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“Aiuto, stiamo affondando”: a bordo di una barca di salvataggio con i rifugiati delle acque insidiose della Grecia

Patrick Kingsley, The Guardian, Regno Unito

Foto: Sean Smith per The Guardian

Aiuto,” grida Ahmed, dottore siriano. Si alza sul gommone, in mezzo ad altri 39 rifugiati, e attira l’attenzione di una barca di salvataggio in avvicinamento. “Stiamo affondando.”

Qualche metro più in là, il capitano John Hamilton, precipitandosi fuori dalla cabina della lancia di salvataggio arancione, spera quasi che Ahmed stia esagerando.

Il gommone di Ahmed si sta chiaramente sgonfiando, ma non ondeggia che a qualche centinaia di metri dalle coste rocciose della Grecia, e per un primo momento sembra ancora stabile. In una situazione simile, Hamilton, ex-ufficiale della marina maltese, opterebbe di solito per scortare la barca in difficoltà verso terra. Tentare un soccorso immediato rischierebbe di capovolgerla in alto mare, peggiorando la situazione.

“Riuscite a seguirci?” grida Hamilton, spuntando nell’alba pungente del Mar Egeo. “Potete procedere lentamente.”
“Non posso, non posso,” risponde Ahmed, a cui non serve nemmeno alzare più di tanto la voce, data la vicinanza tra le due imbarcazioni. “L’aria sta andando via. C’è acqua a bordo.”

Ciò è ormai chiaro evidente per Hamilton, che ha finalmente una visuale chiara della barca di Ahmed: il gommone si sta sgonfiando più in fretta del previsto. Il timone non risponde agli sforzi del suo pilota, un giovane studente di medicina privo di qualsiasi esperienza nautica. Con onde che raggiungono il metro e mezzo, l’acqua scavalca le fiancate sgonfie della barca. Ai soccorritori restano pochi minuti per accogliere i rifugiati a bordo della loro già affollata imbarcazione.

Così Hamilton modifica il suo piano e si rivolge ad uno dei suoi tre compagni. “Lanciate loro una cima,” dice, ora con una nota di urgenza nel suo tono. Tutti loro, 40 siriani (una dozzina di bambini inclusi), potrebbero ritrovarsi presto nelle acque agitate dell’Egeo.

Perfino in pieno inverno, questa scena disperata è un fenomeno quotidiano nelle poche miglia che separano le coste turche dalle isole greche più ad est. Lo scorso anno, 850,000 richiedenti asilo, un numero mai visto prima, aveva rischiato questa strada insidiosa, ma solo 1,694 lo hanno fatto a gennaio. A distanza di un anno, il totale mensile è già dieci volte più alto, e non siamo che a metà di gennaio.

Sono almeno 40 le persone già affogate nello stretto quest’anno. Il primo è morto proprio al largo dell’isoletta di Agathonissi, una tra le più lontane dalla Turchia e dal raggio d’azione della guardia costiera, e quindi una delle destinazioni più letali per i rifugiati.

È per questo motivo che, nelle ultime settimane, John Hamilton e i suoi colleghi si sono spostati in queste acque. Lavorano per la Migrant Offshore Aid Station (MOAS), un’organizzazione benefica fondata nel 2014 da due imprenditori italiani, Chris e Regina Catrambone. Per due anni sono rimasti di base nel sud del Mediterraneo, salvando la vita a coloro che arrivavano clandestinamente dalla Libia in Italia.

Poco dopo Natale, si sono spostati in quest’area remota dell’Egeo. Chiamati dalla guardia costiera greca, hanno posizionato un’enorme ammiraglia al largo di Agathonissi ed hanno iniziato a pattugliarne le acque burrascose con due motoscafi battezzati in onore dei due bimbi siriani Alan e Ghalib Kurdi, la cui morte aveva sconvolto il mondo intero ai primi di settembre.

La gente non si ferma, ciò è evidente”, ci dice Chris Catrambone al telefono dal sud-est asiatico, dove sta organizzando il prossimo progetto MOAS, il soccorso dei rifugiati Rohingya in pericolo di affogare. “Non rallentano, e le persone stanno morendo. E ricade sotto la nostra responsabilità collettiva l’impedire che neonati di due mesi galleggino nel mare ed arrivino sulla spiaggia.”

Il fatto che non ci sia un rallentamento negli arrivi è una sorpresa per molti. L’Europa è diventata ancora più gelida nei confronti dei siriani, specie dopo le atrocità di Parigi e gli attacchi sulle donne a Colonia. Eppure i siriani giunti ad Agathonissi quel giorno sanno di dover affrontare questa crescente ostilità.

Nel corso della storia, il flusso di rifugiati diretti in Europa diminuiva sostanzialmente d’inverno, quando le tempeste rendono il viaggio ancora più rischioso. Ma adesso arrivano con qualunque condizione meteo, con MOAS che dirige salvataggi questa settimana tanto in acque calme quanto in altre ben più burrascose.

Per spiegarcene il perché, Mahmoud Obed, 27 anni, lavoratore di metalli siriano appena giunto ad Agathonissi, tira fuori il suo cellulare. Passa da una foto all’altra finché non trova quella di una casa distrutta. La sua casa, dice, bombardata una quindicina di giorni fa da piloti russi, alleati del dittatore siriano Bashar al-Assad. Poi scorre su un’altra foto di macerie, le case dei suoi quattro vicini.

Sono partito per via delle bombe russe,” spiega Obed. “Bombardano ogni giorno. La Russia dice di attaccare Daesh, ma noi siamo civili. E loro mentono.”

Non tutti quelli che approdano sulle isole greche sono siriani.
Circa 1 su 4 fugge dalla guerra, dall’estremismo e dalla povertà in Afghanistan, ed 1 su 10 giunge dall’Iraq. Una minoranza è formata da persone in cerca di lavoro provenienti da paesi come il Marocco e l’Algeria. Ma la maggioranza viene dalla Siria. Questo mese, il 57% di chi è giunto in Grecia possiede un passaporto che lo etichetta come siriano, anche se non tutti sono autentici.

Alcuni siriani, come Obed, arrivano direttamente dalla loro patria. Altri sono fuggiti dalla guerra un po’ prima e sono di nuovo in viaggio perché nessun paese del Medioriente garantisce loro i diritti che spettano loro in quanto rifugiati.

Tuzar Masaoud, meccanico di 31 anni sbarcato ad Agathonissi con la moglie e il figlio di un anno, racconta di aver passato 3 anni in Giordania, dove più di 600,000 rifugiati siriani non hanno diritto di lavorare, in violazione con la convenzione ONU per i rifugiati del 1951.

Per un po’, Masaoud ha resistito in questo limbo: ha lavorato al nero verniciando auto, e il suo penoso salario, sommato ai sussidi dell’ONU, bastava appena a sopravvivere. Un anno fa, l’ONU ha quasi dimezzato il proprio aiuto, ma Masaoud ha continuato ad arrancare, con la speranza che l’ONU potesse trasferirlo ufficialmente da qualche parte in Occidente se fosse stato abbastanza paziente.

Ma la storia di Masaoud alla fine mostra come il fallimento dell’Occidente di trasferire ufficialmente questo alto numero di siriani abbia contribuito ad accelerarne la migrazione verso l’Europa, invece di impedirla. “L’ONU ci ha detto aspettate, aspettate, aspettate, potrebbero volerci tre, quattro, cinque anni,” sospira Masaoud, con la tuta ancora fradicia addosso. “E noi non possiamo aspettare così tanto. È impossibile vivere in Giordania.”

Così Masaoud ha rinunciato alla Giordania, e alla Siria. Ma soprattutto, ha rinunciato al piano di trasferimento dell’ONU, si è reso conto che l’Europa non l’avrebbe mai accolto volontariamente, e perciò ha deciso di forzare la mano dell’Europa salpando per Agathonissi. Secondo la convenzione del 1951, ora che è arrivato qui l’Europa può fare ben poco per rispedirlo indietro.

Un miglio più a sud, un altro gruppo di siriani sta seguendo le orme di Masaoud, ma il loro destino è assai più cupo. Questa è la barca di Ahmed e di altri 40 siriani, e si sta sgonfiando velocemente.

Morire a un passo dall’Europa sarebbe la fine peggiore, considerato tutto ciò che hanno dovuto affrontare per arrivare qua. Ahmed è stato torturato durante la guerra, sua moglie e i suoi figli sono stati uccisi. Accanto a lui, Mohamed Hanan, sarto curdo in viaggio con i suoi tre giovani figli, è fuggito dall’avanzata dell’Isis. Dopodiché hanno rischiato il pugno di ferro del confine turco, adesso chiuso, hanno sfidato i proiettili e i calci dei fucili delle guardie di frontiera turche.

In Turchia, Mohamed Hajy, 15 anni, è stato sfruttato in una fabbrica per guadagnare il denaro necessario alla traversata. Una volta lasciatasi la Turchia alle spalle quattro ore e mezza fa, sono stati intercettati dalla guardia costiera turca, la quale ha accettato di chiudere un occhio solo dopo una situazione di stallo durata mezz’ora. Ora, mentre la barca comincia ad affondare, questi traumi rischiano di essere stati vani.

Ma non se MOAS può impedirlo. L’equipaggio di Hamilton lancia due cime agli estremi del gommone danneggiato e le sfruttano per affiancare le due imbarcazioni. Non c’è quasi più tempo. In fondo alla barca, il soccorritore Ripley Davenport inizia a tirare su i bambini dalla barca. Il primo ad arrivare è il più piccolo dei figli di Mohamed Hanan, Aref di 8 anni, e poi i suoi fratelli maggiori, Abdelrahman e Amina. Dalla parte opposta, un neonato viene affidato a Ivan, un altro marinaio di MOAS che ha preferito non dichiarare il suo cognome, seguito da altri bambini e dalle donne.

I più vulnerabili sono in salvo, segue il caos, con Hamilton, Davenport e Ivan che tirano su chiunque sia a portata di braccio. All’interno, il pilota Mimmo Vella manovra freneticamente il timone con la mano sinistra e le quattro leve di comando del motore con la destra. Vella deve mantenere le due imbarcazioni fianco a fianco e allo stesso tempo bloccare la schiuma delle onde con lo scafo della lancia. Mentre osserva questa scena dall’oscurità della cabina e mentre i rifugiati si stipano accanto a lui, Vella comincia a piangere.

Fuori, il caos è frenetico. Il piccolo Aref Hanan resta appiattito sotto una massa di corpi, fino a che un passeggero lo trascina fuori dalla calca e lo porta in cabina. Lì vomita, mentre sua sorella Amina si guarda intorno confusa e suo fratello Abdelrahman chiama suo padre. Le barche ondeggiano violentemente, fianco a fianco. Ad un certo punto, Davenport diventa una specie di passerella, sdraiandosi per permettere ai sopravvissuti di strisciargli sopra verso la salvezza.

Uno ad uno, questa massa confusa di esseri umani viene tratta in salvo all’interno della lancia, una giovane donna a braccia e gambe divaricate qua, un anziano che ruzzola di là. È la definizione della disperazione, una mischia sbraitante, fino a che improvvisamente, dopo 4 minuti di massacro, le urla cessano.

Il gommone afflosciato galleggia sull’acqua, vuoto. Il motoscafo arancione ondeggia tranquillo accanto ad esso, pieno. Tutti, 40 persone, sono stati salvati.
Il silenzio dato dal sollievo regna nella cabina da poco affollata.
Vella avvia di nuovo il motore, e la barca se ne torna ancora una volta rombando al piccolo porto di Agathonissi. Sui pendii scoscesi che delineano la baia, delle capre selvagge ruminano ignare sulle colline. All’interno della barca, soccorritori e soccorsi assimilano in silenzio la meraviglia di ciò che è appena accaduto. L’oltraggio della vita di un rifugiato ricomincerà appena i sopravvissuti passeranno nelle mani delle autorità. Ma per ora, possono tutti riflettere sulla gioia di essere vivi.

Hanan, il sarto curdo, osserva i suoi tre figli. Sono seduti, esausti, appena all’interno della cabina, mentre lui si appoggia all’entrata.
Grazie,” dice ad un membro dell’equipaggio vicino a lui, e scoppia a piangere.