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Bocche cucite e voci inascoltate: la protesta dei richiedenti asilo in Turchia

Reportage di Moira Bernandoni

Oggi ad Ankara è un giorno di forte pioggia ed è il trentottesimo giorno di resistenza per dozzine di richiedenti asilo afghani che stanno protestando davanti al quartier generale dell’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR). La strada in cui i dimostranti hanno occupato il prato adiacente ad un parcheggio per montare le proprie tende si chiama Tiflis. Il pesante ritardo dell’Agenzia nelle procedure per le richieste di diritto d’asilo è la ragione della protesta per questi uomini, donne e bambini, poiché il ritardo nelle procedure potrebbe voler dire anni di attesa. Praticamente costrette a restare in Turchia, queste persone sono strette nella morsa tra le incerte e precarie condizioni di vita e la speranza di poter essere accolte il prima possibile in un Paese terzo, visto che la Turchia per coloro senza cittadinanza UE può solo rappresentare un territorio di transito e non di permanenza. Stando a quanto dicono i manifestanti, lUNHCR è responsabile di una serie di discriminazioni nei loro confronti, poiché rallentamenti e ritardi non hanno avuto luogo in diversi casi di richiesta d’ asilo da parte di persone di altra nazionalitá, ed è per questo che i manifestanti stanno reclamando uguaglianza.

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Quando ho chiesto come sono arrivati a concepire una simile forma di protesta e i possibili metodi di organizzazione collettiva della stessa, la risposta è stata “questa è un’idea condivisa da tutti, andiamo e prendiamoci i nostri diritti! La comunitá afghana in Turchia ha rappresentanti in ogni cittá satellite ed attraverso una conferenza Skype si è deciso che era il caso di andare ad Ankara a far sentire la propria voce”. In maniera abbastanza paradossale, ieri quattro persone, seguendo l’esempio di altre dodici, hanno optato per precludersi la possibilitá di parlare cucendosi le labbra. Tra coloro che invece hanno scelto lo sciopero della fame c’è una diciannovenne che mi ha spiegato che il farlo significa mostrare a tutti, in maniera pratica, cosa vuol dire la possibilitá di morire. 

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All’inizio la protesta era numericamente più partecipata, avendo raggiunto picchi di trecento persone paragonate alle 70-80 presenti ora. Molte di loro infatti se ne sono andate, terrorizzate dall’attacco sferrato dalla polizia il 26 aprile, attacco che oltre a non aver risparmiato neppure i bambini non é stato possibile documentare in quanto ai giornalisti non è stato permesso filmare o registrare alcunché. Altri manifestanti hanno invece abbandonato la protesta per le difficili condizioni di resistenza nel parcheggio di via Tiflis, che non essendo Gezi Park presenta difficoltá quali il freddo notturno e l’assenza d’ombra durante le ore del giorno.

Come d’accordo con la polizia il sit-in davanti il quartier generale dell’ ONU può durare fino ad un massimo di quattro ore al giorno. Quando alle quattro del pomeriggio i manifestanti raccolgono i propri cartelli, scritti in persiano, turco e inglese, si raccolgono nelle tende autocostruite ed iniziano l’assemblea giornaliera per deliberare sul come continuare la protesta, dato per assunto che l’andare via senza aver ottenuto una risposta degna di essere chiamata tale sembra per ora fuori discussione.

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Le firme e le impronte digitali sono l’altro ostacolo pratico condiviso da tutti i manifestanti, obbligati a tornare regolarmente alle proprie cittá satellite (Nevşehir, Konya, Malatya, Gaziantep, Mardin, etc), di conseguenza da loro descritte come “prigioni a cielo aperto”. Javad mi ha detto che quando hanno chiesto sostegno all’ambasciata afghana hanno ricevuto per risposta che “aiutarvi non è responsabilitá dell’ ambasciata perchè siete arrivati in Turchia illegalmente”.

Anche la “Yabancılar Şube Müdürlüğü” e la “Göç İdaresi Genel Müdürlüğü”, istituzioni turche che si occupano di immigrazione, hanno esercitato pressioni perché la protesta abbia fine. Fino ad ora i loro rappresentanti sono andati in via Tiflis una decina di volte a minacciare i manifestanti di farli deportare nel caso la protesta non si fermi. Delle garanzie arrivano invece dagli avvocati di Mazlumlar İçin Dayanışma Derneği e Mültecilerle Dayanışma Derneği (Solidarity Association for the Oppressed and Association of Solidarity with Refugees). Nello spiegare ai manifestanti che la deportazione è inattuabile, li hanno anche incitati pubblicamente a continuare dichiarando “siamo subito dietro di voi, andate avanti”. A questo proposito il commento dei manifestanti mi ha particolarmente impressionato: “non ci serve qualcuno dietro di noi ma qualcuno al nostro fianco”. Quando ho chiesto cosa questo significasse in termini pratici Farzad mi ha risposto: “burada olmak gerekiyor, destek vermek için” (per aiutarci bisogna essere qui!).

Farzad coordina l’aspetto mediatico della protesta. Ha 23 anni ed anche lui è un richiedente asilo che ora vive a Nevsehir, la sua cittá satellite. Nato e cresciuto in Iran, è in Turchia da quando aveva tre anni e mezzo. Dopo la deportazione di suo fratello e di suo padre in Afghanistan ha deciso di provare il viaggio in Turchia a causa del timore di essere anche lui deportato. Dopo due anni nel centro di accoglienza di Yeldeğirmeni per i rifugiati minorenni ha lavorato come traduttore per ASAM (Association for Solidarity with Asylum Seekers and Migrants)l’Associazione di Solidarietá con i Richiedenti Asilo e i Migranti, la stessa da cui i richiedenti asilo afghani cercano di ricevere informazioni visto che l’UNHCR non li accetta.

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 In breve, sono in molti ad essere ovviamente terrorizzati dopo l’attacco della polizia, nonostante dicano di preferire questa condizione di vita in Turchia che essere deportati in Afghanistan, dove erano contadini, artigiani o proprietari di negozi prima di dover scappare dai talebani. Quella che vivono è un’esistenza senza libertá di scelta, un’estenuante tensione tra due possibilitá ugualmente oppressive, una condizione descrivibile con lo slogan “per poter capire i rifugiati bisogna essere un rifugiato”. Il problema fondamentale è la vita di tutti i giorni, carica di situazioni spiacevoli da risolvere come il non aver accesso ad un lavoro legale. Lo stato inumano di illegalitá genera un continuo cerca-trova-spera al fine di ottenere la possibilitá di essere autonomi, la quale non potrá mai essere completamente tale senza l’indipendenza economica, in quanto, come sottolinea Farzad “non puoi andare avanti per sempre con l’aiuto altrui”.

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Credo sia giusto ricordare alcuni numeri, che vengono confermati anche dalle voci di migranti svantaggiati che vivono in Turchia, indipendentemente dal fatto che lavorino in agricoltura, nell’industria edile o in fabbrica – gli stessi numeri che avremmo sentito dai lavoratori di Soma se non fossero morti schiacciati dal peso di un sistema plutocratico : 500-600 lire turche è il prezzo medio di affitto in cittá come Nevsheir e Konya, e di 20 lire è il salario medio giornaliero accessibile agli afghani, ma senza garanzie, visto che il metodo di pagamento è settimanale e capita di non venir pagati. Sono simili i racconti di un altro manifestante, di cui non ricordo il nome visto che ho ritenuto opportuno lasciar da parte, ad un certo punto, il portatile e il taccuino: mi ha detto di essere in Turchia da 7 anni dopo essere stato un insegnante di persiano in Afghanistan. Ora vive ad Adana, dove lavora dodici ore al giorno in un ristorante con un compenso di trenta lire giornaliere, soldi che servono a mantenere le sue tre figlie, una delle quali vorrebbe studiare ma anche lei lavora nel ristorante. La parte che più colpisce della storia resta comunque l’esperienza della protesta; fa sorridere il fatto che si senta felice in via Tiflis mentre soffre di depressione ad Adana, perché si sente bene a vivere insieme agli altri invece di rimanere solo, diviso dai chilometri di distanza tra le varie cittá satellite, e perché in sette anni non ha mai avuto la possibilitá di farsi sentire, mentre nell’ultimo mese la sua voce e quella degli altri viene quantomeno ascoltata. 

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Ci ricordiamo tutti chiaramente le emozioni di Gezi Park e la percezione di essere al centro dell’attenzione mediatica della comunitá internazionale? Via Tiflis non è ne Gezi Park ne un campo di rifugiati: queste persone determinate non sono senzatetto e non si pongono l’obiettivo di riappropriarsi simbolicamente di uno spazio comune. Quello che stanno reclamando, oltre al diritto d’asilo, è il diritto alla libertà e lo spazio che hanno occupato è strategico al fine di catturare visibilitá mediatica. Grazie al supporto mediatico e legale, i manifestanti cercano anche solidarietá politica dagli attivisti e dalle “grassroots”, organizzazioni politiche legate al concetto di comunitá, come dimostrato dalla camminata in salita verso il quartiere ricco di Çankaya, dove i soli aiuti che hanno ricevuto sono forniture di cibo per i quali i manifestanti non possiedono nemmeno gli utensili necessari per cucinare! 

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L’essenza di quello a cui puntano è “la divulgazione più ampia possibile”, un’espressione che prendo in prestito da Hannah Arendt, che ha approfonditamente espresso nei propri libri cosa significhi la condizione politica ed attiva della vita umana, puntualizzando che la realtá del mondo e quella dell’individuo deriva non solo dalla immagine propria ed esclusiva ma anche da quella degli altri, cosa che avviene attraverso il processo attivo di farsi vedere e sentire in pubblico. Ieri ho chiamato Farzad per gli aggiornamenti: hanno deciso di passare la notte di fronte alla porta d’ingresso dell’Agenzia ONU; la polizia li ha esortati a tornare alle tende, altrimenti sarebbero stati portati in centrale. La polizia ha inoltre pubblicato un annuncio addizionale che parla di una delegazione mandata a prendere in considerazione il problema direttamente da Ginevra. Se ciò sia vero o no è qualcosa che scopriremo presto, ma rimangono evidenti la fermezza e determinazione di queste persone autorganizzate nel reclamare i propri diritti. Via Tiflis, resisti! 

Ankara 21 maggio 2014


Si ringrazia Guglielmo Vespignani per la traduzione dall’inglese