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Israele, una giornata al confine con l’Egitto

Dal centro di soggiorno obbligato di Holot alla barriera anti-profughi

La recinzione che corre lungo i 240 km del confine desertico tra Israele ed Egitto, dalla Striscia di Gaza al Mar Rosso, è stata completata due anni fa. Da allora il numero di richiedenti asilo (principalmente eritrei e sudanesi) giunti in Israele dal confine egiziano si è pressoché azzerato.

La barriera, alta sette metri, è provvista di sensori che consentono ai militari israeliani di reagire prontamente a ogni tentativo di “infiltrazione” (questo è il termine usato dalle autorità). Le pattuglie dell’esercito percorrono la strada che affianca la recinzione a intervalli di tempo irregolari, per non dare punti di riferimento a migranti, contrabbandieri e terroristi: queste sono infatti le tre categorie di persone contro le quali la barriera è rivolta.

Alla recinzione costruita da Israele fa da supporto un’altra, più modesta, costruita dall’Egitto dal lato opposto del confine. Se in un’immagine classica dei confini statali le guardie di frontiera dell’uno e dell’altro paese si fronteggiano a vicenda, nel nostro caso non è così. Le guardie egiziane, infatti, non guardano verso Israele, perché il pericolo non viene dall’ormai ex nemico – lo stato ebraico, ormai trasformatosi in alleato – ma dal proprio stesso territorio. Gli sguardi delle vedette di ambo gli schieramenti sono rivolti, dunque, nella stessa direzione: il Sinai, dove gruppi jihadisti sfidano il governo del Cairo e dove gruppi di beduini hanno trovato nei migranti – rapiti e liberati solo dietro pagamento di lauti riscatti, o altrimenti uccisi, e in ogni caso derubati e torturati – una formidabile fonte di profitto. Da qualche tempo, però, i loro affari sono in declino, e i profughi africani sono tornati a prediligere la rotta marittima dalla Libia alle coste italiane.

Dalla metà del decennio scorso fino al 2012, invece, decine di migliaia di persone avevano oltrepassato il confine israeliano. Alcune erano state riportate a forza in Egitto o nei loro paesi di origine in clamorosa violazione del diritto internazionale, tante altre erano state spedite in Uganda in virtù di un accordo con tale paese, presumibilmente ricompensato da Israele con denaro e armamenti affinché accettasse di smaltire i rifiuti umani dello stato ebraico. Da quando la barriera è stata completata ne arrivano solo poche decine l’anno. Nonostante i numerosi allontanamenti e la netta riduzione degli arrivi, però, oltre 47.000 richiedenti asilo africani vivono ancora oggi in territorio israeliano.

A dispetto delle diverse pronunce della Corte Suprema, che ha dichiarato illegittime le pratiche detentive adottate dalle autorità israeliane (a cominciare dall’abitudine di dare il benvenuto ai nuovi arrivati mettendoli subito in carcere per un anno), il governo ha sempre trovato qualche scappatoia per proseguire sullo stesso solco. Per esempio, tanti richiedenti asilo continuano a essere costretti, secondo criteri arbitrari, al soggiorno obbligato per venti mesi. Per saperne di più andiamo a Holot, l’unico centro attualmente esistente per il soggiorno obbligato dei richiedenti asilo.

Holot è stato aperto il 13 dicembre 2013 nel bel mezzo del deserto del Neghev, a 70 km di distanza dal capoluogo della regione, Beer Sheva, e a soli 7 km dal confine con l’Egitto. Chiamato, in ebraico, con un termine ambiguo traducibile con “centro di residenza”, esso è, di fatto, un centro di detenzione con la possibilità di uscita diurna ma con l’obbligo di rientro per la notte. Holot ospita soltanto uomini adulti ed è gestito dalla polizia penitenziaria. Il 13 marzo 2015 – il giorno della nostra visita – vi risultano residenti 1.449 persone, di nazionalità esclusivamente sudanese (74%) ed eritrea (26%). La popolazione è distribuita in diverse unità abitative da 280 posti ciascuno. Le unità abitative sono divise a loro volta in 28 camerate, ciascuna delle quali dispone di dieci letti e di un bagno condiviso. I residenti possono uscire e rientrare quanto vogliono (utilizzando l’apposito tesserino di riconoscimento) ma solo tra le 6 e le 22. Tra le 20 e le 22 essi devono apporre la firma di presenza, e poi non possono più uscire fino alle 6 dell’indomani mattina.

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Per le spese personali gli abitanti di Holot ricevono 160 shekel (37,5 euro) ogni dieci giorni, ma se si assentano e saltano la firma per una sera la diaria di quel giorno viene loro decurtata, mentre se non firmano per due o più giorni essi finiscono – una volta riacciuffati – nella prigione di Saharonim, a pochi passi di distanza, che oltre ai richiedenti asilo ospita anche numerosi prigionieri palestinesi.

Le ripetute proteste e le manifestazioni organizzate in diverse città israeliane negli anni scorsi non hanno prodotto risultati apprezzabili né per quanto riguarda il buon funzionamento delle procedure di esame delle domande di asilo (la stragrande maggioranza delle istanze presentate dal 2009 a oggi non ha ancora avuto risposta), né per quanto riguarda il tasso di riconoscimento delle stesse, che è pressoché nullo per il più ambito status di rifugiato e comunque bassissimo per il più effimero status di protezione temporanea. Proteste e manifestazioni hanno invece avuto come effetto che l’obbligo di firma a Holot scendesse da tre appelli a uno solo: fino al settembre del 2014, infatti, la firma andava apposta addirittura tre volte al giorno.

Tale cambiamento, in altri contesti, avrebbe potuto facilitare una qualche forma di inserimento nella vita sociale del paese. A Holot, invece, la possibilità di trascorrere la giornata fuori non offre molte opportunità di interagire con altri esseri umani: la città più vicina, Beer Sheva (circa 200.000 abitanti), è a 70 km di distanza, e nonostante vi sia un autobus che la collega direttamente con il centro, essa non può certamente essere considerata un punto di riferimento per la vita quotidiana dei residenti. Un altro autobus conduce da Holot all’ancor più distante e ben più piccola cittadina di Dimona.

Poiché la nostra delegazione di ricercatori universitari non è stata autorizzata a entrare (la ragione addotta è che l’ingresso è consentito solo a organizzazioni umanitarie), le notizie sulla vita dentro il centro sono tratte unicamente dai racconti dei residenti che incontriamo immediatamente all’esterno del centro (per qualche immagine dell’interno si veda qui). Lì fuori, a dire il vero, non c’è nulla di attraente: nessun negozio, nessuna casa, nessun modo per passare il tempo. Tutto ciò che si offre allo sguardo sono una decina di automobili posteggiate (acquistate di seconda mano da alcuni residenti), un paio di gazebo improvvisati dove intrattenersi all’ombra, e la severa sagoma delle mura e delle torrette della vicinissima prigione di Saharonim. Tuttavia, anche il semplice stare là fuori può rappresentare un diversivo, una minima e temporanea evasione dall’affollata monotonia del campo.

Alcune delle persone con cui parliamo sono giunte in Israele solo perché le circostanze (per esempio l’arresto da parte della polizia in Libia) hanno impedito loro di raggiungere l’Italia, la loro originaria destinazione; altre sono venute qui perché Israele appariva loro, sin dal principio, la meta più semplice da raggiungere.
La storia di N., sudanese, è esemplare. Partito dal Darfur nel 1999, egli si reca dapprima in Libia, salvo trasferirsi in Egitto per timore di essere deportato. Poiché il rischio di deportazione è concreto anche in Egitto, N. decide di raggiungere Israele, la più vicina democrazia, dove pensa di trovare asilo e diritti. Al suo arrivo, nel maggio del 2008, egli si reca presso l’Unhcr, presenta domanda di asilo e viene ascoltato dall’apposita commissione. Da allora non riceverà mai risposta ma, in compenso, avrà un permesso di soggiorno temporaneo, con il quale vivrà (e lavorerà) per quasi sei anni sul Mar Rosso.

Nel 2013, tuttavia, una riforma legislativa stabilisce che eritrei e sudanesi, pur non potendo essere rimpatriati perché esposti al rischio di persecuzione nei rispettivi paesi, possono essere trattenuti in appositi centri. E così, quando N. si reca presso gli uffici delle autorità israeliane per il prolungamento del permesso, non ottiene il rinnovo ma apprende che sarà mandato a Holot, dove è costretto a trasferirsi a gennaio del 2014. Ora spera di uscire a luglio di quest’anno e di non essere più costretto al soggiorno obbligato. Dopo venti mesi, infatti, una recente normativa prevede che i richiedenti asilo debbano essere liberati anche se la loro richiesta di asilo non è ancora stata esaminata. Prima di questa modifica la legge consentiva la detenzione a tempo indeterminato. Ma anche adesso, anche dopo “soli” venti mesi di soggiorno obbligato, le persone rimesse in libertà non avranno un permesso di lavoro e potranno nuovamente essere fermate e internate in qualunque momento, a discrezione delle autorità.

Israele, già tradizionalmente e tristemente all’avanguardia nella creazione, trasformazione e gestione di confini materiali e immateriali volti a sradicare, spossessare, isolare, immobilizzare, stigmatizzare e umiliare gli arabi palestinesi, ha progredito, negli ultimi anni, anche nelle tecniche di confinamento dei migranti. L’obiettivo è rendere loro la vita impossibile, convincerli in ogni modo a lasciare il paese, impedire – come del resto si è fatto, e con metodi estremi, perfino con gli ebrei regolarmente immigrati dall’Etiopia ma sospettati di non essere sufficientemente ebrei – che finiscano per riprodursi in Israele, alterando gli equilibri etno-demografici dello stato ebraico. E se non se ne vanno, che almeno vivano segregati e senza prospettive, in mezzo al deserto, circondati da muri, torri di avvistamento e recinzioni; oppure altrove, ma senza potere lavorare e con il continuo rischio di dover tornare, da un momento all’altro, a Holot o a Saharonim.