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Venezia – Piccoli omicidi di frontiera

di Riccardo Bottazzo

E’ successo ancora. E anche questa volta era un profugo fuggito dall’Afghanistan. Lo ha trovato un camionista bulgaro. Il cadavere era rannicchiato dentro il portellone posteriore del suo autoarticolato, in fondo alla stiva del traghetto greco Kriti II salpato da Igoumenitsa. Aveva 23 anni. E anche lui, secondo il referto del medico del porto di Venezia, è morto per soffocamento. Proprio come Alì, poco più di un mese fa. Anche lui morto asfissiato in fondo alla stiva, dentro il cassone del tir dove si era nascosto. Aveva la testa infilata in un sacchetto di plastica. Assassinato dalla frontiera. Proprio come il piccolo Zaher, travolto con il suo quaderno di poesie in tasca dalle ruote di un camion in manovra mentre cercava di fuggire dalla polizia portuale italiana.
Omicidi che avremmo potuto evitare semplicemente rispettando i trattati internazionali sui diritti dei rifugiati o, come nel caso di Zaher, la normativa italiana sui richiedenti asilo.

Ed invece i porti mediterranei continuano ad essere frontiere senza legge. Trincee in cui i diritti umani sono sospesi e affidati alla discrezionalità del momento. I profughi che hanno la fortuna di sbarcare ancora vivi vengono per lo più rimandati indietro, come pacchi postali con l’indirizzo sbagliato. Anzi peggio. Perché un pacco postale gode della garanzia di consegna in buono stato e della rintracciabilità via internet. I profughi no.

Quaranta ore dura la traversata da Patrasso a Venezia. Quaranta ore senza acqua, senza cibo, senza la possibilità non dico di andare al gabinetto ma anche di sgranchirsi le gambe. Quaranta ore rannicchiati dentro un container senza ricambio d’aria, a parlare sottovoce quando invece vorresti urlare.

Poi, quando dai rumori dei motori in manovra capisci che la nave sta attraccando, ti tocca anche infilare la testa in un sacchetto di plastica perché arriva l’ispezione della polizia di frontiera italiana che si è dotata di quei nuovi rilevatori sonori capaci di individuarti anche dal solo respiro. Un vero prodigio della tecnologia che davvero poteva essere dirottato a migliore causa. Perché sai bene che se ti prendono, ti riconsegnano al servizio di sicurezza della stessa nave in cui ti eri nascosto, senza darti prima l’opportunità di contattare un legale o un operatore sociale per formalizzare la pratica per la richiesta di asilo, come prevederebbero tutte le normative a tutela dei rifugiati, da quelle internazionali a quelle europee sino alla stessa legge italiana. Ma i porti, lo abbiamo detto, da quello di Venezia a quello di Ancona o di Brindisi, sono bunker dove il diritto non vale niente. Ti riconsegnano senza pietà agli stessi aguzzini cui avevi cercato di fuggire. E allora sai che ti attendono altre 40 ore nello stesso inferno che hai appena patito, chiuso a chiave in un qualche gavone della nave. E poi le botte, le violenze e la prigionia in Grecia. Un Paese dove, di fatto, lo status di rifugiato non esiste e i migranti in fuga da Paesi in guerra come l’Afghanistan, il Pakistan, l’Eritrea – guerre in cui l’Italia e l’Europa non possono certo affermare di avere la coscienza a posto – non hanno nessuna speranza di venire accolti.

E non sono le “solite” associazioni umanitarie a dirlo ma la stessa Corte di Strasburgo che, con una sentenza del gennaio 2011, ha condannato la Grecia per “trattamenti inumane e degradanti” nei confronti dei profughi in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani.

Dalla Grecia, se ti va male, sarai rispedito in Turchia o direttamente dal Paese da cui avevi tentato di fuggire. Per molti, per tanti, è una condanna a morte. Se ti va bene, il destino ti potrebbe riservare un’altra opportunità. Un altro tentativo di raggiungere l’Italia, magari dentro la stessa nave della prima volta. Un altro giro di giostra. Un altro tiro alla roulotte russa, sperando di sopravvivere ancora.
Tutto questo accade tra l’indifferenza generale. E nelle due righe che i giornali locali, quando ci scappa il morto, non possono fare a meno di dedicare alla questione, hanno pure il coraggio di chiamarli “rimpatri”. “Ancora clandestini al porto. Subito rimpatriati in Grecia” ci è toccato di leggere sul Gazzettino. Come se fosse la Grecia la loro patria! Hanno pure il coraggio di definirli “clandestini” anche se la Carta di Roma chiede ai giornalisti di usare i termini corretti ed evitare sensazionalismi per quanto concerne le notizie su richiedenti asilo e rifugiati. L’etica professionale evidentemente non serve per fare carriera.

Il caso del ragazzo afghano di 23 anni, arrivato morto asfissiato da Igoumenitsa, è solo una delle ultime tragedie accadute sulla traversata adriatica. Il nostro Paese, in questo caso, non ha responsabilità dirette, come invece nel caso di Zaher, come invece nei tanti casi dei richiedenti asilo, non di rado minorenni, illegalmente respinti senza concedere loro l’opportunità di formalizzare le richieste di asilo.

Tanti casi, abbiamo detto. E uno solo sarebbe già troppo. Ed è anche difficile conoscere con esattezza il numero di questi respingimenti. Non soltanto per le solite e pretestuose “ragioni di sicurezza” con le quali la polizia portuale nega anche ai giornalisti l’accesso ai dati, ma anche perché tutto viene svolto in una clima di totale sospensione dei diritti. Niente viene mai formalizzato o contabilizzato. Per l’autorità portale, questi richiedenti asilo non fanno neppure statistica! Se non hai documenti, non hai neppure diritti. Una volta bisognava essere ebrei.

Secondo una stima dell’osservatorio veneziano contro le discriminazioni razziali, nato da un Protocolo di intesa tra l’Unar e il Comune di Venezia, ottenuta incrociando dati della Prefettura e del Cir, nel periodo che va dal gennaio al dicembre del 2010 sarebbero comunque più di 600 i richiedenti asilo respinti e consegnati al personale di bordo delle navi in cui si nascondevano senza aver prima incontrato un mediatore o un interprete. E vale la pena di sottolineare che la polizia di frontiera, come ben spiega una direttiva europea recepita dal nostro ordinamento, non ha alcuna competenza nello stabilire la fondatezza o meno di una richiesta d’asilo e che, in ogni caso, rimandare chiunque verso un Paese dove può subire trattamenti inumani e degradanti viola il principio di non refoulement.

Una pratica di respingimento collettivo quindi, non solo illecita ma anche illegale e per la quale, nel caso di quanto accaduto con i profughi dalla Libia, l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea per il diritti dell’uomo. Una dura sentenza di condanna che rischia di essere replicata quando la stessa Corte darà, come tutto lascia supporre, ragione anche al simile ricorso, tutt’ora pendente, presentato grazie all’assistenza legale di alcune associazioni veneziane costituitesi nella Rete Tuttiidirittiumanipertutti, da 35 migranti, metà dei quali minorenni, respinti al porto di Venezia. La sentenza è attesa a breve termine è decreterà ancora una volta, l’infamia di una politica volta ad allontanare dall’Europa – il salotto buono del mondo – uomini, donne e bambini in fuga dalla fame, dalla povertà e dalla guerra. La stessa fame, povertà e guerra che paga le spese del salotto buono.

Intanto, il fallimento della politica che pretendeva di trasformare l’Europa in una fortezza è sotto gli occhi di tutti coloro che sappiano leggere un po’ più a fondo quanto è successo nel mondo arabo con le rivolte di primavera. E anche quanto succede a casa nostra con i deludenti (e vergognosi) risultati di quella barricata contro le migrazioni che si vantava di essere Bossi Fini.

I nostri porti e in particolare il porto di una città storicamente aperta a tutte le culture come Venezia, non possono rassegnarsi ad un degradante ruolo di frontiere omicide e senza legge. Non è questa la loro storia. Non è questa la loro tradizione. Devono tornare ad essere quello che sono sempre stati: porte aperte verso altri mondi e altre culture. Non cittadelle fortificate dove i diritti fondamentali dell’uomo sono sottoposti alla discrezionalità della politica del momento.

Riccardo Bottazzo

Sono un giornalista professionista.
La mia formazione scientifica mi ha portato a occuparmi di ambiente e, da qui, a questioni sociali che alle devastazioni dei territori sono intrinsecamente legate. Ho pubblicato una decina di libri tra i quali “Le isole dei sogni impossibili”, edito da Il Frangente, sulle micronazioni dei mari, e “Disarmati”, edito da Altreconomia, che racconta le vice de dei Paesi che hanno rinunciato alle forze armate. Attualmente collaboro a varie testate cartacee e online come Il Manifesto, Global Project, FrontiereNews e altro.
Per Melting Pot curo la  rubrica Voci dal Sud.