non può quindi sorprendere che non se ne parli più. I primi hanno ottenuto quanto volevano; per i secondi, un fastidioso elemento di divisione (tra cittadini e migranti, tra poveri, tra comunità in lotta per la difesa del territorio, etc.) è stato evidentemente superato. Bello, non c’è che dire; solo che le cose stanno molto diversamente, e una riflessione più approfondita non guasta.
Ricapitoliamo il caso, anche perchè tanti se ne sono ormai dimenticati: la signora Lautsi considerava la pratica della scuola dell’obbligo frequentata dai suoi figli (un istituto comprensivo di Abano Terme, in provincia di Padova) di esporre il crocifisso in ogni aula contraria ai principi di secolarismo alla stregua dei quali essi vengono educati, e ne chiedeva la rimozione; in ciò richiamando anche una pronuncia della Cassazione (n. 4273 del 2000) relativo alla presenza del crocifisso nelle cabine elettorali in occasione delle elezioni. Il Tribunale amministrativo (TAR) del Veneto, adito a seguito del rifiuto del dirigente scolastico di provvedere alla rimozione, il 14 gennaio 2004 giudicava non infondato il ricorso e poneva alla Corte costituzionale il quesito relativo alla costituzionalità della prassi espositiva del simbolo nelle scuole pubbliche. Davanti alla Corte Costituzionale, il governo sosteneva che il crocifisso non è solo un simbolo religioso ma anche lo “stendardo della Chiesa cattolica”, e che essendo questa l’unica Chiesa citata nella Costituzione (art. 7) se ne deve desumere che il crocifisso è un simbolo dello Stato italiano.
La Suprema Corte dal canto suo (C.C. 15 dicembre 2004, n. 359) si dichiarava incompetente, constatando trattarsi di disposizioni contenute in regolamenti amministrativi e non in leggi della Repubblica. Tornato così il caso al giudice amministrativo, sia il TAR del Veneto (sentenza n. 1110 del 17 marzo 2005) che il Consiglio di Stato (13 febbraio 2006) rigettavano il ricorso della signora Lautsi per motivi di merito: il crocifisso sarebbe simbolo della storia e della cultura, addirittura dell’identità italiana, e in particolare dei principi di eguaglianza, libertà e tolleranza (TAR) e rappresenterebbe i valori della vita civile (CS). A giudizio del primo (punto 14.1), in particolare, il simbolo della croce in classe non avrebbe nulla a che vedere con le convinzioni religiose di alcuno, ma comporterebbe invece una riflessione sulla storia della società italiana come oggettivata nella Costituzione repubblicana .. e quindi farebbe corpo con il principio di secolarizzazione, nel suo aspetto migliore. Il CS, a sua volta, insisteva sul valore educativo del crocifisso anche in una prospettiva improntata al secolarismo.
Completato senza aver ottenuto soddisfazione l’iter giudiziario interno, alla signora Lautsi non restava che invocare innanzi alla Corte EDU la violazione dell’art. 2 del Protocollo addizionale alla CEDU (libertà di educazione) e dell’art. 9 (libertà di pensiero e di religione), oltre che dell’art. 14 (divieto di discriminazione) della stessa. Nel ricorso, ella faceva valere che il crocifisso ha innanzitutto e soprattutto un significato religioso, altre eventuali connotazioni risultando secondarie. In tal modo la sua esposizione nelle aule garantirebbe alla Chiesa cattolica una situazione di privilegio, tale da interferire obiettivamente con la libertà di pensiero e di religione assicurata dalla Costituzione.
Dal punto di vista educativo, ciò ingenererebbe nei fanciulli l’impressione che quanti non condividono la religione cristiana siano tenuti ai margini.
Il governo italiano ribadiva, davanti ai giudici di Strasburgo, quanto affermato dai giudici amministrativi nazionali: il simbolo in questione presenterebbe un valore etico che va alla radice dei valori costitutivi della società europea e che può perfettamente venire accettato anche dai non credenti a prescindere dal valore religioso. Ciò tanto più dal momento che l’esposizione non è accompagnata dalla richiesta di comportamenti particolari né agli alunni né ai docenti, e dunque non attenta in alcun modo al diritto di aderire ad uno o un altro credo o filosofia. Solo come argomentazione sussidiaria, il governo italiano richiamava il principio del margine di apprezzamento, ricordando come questo costituisca uno dei capisaldi della giurisprudenza della Corte, anche perché i singoli Stati europei siano ben lungi dal presentare applicazioni concordi del principio del secolarismo. in questo campo.
La Corte ricordava, ricollegandosi alla sentenza Buscarini (18 febbraio 1999, Buscarini e altri c. S. Marino [GC], 24645/94, in ECHR Rep., 1999-I) come il fatto che un simbolo religioso sia usato anche per fini di altro genere (nel caso era l’uso di giurare in tribunale sul Vangelo in uso a S. Marino) non priva il simbolo steso del suo valore religioso; notava poi come, nelle aule, il crocifisso non possa che venire percepito dai discenti come parte integrante dell’ambiente scolastico: si tratta quindi di un “powerful external symbol”. Secondo i giudici la libertà negativa di religione non può consistere solo nel diritto al non essere fatti oggetto di educazione e indottrinamento religiosi, o di assentarsi dai servizi religiosi, ma si estende alle pratiche ed ai simboli (punto 55). Infine, i giudici confessano di non riuscire a vedere come il simbolo proprio della religione maggioritaria del nostro Paese possa essere considerato, all’inverso, simbolo di quel pluralismo educativo che è essenziale per la conservazione di una società democratica nel senso della Convenzione. Di conseguenza la Corte, stabiliva che vi è stata violazione dell’art. 2 del Protocollo in collegamento con l’art. 9 CEDU, senza neppure prendere in considerazione l’art. 14 (divieto di discriminazione).

2. La pronuncia resa dalla Grande Camera il 18 marzo 2011si caratterizza intanto, rispetto alla precedente, per essere introdotta da una panoramica sulla legislazione in Europa, che non era stata oggetto di particolari approfondimenti nella prima sentenza. Risulta da questa che la presenza di simboli religiosi è prevista, oltre che in Italia, in Austria, Polonia e (prima della sentenza della Corte costituzionale federale tedesca) in alcuni Lander, nonchè in enti territoriali svizzeri. Il simbolo è presente in maniera diffusa, senza regolamentazione ad hoc, anche nelle scuole di Spagna, Eire, Grecia, Malta, S. Marino, Romania. Non è diffuso nelle scuole pubbliche degli altri Paesi europei, mentre è espressamente escluso in Francia, Georgia e nella repubblica di Macedonia. Particolarmente interessante è il fatto che quando la questione è stata portata davanti alle Corti supreme dei singoli Paesi europei, solo la Corte costituzionale polacca si è espressa in termini rigidi, corrispondenti a quelli dei tribunali amministrativi italiani. La Corte federale svizzera ha imposto di togliere il crocifisso dalle aule nella scuola primaria; la Corte costituzionale federale tedesca ha espressamente stabilito la contrarietà al principio costituzionale della neutralità dello Stato, dell’ordinanza bavarese che obbligava l’esposizione del crocifisso nelle scuole. A seguito di tale sentenza il Parlamento bavarese, pur confermando con ordinanza la precedente misura, introduceva ex novo l’indicazione di misure di compromesso – o di soluzioni individualizzate – tutte le volte che i genitori, aderenti ad altra religione o non credenti, ponessero in discussione la presenza del crocifisso. Alla necessità di individuare simili soluzioni di mediazione e ragionevolezza si ispiravano pure le Corti supreme romena e spagnola.

Davanti alla Grande Camera il governo italiano contesta alla prima sentenza di aver confuso neutralità (concetto inclusivo) e secolarismo (concetto esclusivo) favorendo così un specifica scelta religiosa, quella dell’ateismo e del razionalismo agnostico. In altre parole, la sentenza del 2009 non sosterrebbe la neutralità dello Stato, ma favorirebbe una delle parti in causa. In secondo luogo, a detta del governo italiano, il crocifisso costituisce un simbolo identitario e culturale, il simbolo dei principi che stanno alla base della civiltà occidentale. Si tratta peraltro di un simbolo passivo, tanto più dal momento che non si può in alcun modo sostenere che in Italia l’insegnamento scolastico sia influenzato dalla presenza nelle classi del crocifisso. La sua presenza sarebbe dunque elemento di rispetto di una tradizione vecchia di secoli; il pur sacrosanto diritto dei genitori a veder rispettate le proprie scelte educative, e la propria cultura di provenienza, non può entrare in contrasto con il diritto della comunità a veder tramandata la propria cultura- La presenza del crocifisso in classe costituisce in definitiva un contributo legittimo al rendere in grado gli studenti di comprendere la comunità nazionale in cui ci si aspetta si integrino (punto 39).
Da ultimo (punto 40), il governo italiano richiama con sconcertante brutalità il diritto della maggioranza a vedere soddisfatte le proprie esigenze; ove ciò non avvenisse, si avrebbe .. abuso dei diritti della minoranza. La Corte avrebbe il dovere di tutelare i sentimenti religiosi maggioritari; nel dir questo il governo italiano richiama la giurisprudenza tradizionale della Corte EDU in materia di libertà di religione, e l’amplissimo ricorso che questa fa al principio del margine di apprezzamento.
La Grande Camera constata intanto che, alla luce delle complessità e diversità delle situazioni nei diversi Stati Parte, in questo più che in altri campi deve essere lasciato un ampio margine di apprezzamento ai singoli Stati. Richiama quindi la propria giurisprudenza consolidata, secondo la quale il citato art. 2 del Protocollo addizionale non impedisce allo Stato di impartire insegnamenti formativi che toccano materie religiose, anzi, lo esige. L’importante è che tali insegnamenti vengano impartiti in termini obiettivi, critici e confacenti ad una impostazione pluralistica. Successivamente i giudici, pur ribadendo che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, riconoscono come, sia in relazione all’ampiezza dell’ambito di applicazione dell’art. 2 del Protocollo, sia in relazione alla valutazione di opportunità circa il perpetuare o meno una tradizione religiosa, la decisione ricade nel margine di apprezzamento dello Stato. Unico limite è che ciò non dia luogo a fenomeni di indottrinamento capaci di porre a repentaglio la libertà di religione e i diritti dei genitori sull’educazione dei figli.
Da ultimo, la Grande Camera, in modo brusco e non ben motivato, si allinea a quanto già sostenuto dal governo italiano nel primo processo: il crocifisso è davvero un simbolo passivo e di conseguenza la statuizione dei primi giudici secondo cui si tratterebbe di un potente simbolo religioso (sulla traccia peraltro di risalente giurisprudenza) risulterebbe errata (punto 73).

3. Merita piena condivisione, intanto, il rilievo secondo cui la Grande Camera prima ha deciso “quale soluzione dare alla questione sottoposta alla sua attenzione e poi ha trovato la motivazione” (Conforti, “Crocifisso nelle scuole, una sentenza che lascia perplessi”, www.affari.internazionali.it; in senso convergente Palombini F.M., “La decisione della Grande Camera dei diritti dell’uomo nel caso Lautsi: un uso incongruo della nozione di ‘simbolo passivo’”, in Rivista di diritto internazionale, 2011, pp. 463-467) . La Grande Camera giustifica infatti l’applicazione della teoria del margine di apprezzamento alla luce della pluralità dei regimi vigenti in Europa in materia di esposizione dei simboli religiosi. Al contrario, proprio la disamina condotta dalla Corte ha appurato come la presenza del simbolo del crocifisso nelle aule della scuola pubblica sia prevista solo in Italia, Austria e Polonia; in alcuni altri Stati vi è tolleranza di fatto. Soprattutto, in Svizzera, Spagna e Germania le Corti Supreme ne hanno ordinato la rimozione (a seguito della pronuncia della Corte federale costituzionale, lo si è visto, la Baviera ha fatto un significativo passo indietro, accettando una soluzione di tipo greco, o romeno). Insomma: la stessa Grande Camera ci conferma come lo scomposto gridare contro l’ateismo di Stato che ha attraversato l’Italia nell’intervallo tra le due sentenze fosse ispirato a mera strumentalità. Non per questo, purtroppo, il risultato finale è apprezzabile.
Il punto centrale è quello che riguarda la natura passiva o meno del simbolo. La teoria, ricordiamo, è stata elaborata in ambiente giuridico non europeo (Corte Suprema degli Stati Uniti, 5 marzo 1984, Lybch v. Donnelly, n. 82-1256): i simboli religiosi possono essere esposti in pubblico purchè si tratti di meri simboli passivi, e come tali siano percepiti dai frequentatori del luogo. Si tratta di una teoria che pone al centro le sensazioni soggettive dei ricettori. L’utilizzo che ne fa la Grande Camera vorrebbe invece essere di tipo oggettivo: si fonda infatti sulla rilevazione che la libertà religiosa, e la libertà di educazione religiosa dei figli in particolare, non sono come tali a rischio.
Ma .. è davvero così?

4. Ad avviso di chi scrive, l’argomentazione della Grande Camera funziona solo ove resti ancorata al terreno tradizionale dell’eventuale contesa religiosa tra diverse fedi e convinzioni. Concediamo pure che il simbolo non prefiguri alcuna situazione di indottrinamento implicito rispetto ai seguaci di altre religioni o ai non credenti. Il punto è piuttosto che in Italia è in corso una battaglia senza esclusione di colpi sul terreno della biopolitica, che vede l’organizzazione di cui il simbolo del crocifisso rappresenta “lo stendardo”, in prima linea per imporre a tutti i membri della società non tanto la propria fede sul destino dell’uomo dopo la morte, ma la propria visione di ciò che è naturale e lecito (e di ciò che non lo è, e va quindi proibito dalle leggi dello Stato) dal momento della nascita a quello della morte fisica. Basta quindi spostare l’attenzione dal terreno religioso in senso proprio ai temi scottanti della fecondazione artificiale, del testamento biologico, delle scelte sessuali, per constatare come l’utilizzo del simbolo nella scuola non abbia più nulla di passivo, ma costituisca invece manifestazione tipica di un poweful external symbol. Il fatto certo è che la presenza del simbolo della Chiesa cattolica nella scuola pubblica contribuisce senz’altro a costruire elementi di pre-identificazione con le posizioni di tale organizzazione sulle questioni decisive riguardanti l’inizio, lo svolgimento e la conclusione della vita terrena (per i non credenti, l’unica) degli individui. Diviene insomma vessillo del biopotere nella sua configurazione più hard. Ciò perlomeno tutte le volte che la grande fortuna incontrata dalle due espressioni di origine foucaultiana, i numerosi approfondimenti in varie direzioni ad opera di diverse scuole di pensiero, non facciano dimenticare quella interpretazione che ha saputo, più di ogni altra, cogliere come nell’odierno orizzonte biopolitico le problematiche inerenti la scienza e la tecnologia assumono carattere strategico e, per molti versi, immediatamente ontologico e politico. Dona Haraway ci insegna appunto (Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche dei corpi, Feltrinelli, Milano, 1995; Testimone modesta@Secondo Millennio. FemaleMan© incontra oncotopo™, Feltrinelli, Milano, 2000) come nel secolo in cui ci inoltriamo l’orizzonte del biopotere sia quello della confronto/scontro sullo statuto del corpo, sul controllo e sul dominio su di esso e sulle protesi che lo accompagnano, sul contenuto informazionale e tecnologico che lo definisce.
Il giurista deve solo aggiungere, sommessamente: quello definito dalla studiosa americana costituisce un orizzonte delimitato, scandito addirittura dalla dimensione giuridica. E dunque: una importante battaglia iniziale è stata giocata e l’esito (dalle conseguenze ancora non del tutto apprezzabili, ma certo nemiche di ogni affermazione di libertà), è sconfortante.

5. Perplessità radicali sulla natura di simbolo passivo del crocifisso esposto nelle aule, e preoccupazioni sulle conseguenze della pronuncia, vengono peraltro in rilievo anche in relazione alla vera e propria ossessione identitaria che ha caratterizzato, in entrambi i giudizi, le posizioni dello Stato italiano.
Tale richiamo, è stato opportunamente osservato (Fiorita, “Uguaglianza e libertà religiosa negli ’anni zero’”, in Diritto, immigrazione, cittadinanza, 2011, pp. 30-49), risulta sostenuto da “un inedito diritto municipale di natura confessionale” (ivi, p. 46), come dimostrano le molteplici ordinanze di sindaci, dopo la prima sentenza, in cui si ordinava l’esposizione del crocifisso nelle scuole di singoli territori comunali. Folklore giuridico? Per certi aspetti senz’altro: pensiamo alla minaccia di uscire .. dall’Unione europea se la Grande Camera della Corte di giustizia non avesse ribaltato in appello (sic!) la sentenza. Si tratta peraltro di un folklore torvo, piegato come esso è ad esigenze di controllo e discriminazione in chiave territoriale; un folklore, peraltro, non certo esclusivamente italiano.
Esso si rivolge in maniera indifferenziata a simboli, edifici (sul referendum svizzero dell’altro anno, Sanna, “Sovranità popolare e diritti umani in Svizzera: l’iniziativa federale contro l’edificazione dei minareti”, in Diritti umani re diritto internazionale, 2010; sulla situazione italiana, Fiorita in Newsletter del servizio giuridico contro la discriminazione etnica, razziale e religosa, n.7/febbraio 2011, www.asgi.it.), abbigliamento religioso (Zagato, “Il volto conteso: velo islamico e diritto internazionale dei diritti umani”, in Diritto, Immigrazione e .Cittadinanza, 2007, pp. 64-87; sull’evoluzione della situazione francese al riguardo Cossiri, “Francia: il rapporto Gerin-Raoult sul velo islamico riaccende il dibattito”, www.forumcostituzionale,.it , on-line dal 5 febbraio 2010) e anche, con un crescendo politicamente bipartisan, sulla somministrazione di cibi etnici (per una panoramica della situazione nel Veneto, De Marchi (a cura di), Le ordinanze sindacali (2008-2009) in materia di sicurezza urbana, Venezia, 2010). Piani e terreni diversi si intrecciano e si confondono in una deriva populista che per un verso si richiama ad una visione artificiale di identità culturale (a livello nazionale come locale), per l’altro trova “il suo postulato teorico nello svuotamento del concetto di democrazia, ridotta sempre più spesso al mero governo della maggioranza” (Fiorita, cit., p. 33). Posizione questa, che, lo si è visto, ha trovato una piana, inusitata e, almeno nella durezza dei termini, nuova – il riferimento è al tessuto giuridico euro-occidentale del secondo dopoguerra – enunciazione ufficiale proprio nella posizione del governo italiano innanzi alla Grande Camera nel caso in esame. Donde il preoccupato invito (ancora Fiorita, passim)a prender atto che ormai – nella prassi giurisprudenziale italiana, ma non solo – la tutela contro la discriminazione riesce a funzionare solo nei confronti di singoli individui facenti parte dei gruppi minoritari. Quando invece si tratti di discriminazione imposta dalla maggioranza ai gruppi minoritari in quanto tali, ad es. i rom (v. su questo . Cermel M., “ Rom e Sinti, cittadini senza patria?”, in ID. (a cura di), Le minoranze etnico-linguistiche in Europa, Padova, 2009, pp. 129-164), la tutela del giudice si presenta assai più aleatoria, limitata da una produzione normativa che, muovendo da presupposti (artificiosamente) identitari, sempre più spesso è incline a fare strame del principio di eguaglianza e non discriminazione.

6. Non è in discussione la realtà del ritorno della dimensione religiosa. Piuttosto, sul terreno delle pratiche religiose e delle loro manifestazioni esteriori, tale ritorno appare in misura crescente collegato alla ripresa della dimensione identitaria. Questa, nella temperie della globalizzazione, ed in presenza di fenomeni migratori su larga scala, torna a cavalcare forme dure di territorialismo. Si tratta di fenomeno non nuovo, anzi ampiamente studiato. E’ stato opportunamente osservato che; “Questo processo di produzione identitaria, di coagulazione di nuovi gruppi attorno a simboli identificanti .. è esattamente quello dell’etnogenesi” (Ciminelli, “Salvaguardia del patrimonio immateriale e possibili effetti collaterali: Etnomimesi ed etnogenesi”, in Zagato L. (a cura di), Le identità culturali nei nuovi strumenti UNESCO, Venezia, 2008, p. 119); ancora, “a ridosso dei processi internazionali di mescolanza e scambio delle tradizioni .. la territorializzazione dei tratti culturali .. viene rivendicata dai soggetti sociali locali come un atto di appropriazione culturale” con inequivocabili tratti di resistenza alle culture neoliberali” (Clemente, “L’Europa delle culture e dei progetti europei .. Tra cosmo e campanile”, in Zagato , Vecco (a cura di) Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura, Milano, 2011). Si tratta di manifestazioni che in altri contesti hanno avuto un segno democratico e laico: si pensi ad alcuni fenomeni di resistenza di culture regionali allo statalismo accentratore dell’Italia unitaria, a partire dal regionalismo sardo. Non si vuol dire che tale segno democratico sia scomparso: esso è anzi leggibile nei movimenti contro la crisi che vengono avanti in Europa. Resta però che le dimensioni e la tipologia del fenomeno migratorio che attraversa in profondità il continente sconvolgono il terreno della convivenza sociale e riproducono forme di razzismo gaglioffo. Queste investono il fenomeno dell’appartenenza religiosa in termini contraddittori e in parte inediti, come le ordinanze “Bianco Natale” di molti sindaci della Val padana stanno a dimostrare.
Persino il richiamo allo scontro tra religioni appare in questo contesto debole, e strumentale. A differenza che negli scenari di guerra di religione che hanno insanguinato in altre epoche l’Europa e il Mediterraneo, la criminalizzazione dell’altro non viene certo meno se per avventura la sua religione è la stessa. L’esempio è vicino: quei barconi sui quali si applicò per la prima volta nel 2008 il nuovo corso italiano del respingimento in mare erano ripieni di profughi provenienti del Corno d’Africa (cristiani copti, in larga misura) e dell’Africa sub sahariana occidentale (parte cristiani, parte animisti). E ciò non a caso: il regime libico era selettivo nella “pressione” sui gruppi di profughi e migranti provenienti dal Sud e dal Sud-est del continente. Il popolo di quei barconi smentiva con la sua viva carne la narrazione ossessiva sull’invasione islamica via mare che dominava e domina tuttora i nostri mass media così come l’immaginario diffuso. L’altro, soprattutto quando ha pelle diversa, resta tale anche se condivide la religione del paese europeo di immigrazione.
Le conclusioni sono estremamente preoccupanti. Nel rimescolamento di uomini e donne che pur ibridano, quasi sempre a propria insaputa, le rispettive culture e convinzioni, le stesse simbologie proprie delle pratiche religiose dei gruppi maggioritari possono acquistare – anzi acquistano spesso – valenze pericolose. Assai più che di guasti prodotti dal fanatismo religioso, si tratta però della spia di un problema di emergenza democratica sul terreno del riconoscimento e rispetto delle identità culturali, quando non sul terreno minimale del diritto alla non discriminazione delle minoranze.

Lauso Zagato
Professore di Diritto internazionale e dell’Unione europea
Università Ca’ Foscari – Venezia