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Europa – La “solidarietà difensiva” nella politica europea sull’asilo, a partire dal caso dell’Italia

a cura di Alessandra Sciurba

La “solidarietà difensiva” nella politica europea sull’asilo. A partire dal caso dell’Italia.

Numeri reali e allarmismi pretestuosi
Scriveva Kant che l’unico motivo per cui sarebbe possibile derogare dal “dovere morale imperfetto di aiutare e offrire riparo a coloro la cui vita, integrità e benessere si trovano in pericolo”, sarebbe la necessità di tutelare l’autoconservazione degli stati di accoglienza.
Nessuno dei paesi dell’Unione europea, questo è evidente, potrebbe sollevare una ragione simile per sottrarsi ai suoi doveri di accoglienza rispetto ai potenziali rifugiati che raggiungono il continente.
I numeri degli asilanti in Europa risultano infatti marginali rispetto alle cifre dei rifugiati nel mondo, che vengono accolti in larghissima parte dai paesi più poveri e direttamente confinanti con le zone di conflitto, o che rimangono come “displaced persons” all’interno degli stessi confini nazionali dei loro Stati. Nel 2011, le persone in queste condizioni erano più di 42 milioni e 500 mila, e solo una minima parte di loro si trovava sul territorio europeo.
Nonostante ciò, le politiche promosse dagli Stati membri in ambito di asilo politico sono state fortemente orientate dagli atteggiamenti difensivi tenuti negli ultimi decenni da quasi tutti i governi. Fatta eccezione per qualche tutela, seppur importante, introdotta o estesa da alcune direttive emanate sul tema, esse sono pervase da una sorta di “ansia da invasione”, per cui il principio dell’ inderogabilità di questo diritto fondamentale appare spesso posto in secondo piano rispetto alle questioni relative alla sicurezza del territorio e al controllo dei confini.

Quando si parla di “solidarietà europea” in tema di asilo e rifugiati, occorre quindi tenere presente come a livello istituzionale tale solidarietà sia per lo più declinata e intesa nei termini di un “burden sharing”, della “condivisione di un fardello”, che possa sgravare gli Stati membri da un eccessivo “carico” di responsabilità, soprattutto economiche, connesse con l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Ed è in questo senso che si levano solitamente le invocazioni di alcuni governi, soprattutto di quelli a Sud-est dell’Ue e quindi situati sulla linea di frontiera dell’Unione, affinché le istituzioni europee manifestino la propria solidarietà in termini di resettlement dei profughi e, soprattutto, di redistribuzione monetaria.
Tali richieste vengono solitamente accompagnate, soprattutto dai paesi mediterranei, dalla sovraesposizione mediatica degli arrivi via mare dei migranti e dalla messa in mostra di situazioni apparentemente emergenziali e ingestibili che sono spesso, invece, costruite ad hoc mentre potrebbero venire affrontate in maniere del tutto diverse e meno strumentali.
Il caso dell’Italia dimostra ad esempio, e forse meglio di ogni altro, quanto possa essere profonda la discrepanza tra i toni allarmistici rispetto a pericoli continuamente evocati, e la realtà oggettiva che riguarda il numero dei cosiddetti “sbarchi” sulle coste della penisola. Prenderlo in considerazione, nel dettaglio della sua storia recente, può aiutarci a definire meglio il motivo per il quale il richiamo ad una maggiore solidarietà europea in tema di asilo, per come viene prevalentemente espresso dalle istituzioni Ue e dai singoli governi, possa risultare ambiguo e non sempre compatibile con la garanzia dei diritti umani fondamentali dei richiedenti asilo e dei rifugiati.

Il caso dell’Italia durante la cosiddetta “emergenza Nord-Africa”
Come affermano i dati Eurostat, in accordo con quelli dell’UNHCR, nel periodo Gennaio-Marzo del 2012 l’Italia ha ricevuto 2.210 domande di asilo. Si pensi che nello stesso periodo la Francia ne ha ricevute 13.522 e la Germania 11.970.
In tutto il 2010 le domande di asilo in Italia erano state 10.052, contro le 47.791 della Francia.
Ma prendiamo adesso in considerazione il 2011, l’anno delle rivolte maghrebine e della guerra in Libia, durante il quale in Italia è arrivato il 62% in più dei rifugiati.

Va detto innanzitutto come il relativo aumento degli ingressi dei richiedenti asilo che si è registrato in quel periodo sia da ricondurre non solo e non tanto all’incremento delle partenze dei profughi in fuga da situazioni di violenza e instabilità, ma soprattutto al dissolversi degli accordi bilaterali che l’Italia aveva istaurato da anni con i dittatori Ben Alì e Gheddafi in tema di migrazione. A quei tiranni improvvisamente diventati (o ritornati ad essere, come nel caso di Gheddafi), i nemici delle democrazie occidentali, erano state affidate fino a quel momento, in modo più o meno diretto, le vite di centinaia di migliaia di rifugiati attraverso la pratica criminale dei respingimenti in mare, o tramite l’esternalizzazione del controllo delle frontiere.
Nonostante ciò, in tutto il 2011 hanno fatto richiesta di asilo in Italia “solo” 34.117 persone. Lo stesso anno, in Francia, sono state inoltrate 51.913 istanze.
Anche alla luce di questi dati, si coglie fino a che punto l’allarme lanciato dall’Italia nel momento della cosiddetta “emergenza nord-africa”, a seguito delle rivolte democratiche, risulti pretestuoso.
Per giustificarlo, in quei mesi Lampedusa è ritornata ad essere, come tante altre volte era successo, lo scenario dove mettere in atto lo spettacolo della frontiera. È stato sufficiente bloccare i trasferimenti dall’isola per poche settimane, per materializzare l’immagine più estrema dell’assalto al territorio italiano. Poche migliaia di persone abbandonate su quei pochi chilometri quadrati di roccia, a dormire per terra senza nessuna forma di accoglienza, sono state rappresentate come un pericolo ingestibile se affrontato con le procedure ordinarie, e cui tenere testa quindi col ricorso a decreti di emergenza che hanno gettato il paese in un clima di panico da guerra in corso.
Quel che è accaduto in quel periodo è tipico del modo di procedere rispetto alle migrazioni che il governo italiano ha avuto già a partire dalla fine degli anni Ottanta, con l’emblematica deportazione dei profughi albanesi dopo il loro internamento nello stadio di Bari, e che ha avuto il suo culmine nel periodo in cui la Lega Nord ha gestito il ministero dell’Interno.

Nel corso di questi decenni, la distinzione tra rifugiati e migranti economici è stata, da un lato, continuamente invocata a livello istituzionale per giustificare l’elevato numero di dinieghi a fronte delle richieste di protezione internazionale. Dall’altro, però, tale distinzione (in realtà sempre difficile da definire vista la complessità che sta alle origini di ogni percorso migratorio) è stata invece del tutto abbandonata ogni qual volta si sia proceduto ai respingimenti sommari o alle detenzioni generalizzate dei migranti.

Per comprendere la reale natura delle politiche sull’asilo in Italia, bisogna poi tenere presente quanto il sistema di gestione delle migrazioni, in modo non troppo dissimile da ciò che avviene nel resto d’Europa, preveda, e ricrei perpetuamente le condizioni affinché ciò avvenga, che le persone prive di documenti regolari continuino a fare ingresso sul territorio. Nonostante i proclami e le dichiarazioni ufficiali, l’obiettivo delle politiche migratorie italiane non è mai stato quello di arrestare la mobilità dei migranti, ma piuttosto di controllarla e di “confinarla” all’interno di un percorso previsto. Ciò che deve essere garantito è semplicemente il perpetrarsi della clandestinizzazione, e quindi dell’inferiorizzazione dei diritti dei migranti stessi, per implementare il sistema di sfruttamento della manodopera che in Italia è indispensabile al mantenimento di interi settori produttivi – che si basano in gran parte su assunzioni a nero – come quello edile, agricolo, o di quello riproduttivo del lavoro familiare.
Perché ciò sia possibile, nonostante gli arrivi via mare non abbiano mai rappresentato più del 15% degli ingressi irregolari in Italia e riguardino quasi interamente profughi e potenziali richiedenti asilo, essi sono stati mediaticamente sovraesposti come a rappresentare la realtà tutta delle migrazioni verso la penisola.

Il procurato allarme che tale sovraesposizione ha creato nel 2011 ad esempio, ha permesso, da un lato, che il regime di pratiche posto in essere si dispiegasse al di là di ogni controllo normativo, come nel caso delle decine di campi improvvisati in tutto il territorio del Sud Italia, molti dei quali trasformati più o meno formalmente in nuovi centri di detenzione ed espulsione dei migranti. Dall’altro, è stato strumentalizzato per avviare un ulteriore irrigidimento delle leggi italiane sull’immigrazione.
In ragione di questi taciti calcoli economici, sono stati sacrificati negli anni i diritti e spesso le vite di decine di migliaia di profughi e potenziali richiedenti asilo. Come tale politica si protragga fino ad oggi è dimostrato dal riavvio degli accordi anti-immigrati con i nuovi governi di Libia e Tunisia – nonostante essi non abbiano dato garanzie maggiori dei loro predecessori rispetto alla tutela dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo – e dal fatto che nessun canale di regolarizzazione permanente sia stato aperto.
La retorica dell’allarmismo ha infine permesso ai governi italiani di sottarsi il più delle volte ai costi che un’accoglienza degna implicherebbe, o di non razionalizzare gli interventi economici in materia, giustificando ancora una volta, sulla base delle continue “emergenze”, la violazione dei diritti e della dignità anche di quei pochi migranti che riescono a entrare nella procedura della richiesta di asilo.

Anche da questa prospettiva, quel che è avvenuto nel 2011 dà la misura concreta dell’opacità delle politiche migratorie italiane, denunciata dai recenti articoli di cronaca che hanno parlato di “scandalo profughi” rispetto alle speculazioni avvenute sull’accoglienza dei migranti partiti dalla Tunisia dopo la rivolta, e dalla Libia a seguito della guerra.

Più in generale, tutti i limiti della gestione italiana dell’asilo sono stati di recente evidenziati dal rapporto del Commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa che ha sottolineato l’aumento delle istanze di impugnazione, sempre più spesso accolte da alcuni tribunali europei come quelli tedeschi e austriaci, depositate da parte dei richiedenti asilo contro il provvedimento di trasferimento in Italia previsto dal Regolamento di Dublino.

“L’emergenza Nord-Africa”: una storia italo-francese di “solidarietà all’europea”
Ma entriamo adesso nel merito della questione che riguarda la cosiddetta solidarietà europea sull’asilo proprio a partire dal caso dell’Italia. Alla luce di quanto appena esposto e dei dati sopra riportati, si comprende la ragione per la quale gli innumerevoli appelli del governo italiano, volti a ottenere un maggiore sostegno dagli altri membri Ue a partire dalla propria posizione di frontiera Sud dell’Europa, non siano stati presi troppo sul serio da questi ultimi, nemmeno e soprattutto durante le rivolte maghrebine e la guerra in Libia.
Proprio nella primavera del 2011, ad esempio, le barricate alzate dalla Francia alla frontiera di Ventimiglia contro i profughi tunisini sbarcati a Lampedusa, e la sospensione momentanea del regime di Schengen attuata dall’allora presidente Sarkozy, sembravano dire a gran voce alle istituzioni italiane di smetterla di gridare all’allarme al solo fine di ottenere soldi o dislocare i costi per l’accoglienza di un numero di persone pari, se non inferiore, a quello con cui la Francia e molti altri Stati Ue avevano a che fare ordinariamente.
L’Italia, del resto, aveva concesso a quel tempo migliaia di permessi umanitari, tramite l’ennesimo decreto d’emergenza, nella speranza, apertamente dichiarata, che con quei fogli di carta in mano i profughi della rivolta dei gelsomini si dirigessero in massa oltralpe abbandonando il territorio italiano.
In quel momento, solo le decine di “treni della dignità” organizzati da attivisti antirazzisti italiani e francesi per permettere ai migranti di esercitare un diritto di scelta rispetto al proprio percorso e al proprio futuro, e la resistenza di movimenti come quello dei “tunisini di Lampedusa a Parigi”, hanno cercato di squarciare la cortina di ipocrisia che regolava il gioco delle parti tra la Francia e l’Italia.

I rimpalli di responsabilità in area mediterranea
Anche e soprattutto in area mediterranea le responsabilità dell’asilo vengono costantemente rimpallate da uno Stato all’altro attraverso pratiche che violano costantemente i diritti dei profughi.
Ancora il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha posto ad esempio l’accento sulla pratica dei respingimenti informali avviati dall’Italia, specie dalle frontiere adriatiche dei porti di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi, verso la Grecia. I profughi intercettati vengono in questo caso respinti attraverso procedure sbrigative e informali, che hanno lo scopo primario di farli ripartire sulla stessa nave con cui sono arrivati. Molti di questi migranti – in maggior parte afghani – fuggono dalla Grecia utilizzando clandestinamente i traghetti turistici in cerca di una protezione internazionale che la Repubblica ellenica non garantisce a nessuno, con il suo 0,1% di richieste di asilo accolte ogni anno. Pur di sfuggire ai controlli della polizia italiana cui segue nella maggior parte dei casi un respingimento, molte persone, anche minorenni, perdono la vita per soffocamento o schiacciamento nei tir dentro i quali si nascondono (storie non dissimili segnano anche l’attraversamento della frontiera tra Francia e Inghilterra che si materializza nei controlli della polizia al porto di Calais).
Le conseguenze di questi respingimenti possono essere valutate se, passeggiando all’interno del porto di Igoumenitsa, si volge lo sguardo verso le gabbie dentro le quali i respinti dall’Italia, solitamente decine di persone alla volta, tra cui anche molti bambini, vengono ammassate per settimane finché non si trova il modo di procedere a ulteriori respingimenti vero la Turchia.
Il caso della Grecia, come e più di quello dell’Italia, dimostra infatti l’insostenibilità della politica posta in essere dal Regolamento Dublino, anche nella sua versione aggiornata al 2003. Tale politica è insostenibile non tanto perché presupporrebbe, eleggendo il paese di primo ingresso a depositario della richiesta d’asilo, una mancata ripartizione delle responsabilità tra i paesi Ue della frontiera mediterranea rispetto a quelli situati in altre posizioni geografiche.

Nonostante questo sia il principale motivo di critica da parte dei governi che vorrebbero modificare il Regolamento, abbiamo già detto come in realtà alcuni paesi del centro-Nord abbiano continuato negli anni ad essere gli Stati più interessati dalle richieste d’asilo politico nonostante non si trovino ai confini dell’Unione europea.
L’ingiustizia del Regolamento Dublino è invece radicata nel presupposto stesso che è ipocritamente posto a fondamento della sua istituzione, ovvero quello dell’eguaglianza e interscambiabilità tra gli Stati Ue rispetto ai criteri di accoglienza e “gestione” dei richiedenti asilo.
Si pensi che per la stessa nazionalità si va da tassi di riconoscimento dell’asilo del 70%, come nel caso degli afghani nella maggior parte dei paesi nord-europei, a tassi di riconoscimento dell’1%, come nel caso degli stessi afghani in Grecia.
Neppure la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che nel 2011 ha dichiarato la Grecia colpevole di violazione diretta dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) della Convenzione, e ha condannato il Belgio come colpevole indiretto di quella violazione, per avervi rimandato un richiedente asilo, ha sospeso nei fatti tutti i trasferimenti verso la Repubblica Ellenica. Questi, come abbiamo visto nel caso dell’Italia e della sua frontiera adriatica, continuano anche e soprattutto al di furi del Regolamento Dublino.

Nel frattempo, il numero di ingressi diretti di richiedenti asilo verso la Grecia è aumentato negli ultimi anni, proprio a causa dell’aumento dei controlli alla frontiera Mediterranea e del rimpallo delle responsabilità dell’asilo da parte degli altri paesi a Sud dell’Europa.

Anche Malta e Cipro, infatti, proprio come l’Italia, hanno più volte negli anni lanciato allarmi all’Unione europea auspicando uno “burden sharing” in relazione ai profughi giunti sul loro territorio. Proprio a seguito di questa “solidarietà mancata”, i governi del Mediterraneo europeo sono arrivati a rivendicare come legittime le pratiche di respingimento, omissione di soccorso e violazione sistematica dei diritti umani.

Quale solidarietà per quale Europa
Se gli altri Stati membri del Nord Europa hanno a ragione relativizzato gli allarmismi dei loro alleati mediterranei, questi ultimi non sono però stati adeguatamente richiamati ai loro obblighi di rispetto dei diritti umani, se non attraverso singole sentenze della Corte di Strasburgo o qualche condanna del Parlamento europeo.

La logica che ha caratterizzato il sistema comune europeo di asilo fino ad oggi è stata quindi una logica di rimpallo delle responsabilità, di gestione e strumentalizzazione dei potenziali richiedenti come un problema di sicurezza anche attraverso una stigmatizzazione che ha legittimato nell’opinione pubblica pratiche come quelle della loro detenzione diffusa.
Non sono quindi stati scardinati, nella sostanza, gli atteggiamenti difensivi dei singoli Stati membri impegnati da decenni in pratiche di “svuotamento” dell’asilo politico cui fanno da contraltare modelli di clandestinizzazione delle migrazioni volti a sfruttare la mobilità dei migranti senza pagare in alcun modo i costi dei loro diritti.

Se alcune direttive europee, come quella del 2005 sulle procedure, hanno in parte accennato a un indirizzo diverso, esse hanno però sempre lasciato ampio margine di manovra ai singoli Stati membri che le hanno quasi sempre applicate al minimo delle loro previsioni.
A intervalli periodici, ha intanto continuato ad affacciarsi la possibilità, allontanata temporaneamente solo dalle insurrezioni Nordafricane, di esternalizzare in maniera più strutturale e formalizzata di come non avvenga già oggi, ovvero direttamente fuori dal territorio europeo, le procedure d’asilo all’interno di specifici “transit centre” a gestione mista euro-maghrebina.
La condizione generale di crisi economica, infine, con il leitmotif dell’impossibilità di garantire i diritti sociali anche degli stessi cittadini europei a causa di una presunta scarsità delle risorse necessarie, ha ulteriormente aggravato lo stato di salute del diritto d’asilo in Europa.

Un’inversione di tendenza è a questo punto indispensabile, affinché il tema della solidarietà tra Stati membri nella gestione dell’asilo venga declinato innanzitutto nei termini di una solidarietà da rivolgere agli asilanti stessi.
Lo scorso settembre il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione sul “Rafforzamento della solidarietà all’interno dell’UE in materia di asilo” che, effettivamente, pur non evidenziando tutte le criticità messe in luce in questo articolo, riponeva al centro del dibattito anche la tutela fondamentale dei diritti umani, sostenendo che “la solidarietà non si limita alle relazioni reciproche tra Stati membri ma si rivolge anche ai richiedenti asilo e ai beneficiari di protezione internazionale”. Si tratta però, come nel caso di tutte le Risoluzione di un Parlamento europeo di fatto svuotato di incidenza politica, di una linea di indirizzo che rischia di non avere conseguenze concrete sulle pratiche e sulla normativa ad oggi vigenti.

La gestione istituzionale del diritto d’asilo interroga profondamente le realtà politiche circa i principi che vengono posti alla base del loro agire. Essa misura la qualità delle democrazie occidentali, che si arrogano la facoltà “umanitaria” di muovere azioni di guerra in nome dei diritti umani, sacrificandoli però costantemente, sull’altare della sicurezza o della scarsità di risorse economiche, all’interno dei loro territori.
Ridefinire senza ipocrisie i criteri della solidarietà europea in tema d’asilo, spogliandola dalla logica esclusiva del “burden sharing” e arginando le speculazioni economiche e propagandistiche che troppo spesso accompagnano e orientano l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, significherebbe inoltre, nel caso dell’Unione, ripensare anche la qualità politica dell’Unione stessa, e la veridicità del suo proclamato fondarsi, anche in tempo di crisi, “sui valori della dignità umana, della libertà, della democrazia dell’uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”.