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Quei tragici arrivi in Puglia per evitare la rotta di Zaher

Tra pochi giorni saranno passati tre anni da quella sera di dicembre del 2008 in cui un corpo senza vita e maciullato dalle ruote di un tir fu ritrovato in Via Orlanda a Mestre. Nelle sue tasche dei piccoli animaletti di plastica, un taccuino di poesie manoscritte, un foglio di via dalla Grecia. Che fosse un ragazzino afghano di nome Zaher Rezai si capirà solo qualche ora dopo.

Zaher è morto per sfuggire ai controlli di frontiera del porto di Venezia. Come ha raccontato il suo compagno di viaggio ritrovato a Patrasso nel 2009, Zaher aveva rischiato troppo per riuscire a raggiungere la frontiera adriatica e non voleva che la polizia italiana lo trovasse e lo rimandasse indietro come faceva con quasi tutti gli altri.

Per questo aveva tenuto strette le mani sotto la pancia del tir anche quando la cintura che lo legava si era rotta, finché aveva potuto, nonostante fosse allo stremo delle forze. La sua storia la conosciamo perché si è macchiata di sangue qui in Italia, in mezzo a una strada dove passano migliaia di persone ogni giorno. La storia di tutti quelli che per anni hanno seguito la sua rotta è rimasta quasi sempre, invece, sconosciuta.

Zaher torna in mente adesso, nell’anniversario della sua morte, di fronte alle vittime del terribile naufragio del 26 novembre davanti alle coste brindisine, e davanti all’arrivo di quell’altra barca che qualche giorno dopo si schianta ancora sugli scogli pugliesi, stavolta nel leccese, e stavolta, per fortuna, senza che nessuno muoia.

Perché quelle imbarcazioni portavano a bordo “clandestini asiatici” come li hanno definiti i giornali e i telegiornali – che sarà sempre troppo tardi quando impareranno a eliminare questa parola sbagliata, “clandestino”, dall’armamentario delle loro frasi. Iracheni, afghani, curdi. Sono innanzitutto persone e poi profughi, come lo era Zaher. E come Zaher fuggivano per avere una vita dignitosa lontano dalle bombe, dalle discriminazioni, da condizioni di insicurezza estrema.
Come Zaher erano arrivati in Turchia, perché è lì che le persone in fuga dai paesi ad est dell’Europa devono transitare, nonostante il trattamento riservato a tutti i migranti dal governo turco sia tra i peggiori del mondo.

A differenza di Zaher, però, queste persone finalmente arrivate in Italia neppure avevano provato a fare ingresso in quel paese dell’Unione europea che non riconosce il diritto d’asilo a nessuno e interna tutti indistintamente, anche i bambini, solo perché migranti venuti da altrove: la Grecia. A differenza di Zaher non avevano attraversato “il mare dei coccodrilli” o la zona minata di Evros al confine tra Grecia e Turchia, per arrivare nei porti di Patrasso e Igoumenitsa nascosti dentro o sotto un tir e partire verso l’Italia sulle navi di linea, rischiando con altissima percentuale di farsi intercettare dalla polizia di frontiera al loro arrivo a Venezia, Ancona, Brindisi o Bari e farsi rimandare indietro all’inferno.

Se ci si chiede perché delle persone paghino migliaia di euro per partire con una barca a vela dalle coste turche e venire a rischiare la vita davanti a quelle pugliesi ci si può rispondere ricordando la storia di Zaher: per evitare la sua rotta e la sua fine.

Troppo poco si parla delle condizioni inumane dei richiedenti asilo in Grecia, soprattutto ora che, si dirà, la crisi ellenica impone ben altre priorità… e troppo poco, o nulla, si parla dei respingimenti italiani che proprio in Grecia rimandano migliaia di profughi arrivati nei porti dell’Adriatico, ogni giorno, nel silenzio, ai danni di persone di ogni età e in violazione di tante convenzioni internazionali e dell’Unione europea, ma anche della legge italiana che ha recepito le direttive sull’asilo.

Dove si ergono mura i migranti aprono strade ancora più pericolose. Questi sono i viaggi che i respingimenti, i decreti di emergenza, la normativa istituzionalmente razzista e i centri di detenzione non arrestano affatto, ma rendono solo più atroci. Forse allora è questo lo scopo, verrebbe da dire, fare in modo che, a fronte di centinaia di migliaia di lavoratori senza diritti indispensabili alla nostra economia e fatti entrare con visti turistici lasciati scadere senza alcuna possibilità di regolarizzazione, i tantissimi Zaher che pesano sulla coscienza europea e italiana non vengano invece a morire sulle nostre strade, che se li prenda il mare o la terra di un paese meno ipocrita che almeno del rispetto dei diritti umani non ha fatto la sua bandiera.

Alessandra Sciurba