Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

a cura dell'Avv. Ornella Fiore, Asgi

CIE di Torino – Soffre di disturbi psichici: detenuto e poi espulso

Il Giudice di Pace convalida sommariamente il trattenimento senza dar luogo ad approfondimenti medici. Un'altra storia di violazioni all'interno dei centri di identificazione ed espulsione

Mentre chiude temporaneamente il CIE di Lamezia Terme, dopo le denunce di MEDU (Medici per i Diritti Umani), si consuma l’ennesima gravissima violazione della dignità umana e del diritto all’interno di un CIE.
Non è l’unica.
Questi sedici anni dall’istituzione dei centri di detenzione, prima denominati CPT (Centri di Permanenza Temporanea) , ora chiamati CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), sono una storia, passata e recente, di continue violazioni, di garanzie eluse come carta straccia: storie di donne e uomini che nel loro percorso migratorio hanno incontrato la brutalità di questi luoghi in cui il rigore della legge vale in unica direzione, quella del carnefice nei confronti della vittima.

Eppure al tempo stesso cresce un sentimento sempre più diffuso e consapevole sull’inadeguatezza della legge sull’immigrazione, sui paradossali e spietati meccanismi che la muovono che, anche solo misurati con gli occhi di chi vorrebbe veder partire aerei carichi di migranti da “rispedire a casa loro” (frase rubata ad innumerevoli politici) mostra tutta la sua irragionevolezza.

Intanto nel nostro Paese chi è privo di un permesso di soggiorno può essere detenuto in un CIE anche fino a 18 mesi. Questo può avvenire senza che un giudice decida se privarti o no della libertà personale, può avvenire anche se sei nato in Italia (nonostante la sentenza di annullamento del trattenimento al CIE di Modena di Andrea e Senad dello scorso 22 marzo), può avvenire anche quando sei un familaire di cittadino italiano o comunitario, può avvenire se hai un figlio di pochi anni, può avvenire se nessuno ti ha mai notificato il diniego di alcunché.
Può avvenire e continua ad avvenire ogni girno in questo paese.
In alcuni casi, quando, come è previsto peraltro dalla legge, il Giudice di Pace chiamato a convalidare o meno la tua espulsione ed il tuo eventuale conseguente trattenimento, avrà l’occasione di riparare al danno, ma questa cosa apre un ulteriore capitolo dell’infinita storia di violazioni nei CIE italiani.

Chiamati a decidere sulla privazione della libertà personale dei migranti infatti non è un giudce titolato ad occuparsi di detenzione penale, ma invece il giudice di pace che spesso si limita a giudizi “troppo spesso atecnici, talvolta orientati ad una semplicistica distinzione tra categorie manichee (buoni o cattivi, meritevoli o non meritevoli) che nulla hanno a che vedere con la valutazione dei presupposti che la legge, nazionale e comunitaria, individua per legittimare tale misura”.

Pubblichiamo di seguito l’intervento dell’Avv. Ornella Fiore (Asgi) che ringraziamo per la segnalazione

Redazione


A Torino, negli scorsi giorni, si è consumata l’ennesima violanzione delle garanzie di legge e dei diritti fondamentali di un cittadino originario del Marocco affetto da gravi disturbi pscichici, prima rinchiuso in un CIE, poi vittima di un giudizio sommario e superficiale in merito al suo trattenimento, ed infine espulso senza che nessuno abbia dato seguito alle richieste dell’Avv. Ornella fiore che aveva più volte sollecitato un approfondimento della situazione clinica dello straniero.

In data 11.10.2012 veniva disposto dalla Questura di Torino il trattenimento presso il locale C.I.E. “Brunelleschi” del signor B.B., cittadino marocchino privo di titolo di soggiorno.

All’udienza di convalida fissata il giorno successivo presso il medesimo C.I.E., il suo legale, Avv. Ornella Fiore, produceva copiosa documentazione al Giudice di Pace, Dott.ssa Cultrera, dalla quale emergeva lo stato di grave disagio mentale del signor B.

In particolare, il legale citava espressamente alcuni passaggi della dichiarazione sottoscritta dal medico psichiatra che di lui si era occupato durante i tre mesi di ricovero presso una nota casa di cura torinese: “L’ipotesi diagnostica che è possibile formulare, dopo l’osservazione clinica, è quella di un quadro di psicosi mista (patologia caratterizzata dalla co-presenza di sintomi deliranti di tipo psicotico e di un disturbo del tono dell’umore, Disturbo schizoaffettivo cronico di classificazione ICD9)”.

Veniva altresì depositata copia integrale della cartella clinica relativa a quel ricovero, nonché ulteriore relazione del 14.2.2006, più datata ma altrettanto significativa, che evidenziava “una diagnosi di depressione maggiore grave in disturbo borderline di personalità, con elevato rischio suicidario”. Tale documento recava la firma di tre specialisti (una psichiatra e due psicologi).

Il delegato della Questura di Torino informava i presenti che le condizioni di salute complessive del trattenuto erano state ritenute dal medico (generico) di turno “compatibili con il trattenimento”, ma che, eventualmente, a fronte di consulto con uno specialista, la direzione sanitaria avrebbe potuto rivedere la precedente valutazione e che in tal caso la Questura avrebbe proceduto alle sue dimissioni.

Dal canto suo, il Giudice di Pace affermava di non essere una psichiatra e di non essere quindi in grado di valutare l’incidenza del trattenimento sulle condizioni mentali del signor B.

Le dichiarazioni degli specialisti venivano formalmente acquisite, ma mai lette nel corso dell’udienza: la Dott.ssa Cultrera non provvedeva in alcun momento alla loro consultazione ed, alla presenza delle parti, redigeva l’ordinanza di convalida del trattenimento senza neppure disporre un’integrazione d’indagine sull’effettivo stato di salute mentale dell’interessato.

Si sottolinea come un simile approfondimento fosse del tutto possibile (oltre che dovuto) sia per via dei poteri istruttori conferiti dalla legge al Giudice di Pace, sia in virtù del fatto che i termini previsti per provvedere alla convalida del trattenimento sarebbero scaduti il 15.10.2012, cioè tre giorni dopo.

Al termine dell’udienza, l’Avv. Fiore metteva a conoscenza la direzione sanitaria del C.I.E. della situazione del proprio assistito, fornendo ulteriore copia della documentazione clinica già citata, e le veniva comunicato che per il giorno successivo sarebbe stata fissata una visita psichiatrica; poco dopo, il legale contattava anche la Questura di Torino (Dott.ssa De Toma, per conto della Dott.ssa Fassone) per segnalare la necessità di procedere con urgenza ad un approfondimento della situazione del signor B.

Al mattino del giorno successivo, cioè il sabato 12, la direzione sanitaria del C.I.E. riferiva che la visita psichiatrica, pur disposta, non era ancora stata effettuata e che avrebbe avuto luogo presumibilmente il lunedì seguente.

Lunedì 14 ottobre l’Avv. Fiore contattava nuovamente la direzione sanitaria del centro e le veniva comunicato che, quella stessa mattina, il signor B. aveva lasciato la struttura: era stato rimpatriato.

L’Ufficio Immigrazione confermava la notizia ed il funzionario competente, Dott.ssa Fassone, si impegnava a verificare che prima di procedere alla sua espulsione lo straniero fosse stato effettivamente sottoposto a visita psichiatrica.

Ad oggi, 22.10.2012, nessuna comunicazione è giunta al riguardo.

Questi i fatti.
L’episodio risulta oltre modo censurabile: il punto non è affatto la decisione in sé di convalidare il provvedimento restrittivo assunto dalla Questura, giacché ciò costituisce espressione del potere discrezionale attribuito al Giudice di Pace.
Il problema è l’assoluta indifferenza manifestata da chi è chiamato a decidere della libertà personale di un individuo a fronte dei diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, in discussione (1).
A ciò si aggiunge la violazione del principio del contraddittorio: la mancata consultazione della documentazione clinica prodotta costituisce grave omissione nell’esercizio dei poteri attribuito al Giudicante, che – pur a fronte dell’evidente indizio di una seria patologia psichiatrica – ha incomprensibilmente tralasciato qualunque tipo di accertamento.

E ciò sebbene sulle certificazioni prodotte fossero oltretutto indicati i recapiti degli specialisti che le avevano firmate e nonostante vi fosse tutto il tempo per procedere ad un approfondimento prima della scadenza dei termini per la decisione.

L’accaduto non può che consolidare la sensazione degli operatori di uno sfasamento tra la previsione formale di principi e diritti fondamentali e quanto effettivamente applicato e riconosciuto all’interno dei C.I.E., dove regole altrove indiscutibili diventano per prassi evanescenti.

L’approccio dei Giudici di Pace – non titolati ad occuparsi di detenzione penale, eppure competenti in tema di trattenimento amministrativo degli stranieri, misura restrittiva della libertà personale – risulta troppo spesso atecnico, talvolta orientato ad una semplicistica distinzione tra categorie manichee (buoni o cattivi, meritevoli o non meritevoli) che nulla hanno a che vedere con la valutazione dei presupposti che la legge, nazionale e comunitaria, individua per legittimare tale misura.

Il caso esposto non rappresenta un episodio isolato e dimostra una volta di più la necessità di riconsiderare l’attribuzione della competenza in materia di espulsioni e trattenimento dei cittadini stranieri a Giudici non professionali, istituiti al fine di dirimere cause minori tra le quali non possono rientrano quelle che coinvolgono la libertà personale degli individui.

Nota:
(1) Tra i trattamenti inumani e degradanti cha l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali vieta, rientra “ogni sofferenza derivata da malattia fisica o mentale che sia, o rischi di essere, esacerbata da interventi di varia natura come la detenzione o l’espulsione, di cui possono essere ritenute responsabili le autorità pubbliche” (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Pretty c. Regno Unito, ricorso 2346/02, sentenza del 19 aprile 2004), così come ogni grave negligenza che comporti significative ripercussioni sullo stato di salute già compromesso di un individuo, ancorché non accompagnata dall’intenzione effettiva di umiliarlo (Price c. Regno Unito, ricorso n. 33394/96, sentenza 10 luglio. 2001).