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In mare o in terra. Nati per morire.

Parla di numeri tragici il bilancio delle vittime degli ultimi giorni che ha coinvolto i profughi dei vari Sud del mondo.

Oltre mille vittime decedute in mare, persone di cui chissà se verrà loro lasciata la dignità di essere ricordati, uno per uno, una per una, con nomi e cognomi. Senza dimenticare così che dietro ogni corpo, c’è una vita e una storia, un volto, un essere umano a cui è stato negato il diritto di cercare un futuro diverso, sperando magari in uno migliore. E chissà se quel futuro non era iniziato proprio mettendo piede su quel barcone arrangiato alla “meno peggio”, pagando con i risparmi di famiglia lo sfruttatore di turno. Ciò che è certo è che quel futuro gli è stato scippato, rubato. Tanto che viene difficile dire semplicemente che siano morti: ci sono delle responsabilità gravi che sono il frutto di politiche della criminalizzazione della clandestinità, che non lascia altra possibilità che tentare l’ingresso cosiddetto “illegale”.

E così sarebbe meglio parlare di uccisi piuttosto che morti, tanto per non lasciare spazio a fraintendimenti. Uccisi dalle politiche immigratorie degli Stati che restringono così tanto le possibilità per approdare “legalmente”, tanto da non lasciare altra possibilità che affidarsi agli scafisti sfruttatori e menzogneri. Uccisi dall’UE che con Regolamenti e Direttive estremamente restrittive, non vuole assumersi alcun rischio e responsabilità, così da fare in modo di smascherarsi per com’è realmente: una farsa!
Inoltre, le operazioni militari in mare non possono essere in alcun modo una risposta che va nella giusta direzione. Indubbiamente Mare Nostrum ha salvato vite umane, certamente ha avuto i suoi effetti positivi, ma è stata la risposta italiana ad una politica italiana fortemente anti-clandestina: insomma, è la stessa Italia che produce clandestini, quindi irregolari, per poi cercare di salvarne qualcuno, il più fortunato. Triton, non è assolutamente l’operazione che ha sostituito Mare Nostrum, essendo la prima un’operazione militare di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, che non ha alcun obiettivo di salvataggio.

Uccisi in mare quindi, ma uccisi anche in terra. Spesso, seppur profughi, costretti da una burocrazia inefficiente e che va a rilento, si preferisce tentare la via dell’illegalità. Così spesso ci si ritrova a finire in un CIE, e magari a morirci. Una lunga lista di uccisi, dal 1998 ad oggi sono stati registrati oltre venticinque casi di decesso tra CPT e CIE, e ne vogliamo ricordare alcuni.

Il primo è stato Amin Saber, morto nel CPT di Pian del Lago a Caltanissetta. Amin, pare sia stato colpito da una pallottola durante una rivolta dei migranti. Pochi mesi dopo è stato il turno di Abdeleh Saler, morto il 1° agosto 1998 nel carcere di Agrigento, dopo che nel CPT di Lampedusa era scoppiata una rivolta dei migranti. Abdeleh, portato nel carcere risultava troppo agitato, e pensarono bene di somministrargli dosi di psicofarmaci.

I sanitari riferiscono che lo trovarono con la mandibola fratturata. L’anno seguente, nella notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999, nel CPT di Serraino Vulpitta a Trapani, per reprimere un tentativo di fuga, le forze dell’ordine chiusero dentro una stanza dodici migranti bloccandoli dall’esterno anche con una sbarra di ferro. Nell’intento di farsi aprire, uno degli internati mise fuoco ad un materasso, e per sei di loro non ci fu niente da fare. Uno dei casi di maggiore vessazione è quello che riguarda Nabruka Mimuni, tunisina di 44 anni con marito e figlio in Italia, la quale decise che piuttosto che essere espulsa e rimandata nel suo Paese di origine senza più possibilità di tornare in Italia, era meglio decidere di farla finita, e così fu che nella notte tra il 6 e il 7 maggio del 2009 si impiccò nel bagno del CIE di Ponte Galeria a Roma.

Senza dimenticare Fathi Nejl morto nel CIE di Torino, Carlos in quello di Milano, Salah Souidani, che la sera prima di morire venne picchiato dalla Polizia, fu ucciso nel CIE di Ponte Galeria di Roma. Fino ad arrivare all’ultimo caso, quello di Reda Mohamed, egiziano di venticinque anni morto nel CIE di Bari il 7 febbraio 2015 in circostanze ancora tutte da chiarire. Ciò che è certo, è che nel caso di Reda Mohamed, stando a quanto riferiscono i medici, il 118 venne avvertito almeno un’ora dopo l’avvenuto decesso. E così come loro tanti altri.
Insomma, in mare o in terra, vittime della stessa brutalità del confine di Stato, e della criminale idea di clandestinità.