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Asilo in Europa – L’attesa di un richiedente asilo in un centro di accoglienza. Intervista con Carolina Kobelinsky

Rubrica a cura di Alessandro Fiorini

Scheda

Lo avevamo promesso. Di arricchire le nostre schede-Paese della rubrica Asilo negli Stati europei con interviste ad esperti che ci potessero aiutare a capire meglio il funzionamento dei sistemi di asilo via via trattati e che potessero aggiungere l’indispensabile tocco di prassi e realtà alle nostre descrizioni di quelle che sono le regole generali.

Per questo, abbiamo chiesto un’intervista a Carolina Kobelinsky*, antropologa che ha lavorato sulla politica di accoglienza e assistenza dei richiedenti asilo in Francia.
Quello che è uscito dall’intervista con Carolina, tuttavia, va ben oltre un’interessante descrizione (anche “dall’interno”) del sistema di accoglienza francese.
Carolina infatti, grazie alla sua esperienza pluriennale di lavoro sul campo all’interno di centri collettivi, ci descrive efficacemente la vita quotidiana di un richiedente asilo accolto in uno di questi centri, dove “l’attesa può essere considerata la vera e propria attività”.
E questa descrizione, come è chiaro, supera qualunque confine e finisce per restituirci immagini e sensazioni in cui, crediamo, molti lettrici e lettori che operano nel settore dell’accoglienza dei richiedenti asilo non faranno fatica a ritrovarsi.

Molte grazie dunque a Carolina per l’importante contributo al nostro blog e buona lettura!

Avvertenza: poiché nel testo si fa riferimento a nomi e acronimi legati al sistema di asilo francese, raccomandiamo di leggere le righe che seguono assieme alla nostra scheda sulla Francia, reperibile facilmente qui. Nel testo abbiamo comunque inserito link che agevolano la lettura.

1) L’attesa nelle fasi iniziali del procedimento. Quanto tempo passa, in media, tra la “dichiarazione della volontà” di chiedere asilo e l’ottenimento della ricevuta che attesta il deposito della domanda, valida per tre mesi? Durante questo periodo i richiedenti asilo hanno accesso a qualche forma di accoglienza?

L’attesa comincia talvolta persino prima della dichiarazione dell’intenzione di chiedere asilo.
In alcune prefetture la carenza di personale e un’organizzazione discutibile generano liste d’attesa interminabili.
Molti richiedenti asilo trascorrono due o tre giorni (dormendo in strada, davanti all’entrata della prefettura), prima di poter entrare.

In generale, la maggior parte dei richiedenti, prima di entrare in un CADA (Centro d’accoglienza per richiedenti asilo, V. parte 3 – Accoglienza dei richiedenti asilo), non ha accesso ad alcun luogo di accoglienza. In questo periodo di tempo essi non ricevono nemmeno l’aiuto finanziario (che in seguito viene però corrisposto retroattivamente).

Non sono a conoscenza di dati precisi circa la durata dell’attesa iniziale. In ogni caso, le persone che conosco e che hanno iniziato la procedura negli ultimi due anni hanno dovuto aspettare, in media, circa quattro settimane tra la richiesta di asilo (e la raccolta delle impronte digitali) e l’ottenimento dell’APS (Autorizzazione provvisoria al soggiorno, V. parte 2 – Avvio della procedura di asilo).
Assieme all’APS, i richiedenti ricevono anche un formulario che devono compilare e inviare all’OFPRA (l’organo responsabile dell’esame della domanda di asilo, V. parte 4 – Esame della domanda) entro un mese. Successivamente, passa un altro mese per ottenere la ricevuta che attesta il deposito della domanda, valida per tre mesi.

2. I CADA. Qual è la loro dimensione? E dove si trovano? (centro città/periferia/lontani dai centri abitati?) Come si sviluppa la vita dei richiedenti asilo all’interno dei centri? C’è una differenza sostanziale tra i servizi offerti nei vari centri?

Esistono due tipi di CADA: quelli collettivi e quelli “éclaté”.
Nei primi le camere o gli appartamenti sono nella stessa struttura dove si trovano anche gli uffici degli operatori, mentre nei secondi gli appartamenti sono sparsi in tutta la città. I CADA collettivi hanno più posti rispetto agli altri.
Le dimensioni sono variabili, così come l’ubicazione.
Ad esempio, c’è un CADA nel centro di Parigi, ve ne sono altri nelle città della cintura, ma anche in zone rurali o lontane dai centri urbani.

In generale, nei centri collettivi è maggiormente pronunciato l’aspetto di controllo del dispositivo di accoglienza (che combina appunto assistenza e controllo).
Chiaramente non si tratta di strutture “chiuse”, ma di certo controllate.
Ed il controllo è più diffuso e meno stretto per le persone che non convivono quotidianamente con il personale amministrativo e sociale del CADA.

L’assistenza offerta nei centri è, più o meno, sempre la stessa; le differenze che esistono in generale dipendono da iniziative degli operatori che lavorano in un centro rispetto ad un altro o dall’impostazione (politica) dell’associazione che lo gestisce.

Per quanto riguarda la vita quotidiana, quello che posso raccontare si basa su un lavoro sul campo che ho realizzato tra il 2003 e il 2008 all’interno di CADA collettivi.
A quel tempo, i richiedenti asilo che ho incontrato aspettavano tra sei mesi e quattro anni prima di ottenere una risposta definitiva alla loro domanda di asilo e durante quel periodo non potevano lavorare.

In un tale contesto, l’attesa può essere considerata come la vera e propria “attività” di coloro che richiedono asilo in Francia e i CADA – spazi, per definizione, provvisori, di transito – sono i luoghi di quell’attesa.

Esistono ovviamente molti modi di vivere l’attesa e le differenze sono legate alle traiettorie personali di vita, al proprio bagaglio sociale, culturale, ecc..

Tuttavia, a partire dal mio lavoro di osservazione, mi sembra sia possibile delineare – in maniera molto schematica e per questo imperfetta e semplificata – una sorta di percorso comune. Distinte fasi nell’esperienza dell’attesa nei CADA.

L’ingresso nel centro apre un periodo per occuparsi di sé (consultare un medico, cominciare una terapia psicologica,…). È anche un periodo di apprendimento dei codici della società di accoglienza, soprattutto della burocrazia francese.
Senza dubbio, vivere per un lasso di tempo più o meno prolungato in un centro può essere la migliore opzione, se l’alternativa è ritrovarsi in strada, senza alcuna risorsa materiale né la consapevolezza necessaria per inserirsi efficacemente nella logica amministrativa.
Ciò nonostante, l’ingresso in un dispositivo di accoglienza non è privo di conseguenze. Pur senza essere uno “spazio di eccezione” (come un “campo” o un centro di detenzione amministrativa, dove sono trattenuti gli immigrati irregolari prima dell’espulsione), né un’istituzione totale (come il carcere), il CADA è uno spazio di confinamento, dove le pratiche oscillano tra il controllo e la compassione.
Per gli operatori, questa dimensione del lavoro genera quotidianamente molti conflitti e dilemmi.

Ma torniamo all’esperienza dei richiedenti. Alla vita attiva, al tempo pieno di obblighi ed eventi straordinari che caratterizzano l’abbandono del Paese di origine e il viaggio, si oppone il tempo senza attività, dove la noia costituisce il malessere impalpabile, però reale, della vita quotidiana.
Il loro precedente orizzonte temporale permetteva alla maggioranza dei richiedenti che ho conosciuto di strutturare le giornate, mentre ora (e qui) il tempo diventa elastico e a volte così “stirato” che si fa astratto.
La televisione e la radio rappresentano la compagnia. I giorni di chi ha figli si strutturano invece in funzione degli orari della scuola e del mangiare.

Per alcuni poi le attività religiose permettono di rinnovare la speranza, di trovare un ambito di socializzazione al di fuori del CADA e di dimenticare in qualche modo l’attesa. Anche l’attività associativa o politica, o il lavoro informale permettono ad alcuni di aprire nuovi spazi di socializzazione, di avere occupazioni che impongono una struttura temporale che lasci in secondo piano – per lo meno momentaneamente – l’attesa e la vita nel CADA.

3. Quante persone non riescono ad avere accesso ai CADA? Esiste una lista d’attesa? E chi decide (e in base a quali criteri) le priorità di accesso? Per coloro che non riescono ad essere accolti nei CADA esistono altre forme di accoglienza?

Attualmente, in Francia esistono 271 CADA, che possono ospitare 21.140 persone. Esistono anche circa 1.000 posti ulteriori, all’interno di centri chiamati AUDA (Accueil d’urgence pour demandeurs d’asile), attivi solo durante l’inverno.
Ma il numero di richiedenti asilo è molto più alto.
Nel 2011 l’OFPRA ha ricevuto 40.464 nuove domande di asilo, a cui devono essere aggiunti i procedimenti avviati in precedenza ma che ancora non hanno ricevuto una risposta e coloro che hanno chiesto un riesame della domanda dopo aver ricevuto una risposta negativa (V. parte 1 – I dati).

Non sono a conoscenza di dati recenti ma questo è uno schema che realizzai un po’ di tempo fa, a partire da dati ufficiali.

Scheda
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Fino al 2006 i richiedenti asilo dovevano scegliere se chiedere accoglienza in un CADA o meno. Se non entravano in un CADA, essi avevano diritto ad un aiuto finanziario per 12 mesi, benché il procedimento fosse generalmente molto più lungo. Nel 2006, questo quadro è stato trasformato.
Da allora, i richiedenti, allorché presentano la loro domanda di asilo, devono firmare una dichiarazione dove indicano la loro volontà di accedere ad un CADA.
Se non lo fanno, non possono ricevere neanche il sostegno finanziario (ATA, V. parte 3 – Accoglienza dei richiedenti asilo).
Questa nuova forma di aiuto finanziario copre tutto il periodo di attesa, al di là di quanto duri il procedimento.

Dall’altro lato, esiste attualmente anche una rete di associazioni di accoglienza ed assistenza, che offrono informazioni, orientamento e accompagnamento ai nuovi richiedenti.

La scelta di chi entra nei CADA è effettuata da Commissioni locali di ammissione, che dipendono dalle direzioni dei dipartimenti sanitari e sociali. I membri delle Commissioni sono funzionari pubblici e direttori delle associazioni che gestiscono i centri di accoglienza.
L’ammissione al CADA è decisa, in teoria, sulla base di “criteri di urgenza sociale”. Viene data priorità alle famiglie con figli piccoli, ai neo-maggiorenni soli, ai richiedenti con problemi di salute, alle donne sole, a coloro che sono appena arrivati e a coloro che hanno chiesto il riesame e che non sono stati ospitati in precedenza.
Chi non riesce a trovare posto in un CADA deve trovare una soluzione autonoma.

4. Esistono progetti dedicati ai minori? E alle persone con “necessità particolari di accoglienza” (ad es.: vittime di tortura)?

Per quanto di mia conoscenza, non esistono centri dedicati alle vittime di tortura. L’associazione Primo Levi offre assistenza in questo tipo di casi. L’associazione Comede si occupa della salute fisica e mentale degli esiliati. Anche il Centro Minkowska offre assistenza in materia di salute mentale.

Riguardo all’assistenza ai minori, esiste un centro per richiedenti asilo non accompagnati (CAOMIDA, Centre d’Accueil et d’Orientation des Mineurs Isolés Demandeurs d’Asile), gestito dall’Ong France Terre d’Asile.
Esistono poi diversi centri per minori stranieri (non esclusivamente richiedenti asilo).

vedi sito Blog personale: Asiloineuropa.blogspot.org