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da Il Manifesto.it del 18 gennaio 2012

Se gli enti locali si battono per i profughi

Vi ricordate la battaglia contro i profughi che arrivavano dalla Libia e contro le persone in fuga dalla Tunisia? I respingimenti? L’isola di Lampedusa strapiena di gente e a rischio epidemia, insultata e mortificata, perché Bobo Maroni – ministro dell’Interno – un po’ non sapeva che pesci pigliare, un po’ pensava che lo “scanto” sul fronte immigrazione paga sempre? E poi le tendepoli? La “guerra” con la Francia? La regolarizzazione a tempo? Il braccio di ferro con i Comuni che dovevano accogliere i profughi? E’ stato un bel pezzo di storia dell’anno scorso. Bene, ne è passata di acqua sotto i ponti. E adesso quei profughi nessuno vuole più lasciarli andare. La cosa, in sé, è curiosa, anche se comprensibile sotto vari punti di vista.

L’ultimo ente locale in ordine di tempo a chiedere che i profughi non vengano espulsi è la provincia autonoma di Trento, che ieri ha annunciato di essere in contatto con il ministro alla Cooperazione e all’Integrazione Andrea Riccardi per evitare che “un alto numero di dinieghi vanifichi gli sforzi profusi finora per dare a queste persone una speranza di futuro”.

Infatti sta succedendo che le solerti Commissioni per il riconoscimento dello status di rifugiato operino sempre con gli stessi occhiali, e di fatto stiano riempiendo di dinieghi le persone arrivate dalla Libia perché non hanno le caratteristiche né per ricevere uno status di rifugiato (e in molti casi neanche lo vogliono), né per usufruire della protezione internazionale. Si tratta di lavoratori di diverse nazionalità – tra cui sono molto numerosi i maliani e i nigeriani – che avevano un mestiere in Libia, che non pensavano proprio di trasferirisi in Italia, che in alcuni casi guadagnavano addirittura bene.
Sono stati caricati a forza sulle navi dai militari di Gheddafi, hanno rischiato la vita, hanno perso tutto, non hanno nessun progetto né in patria, né qui. E’ una situazione molto delicata, ma abbastanza “ovvia” quando si è vittime di una guerra, come in questo caso. La Commissione di questo si occupa, e non si capisce perché sia così rigida nel riconoscere a questi soggetti quella “protezione internazionale” che è nata proprio per “proteggere” – lo dice anche il nome – chi si trova in una condizione un po’ “speciale”, dovuta a una contingenza improvvisa e imprevista, come può essere una guerra (se poi ad essere colpito è il paese arabo più amico dell’occidente, come era ultimamente la Libia, tanto più, ma questo è un altro discorso).

Invece niente, si va avanti come i muli: riconoscimento dello status a somali e eritrei, protezione per pochi altri. I maliani, per esempio, sono spacciati: non vengono da un paese in pericolo, quindi raffiche di dinieghi.

Ma qualcosa è successo, ed è frutto, principalmente, della decisione – presa per il rotto della cuffia e fatta male, ma comunque avviata – di accogliere queste persone in microgruppi in moltissimi Comuni. Maroni era per le mega-tendopoli. Gli enti locali si opposero, ne nacque un tavolo di contrattazione che tra alti e bassi, qualcosa ha messo in piedi. Ora esistono molti micoprogetti di accoglienza sparsi sul territorio. Per fare questa operazione, nel caos e nell’incapacità organizzativa di quel periodo, sono stati spesi milioni di euro. I territori, oltre che incontrare e conoscere queste persone, hanno sicuramente anche messo in campo risorse, attivato nuovi posti di lavoro, avviato processi che fanno intravvedere un futuro di nuovi servizi. E non vogliono lasciarsi scappare tutto questo.

Razzismo e insofferenza per i “nuovi venuti”, sembrano scomparsi all’improvviso. Tutti vogliono tenersi i profughi e chiedono che non vengano espulsi, soprattutto al nord. Tutti chiedono di poter accogliere, di non buttare per strada questi migranti, e avvertono che le conseguenze potrebbero essere amare dal punto di vista della sicurezza sociale. L’appello lanciato da Meltingpot ha raccolto centinaia di firme, tra cui quella del governatore della Puglia Nichi Vendola e del sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Di fronte a questa inedita ma interessante mobilitazione, cosa farà il governo dei professori?