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Richiedenti asilo provenienti dalla Libia. E gli operatori del settore che dicono?

Foto di Lorenzo Masi

Il 31 dicembre di quest’anno, tra poco più di 2 mesi, cesserà la presa in carico e l’assistenza da parte dello stato italiano dei richiedenti asilo africani qui arrivati dalla Libia in seguito alla guerra civile scoppiata in quella regione.

Decine di migliaia di migranti proveniente, spesso loro malgrado e sempre a rischio della vita, da varie regioni dell’Africa subsahariana si troveranno, ancora una volta nella loro esistenza, in una situazione di disperata indeterminatezza. Se niente fino a quella data cambia non avranno assistenza e protezione in Italia, non godranno di uno status giuridico certo, ma allo stesso tempo e per ovvi motivi non ci saranno altre terre che sono la loro terra, nè in Libia, nè ovviamente nel loro paese di origine da cui sono fuggiti per i motivi più differenti.

Questo dramma annunciato, a cui non sembra che il governo italiano si stia approcciando con la dovuta sensibilità, chiama altresì in causa il lavoro di cooperazione sociale, e la sua trasformazione, dentro questa crisi di sistema. Ci sono delle domande che questa questione pone a tutti coloro che lavorano come operatori della relazione di aiuto. Sono delle domande che io mi pongo come mediatore culturale che lavora con i richiedenti asilo, ma che penso possano essere, in questo momento, estese a tutti gli operatori della cooperazione sociale: educatori, mediatori, formatori ecc. 

Sono delle domande attorno a cui si gioca, in questi tempi di crisi, una partita, per la nostra professione, fondamentale.
Proverò ad essere semplice e schematico.
La nostra professione, come è stata plasmata nel XX secolo, forgiata anche dalle battaglie per l’affermazione della dignità professionale degli educatori è sempre più incerta, instabile, spezzata. Mentre si chiede sempre più professionalità ed un approccio multidisciplinare che chiama in causa saperi molteplici: di cura, di relazione, di mediazione, di comprensione della macchina amministrativa e giuridica ecc. viene minato costantemente il diritto alla certezza della continuità di un intervento. Dal primo gennaio, per esempio, molti operatori che con i richiedenti asilo lavorano, questo lavoro lo perderanno e dovranno cercarlo altrove. Non sarà il mio caso, in quanto l’agenzia di servizi sociali territoriale dentro la quale lavoro continuerà l’intervento con i richiedenti asilo anche a prescindere dall’erogazione dei finanziamenti della protezione civile. Questo elemento chiama in causa anche un altro aspetto della nostra professione. Finora ho lavorato con richiedenti asilo collocati su territori differenti in piccole unità, per capirci in case in cui si ricreava una relazione di prossimità e molecolare e dove siamo stati messi in grado di contribuire a praticare un’attività di inserimento sociale e di acquisizione reale di cittadinanza. Siamo stati un’eccezione, purtroppo, come dimostra la gestione della cosiddetta emergenza nord Africa attraverso il dispositivo dei campi, l’approccio generale è stato un altro.

Si è giocato, sulla pelle dei migranti e degli operatori una partita profonda, la trasformazione della natura, dei compiti e delle funzioni degli operatori a cui vengono assegnate sempre più funzioni di controllo, disciplina, produzione di norma. Chiunque lavori nella cooperazione sociale sa che questa torsione riguarda in questo momento tutti gli ambienti del nostro lavoro, dalla marginalità sociale all’handicap, dalle strutture alla bassa soglia.
Chi sta provando a governare ed utilizzare la crisi per imporre una trasformazione economica e sociale prova a catturare ed utilizzare i lavoratori della cooperazione sociale come elemento di normalizzazione. Bisogna riconoscere la qualità della posta in gioco e trovare strategie per opporre un rifiuto netto e collettivo a queste richieste.

Quindi: quanto vale il nostro lavoro? Di certo non quanto è pagato ora. Bisogna riposizionare la battaglia sul reddito in modo da prevedere una sua continuità per chi ha lavori intermittenti come il mio, ma anche estendere questa continuità a chi, come le persone con cui lavoriamo, subiscono, in modo accentuato, la stessa intermittenza nell’elargizione del welfare. Le due questioni si tengono a vicenda: riconoscimento della professionalità, continuità di reddito diretto ed indiretto, difesa del welfare. 

Questo tema riguarda un’altra questione che si pone immediatamente chi ha a che fare con il nostro lavoro nella sua materialità, il tema per cui spesso prevalgono anche tra di noi gli elementi di differenza, come elementi di limite e di divisione e non come strumenti di moltiplicazione della forza. Siamo tanti, con mansioni differenti, committenti differenti, contratti differenti, capi differenti e, come scrivevo poc’anzi, spesso prevalgono le differenze. Bisogna trovare viceversa i tratti comuni, i punti di applicazione della forza collettivi. Il tema della continuità del reddito, della difesa del wefare, della difesa della dignità della nostra professione possono essere tra questi.

Filippo Nuzzi, Educatori contro i tagli

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