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Il silenzio dell’Italia sulla Libia. Tra interessi economici e violenze generalizzate

di Francesca Di Pasquale, Osservatorio contro le discriminazioni “Noureddine Adnane”

Foto habeshia.blogspot.it

Il 15 novembre a Tripoli una manifestazione diretta contro le milizie presenti in città si è trasformata in un bagno di sangue: 43 morti, centinaia di feriti. A parte questo, i media italiani non ci hanno raccontato altro, e nel giro di 48 ore la Libia è nuovamente scomparsa dai titoli dei giornali. Della Libia del post-Gheddafi, del paese di transito e di partenza di numerosi gruppi di migranti che provano a raggiungere il lato europeo del Mediterraneo, in Italia non si parla. Eppure la Libia rimane al centro degli interessi economici e strategici del nostro paese, continua ad essere il luogo di imbarco dei richiedenti asilo, dei rifugiati, degli uomini e delle donne che anelano a raggiungere l’Europa tramite il canale di Sicilia, è al centro degli obiettivi europei di “difesa” dei confini del continente fortezza. Le motivazioni che stanno dietro questa censura de facto sulla Libia e i molteplici interessi italiani forse non sono del tutto scollegati. Il quadro, certo, è complesso: come tutte le cosiddette fasi di “transizione”, operano attori non ben identificabili e si mettono in atto dinamiche dalle direzioni incerte. Un’estrema frammentazione su base regionale, locale, comunitaria – forse una delle eredità più pesanti del sistema di potere del regime gheddafiano – sta paralizzando la Libia, con molteplici livelli di negoziazione del potere.

Il petrolio, innanzitutto. Nancy Porsia, giornalista free-lance in Libia, racconta l’intreccio di interessi economici, politici e strategici in atto: “L’export è bloccato da quasi tutti i pozzi libici ad eccezione di pochi. Al momento nell’Ovest del paese sono aperti solo Zavia e Mellitah. Ad Est il blocco dell’export è attuato dai federalisti, a sud dai Tuareg; entrambi chiedono una gestione più trasparente del mercato del petrolio ed una distribuzione più equa della rendita. Ad Ovest gli Amazigh hanno bloccato l’export a Mellitah (nda: gasdotto controllato dall’ENI che giunge sulle coste siciliane di Gela) ma in una battaglia che non riguarda il petrolio, bensì i loro diritti”. Blocco peraltro terminato dopo il bagno di sangue del 15 novembre “per non cadere nel gioco politico che stava mettendo in atto il governo” (1).

Il “gioco politico” sarebbe quello di volgere il crescente malcontento verso il governo e che attraversa tanti settori della società libica, nei confronti delle milizie, e al contempo dare una scossa alla stasi dell’export che sta paralizzando l’economia libica. Il tutto con una semplificazione, in base alla quale tutti i mali del paese – dalla violenza ai problemi economici – avrebbero un’unica causa, le milizie appunto. Secondo questo schema il 7 novembre, per la prima volta il governo “chiede alla gente di scendere in strada contro i miliziani”.

E poi c’è il livello locale della contesa, che vede gruppi di potere lottare contro altri gruppi di potere. La manifestazione del 15 novembre è stata indetta da El Badri, a capo del consiglio municipale di Tripoli, membro del Libyan Islamic Fighting Group, il gruppo armato che condusse la liberazione della capitale libica durante la guerra. Manifestazione pacifica, quella del 15 novembre, per la gran parte dei manifestanti, ma in un clima di tensione altissimo, dove lo scontro in atto superava di gran lunga le attese e le speranze dei tanti partecipanti. Lo scorso venerdì, la gente è nuovamente scesa in piazza per commemorare i morti del 15 novembre: El Badri si è rivolto contro il governo ed ha presentato la sua “piattaforma” politica.

In questo intreccio di giochi di potere, contese locali e centrali, la società libica è certamente in movimento, però senza sapere bene che direzione prendere. I miliziani sicuramente non sono amati da tanti libici e questo spiega la forte risposta all’appello a scendere in piazza contro le qatibe. C’è un forte desiderio di interrompere i continui atti di violenza che permettono a chi è in possesso di un’arma di decidere della vita altrui, di lucrare sui fiorenti traffici illeciti, di controllare il territorio. I misuratini, in particolare, contro cui era diretto il corteo del 15 novembre, avrebbero il monopolio dello spaccio di alcol e droga a Tripoli. Sono i “più armati”, hanno stretto alleanze con i gheddafiani e si sarebbero impossessati dell’armamento dell’ex regime. Proprio gli stessi uomini che provengono dalla città più martoriata dal regime durante la guerra, con un altissimo numero di vittime. Ilaria Addeo, che è a Tripoli ormai da sei anni, mi racconta dei miliziani, ricorda che sono gli stessi ragazzi che hanno fatto la guerra, per lo più giovanissimi, “figli” della dittatura gheddafiana, con pochissimi riferimenti culturali e molta frustrazione. Le semplificazioni servono gli interessi di alcuni e non aiutano a comprendere il nodo delle dinamiche in campo.

In questo quadro, nel contesto di una forte insoddisfazione per le speranze deluse della rivoluzione libica, la dinamica del “capro espiatorio” si propaga molto facilmente. C’è un altro elemento di lungo periodo che attraversa la Libia dal periodo gheddafiano, ossia il processo di razzializzazione che colpisce tutti i “non-libici” presenti nel paese. Nella Libia post-bellica, tuttavia, il processo di razzializzazione si rivolge anche all’interno, verso altri gruppi di libici, come quello che colpisce i Taworgha, considerati i gheddafiani del misuratino, oggi costretti a vivere in accampamenti e impossibilitati a tornare a casa (2).

Il “capro espiatorio” per eccellenza rimangono gli stranieri, vittime di trattamenti disumani e degradanti, incarcerati con incredibile facilità, preda dei trafficanti di esseri umani (3). I lucratori del commercio del confine sembra siano gli stessi dell’epoca del regime e continuano a fare grandi affari, per lo più a Zuara e a Tripoli. Fra le nuove vittime ci sono i tanti siriani in fuga dalla guerra, spesso inseriti nel mercato del lavoro libico, ma costretti a condizioni di vita comunque durissime (4). Una “combinazione di sofferenze e di grandi aspettative di una vita migliore in Europa, fomentate dalle reti dei trafficanti”, li spinge a partire, mi spiega Nancy, ossia di rischiare la vita durante la traversata in mare. Prima per lo più integrati nel sistema economico e “diplomatico” del regime, oggi i trafficanti sono mal visti dalla società libica perché fonte di problemi e di imbarazzo nei rapporti con l’Europa. La stessa guardia costiera intende mostrare sia all’interno che all’esterno che sta lavorando attivamente contro i trafficanti. Il risultato, però, è un aumento delle barche rintracciate dopo la partenza e riportate in Libia.

L’Europa del controllo delle frontiere a sud del Mediterraneo è sempre di più la costruzione di un ampio dispositivo militare che opera sia nel paese nordafricano tramite la missione Eubam che nei nostri mari, operazione Mare Nostrum inclusa. In questa vasta operazione militare e di intelligence l’Europa ed i singoli paesi stanno finanziando l’addestramento di forze libiche per il controllo della frontiera terrestre e marittima. L’Italia rimane il principale “interlocutore donor” dell’operazione, sulla base di accordi intrapresi già nel 2010. In particolare, il progetto per la costruzione di una rete di radar per intercettare le rotte dei migranti costerebbe al governo italiano € 152 milioni, ma a fronte di una lauta ricompensa: “€ 148 million of Libyan oil cash, into the pockets of two Italian firms: Finmeccanica and GEM elettronica” (5). Nell’instabilità che sta attraversando il paese nordafricano l’Italia è tornata ad essere il principale partner economico della Libia, dopo essere stata scalzata dalla Francia e da altri competitors nel periodo immediatamente successivo al conflitto (6). Mettere in cattiva luce il lucroso partner arabo agli occhi dell’opinione pubblica italiana non agevolerebbe di certo gli interessi delle imprese italiane.

Molto meglio non parlare della Libia: i colossi della finanza e dell’industria, ma anche gli attori della nuova strategia del confine potrebbero infastidirsi.

Note:
(1) Sulla protesta degli Amazigh a Mellitah si veda questo articolo: news.xinhuanet.com
(2) Sulla situazione dei Tawergha si veda questo articolo di Antonio M. Morone: www.linkiesta.it
(3) Alcuni dati sulla situazione dei rifugiati e dei richiedenti asilo in Libia sono disponibili grazie agli aggiornamenti mensili curati dall’UNHCR: www.unhcr.org
(4) Sulla situazione dei siriani si veda questo video realizzato da Nancy Porsia e Jorge Vitoria Rubio: farawaysyria.org
(5) Le citazioni da questo articolo che traccia un quadro della missione Eubam: euobserver.com