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I nostri figli

Gabriele Del Grande, giornalista, scrittore, regista e acuto interprete del fenomeno migratorio riflette sulla mediterraneità

"Speranza di una nuova vita" - World Press Photo 2016 - Foto di W. Richardson

Vi ricordate il piccolo Aylan? La foto del suo corpicino riverso sulla sabbia commosse il mondo. Era il Settembre 2015. Da allora di piccoli Aylan ne sono morti a centinaia lungo le rotte del contrabbando nel mare Egeo, l’indignazione però è passata di moda. Un bimbo che muore ai confini d’Europa non fa più notizia. E non perché manchino giornalisti bravi. No, quello che manca è un discorso sul Mediterraneo.

Vi siete mai chiesti perché quei bambini non ci riguardano? Perché l’opinione pubblica finisce per percepirli irrimediabilmente altri, lontani e perfino nemici? Io credo che ciò accada perché non siamo in grado di inserire le storie di quei bambini all’interno di una grande narrazione sul Mediterraneo di oggi e di domani. Sul Mediterraneo di oggi perché se non abbiamo a cuore mezzo milione di siriani morti in questi quattro anni di guerra, difficilmente potremmo sentirci dalla parte del giusto aprendo la porta di casa ad una famiglia in fuga da Aleppo. Sul Mediterraneo di domani perché se non abbiamo un futuro comune non saremo mai in grado di pronunciare la parola “noi”. Perché guardate che non sono i bambini degli altri a morire a un passo dalla nostra Europa! No, sono i nostri bambini a morire nel nostro Mediterraneo. Perché non siamo semplicemente la periferia sud di un’Europa in crisi! Siamo il cuore pulsante di un Mediterraneo in subbuglio! E non dobbiamo essere per forza nemici, al contrario possiamo essere complici e fautori del nostro destino comune.

Certo, cambiare sguardo è difficilissimo. Diffidenze, presunzioni di superiorità, complessi di inferiorità, scontri di civiltà… E guardate che non è soltanto il folle circuito di guerra e terrorismo degli ultimi vent’anni! Alle spalle abbiamo quattordici secoli di conflitti per l’egemonia di questo piccolo mare. Dall’invasione delle armate musulmane in Spagna alle crociate in Palestina, dalla reconquista di Isabella la Cattolica all’assedio di Costantinopoli, dalla cacciata dei mori e degli ebrei dalla Spagna alle incursioni di pirati di Khayreddin, dall’assedio dei turchi a Vienna alla sconfitta degli ottomani a Lepanto… Per non parlare di un secolo di colonialismo francese, inglese, sionista, italiano e spagnolo che hanno lasciato sul terreno milioni di morti in Algeria, Marocco, Siria, Palestina, Egitto, Iraq, Libia…

Quelle ferite sono ancora aperte dell’immaginario collettivo dei popoli delle due rive. Eppure io credo che quello di oggi sia il tempo per un discorso mediterraneo. Almeno per noi trentenni e per i più giovani. La nostra è la prima generazione post-coloniale, globale e connessa. Chi di noi vive sulla riva sud di questo mare ha conosciuto la dittatura e la guerra, ma anche la rivoluzione e la piazza. Chi di noi vive sulla riva nord lotta ogni giorno contro la crisi economica e un precariato da paura, ma allo stesso tempo ha avuto la fortuna di crescere nei quartieri mondo delle nostre città il cui volto è stato cambiato da vent’anni di immigrazione di massa. Ora, la domanda è: possiamo creare alleanze tra i movimenti civili e artistici delle due rive? Possiamo tornare a sognare insieme?

Perché questa è la soluzione: fare un pezzo di strada insieme. Perché soltanto se saremo in grado di appartenere allo stesso futuro non avremo più paura del nostro passato. E forse solo allora, dopo aver abbattuto le frontiere, saremo in grado di scrivere un elogio dei confini. Perché i popoli esistono ed esistono le lingue, le religioni, le storie collettive, le letterature, i costumi, le tradizioni, le ideologie… Ma esistono anche gli orizzonti, le visioni politiche e la complicità di chi lotta insieme per un destino comune migliore. In questo purtroppo la politica è un’assente ingiustificata. Non si vedono processi politici di avvicinamento tra le due rive del Mediterraneo a nessun livello.

D’altronde è anche vero che la regione attraversa una delle fasi più drammatiche della sua storia. L’entusiasmo delle primavere arabe ha lasciato il posto alla disillusione di un lungo inverno che finora ha portato solo guerra e terrore in Siria, in Iraq, in Libia, a Gaza e nel Sinai.. L’Egitto dei Fratelli Musulmani è stretto nella morsa dei militari di Sisi e in Tunisia il processo democratico vive sotto la costante minaccia del terrorismo. Senza contare la svolta autoritaria di Erdogan in Turchia con le sue avventure militari in Siria e il fronte interno coi curdi del PKK, nonché l’incertezza del futuro in Algeria viste le gravi condizioni di salute dell’anziano presidente Boutefliqa.

Eppure, a volte è proprio nei momenti più drammatici che si aprono brecce nell’immaginario. Perché possiamo essere tutti parte di questo cambiamento. Senza aspettare che la soluzione sia calata dall’alto. Perché dall’alto non arriverà. Ognuno di noi dovrebbe cominciare a interrogarsi nel suo piccolo su come attivare queste reti di solidarietà, di scambio culturale e artistico con la prospettiva di uno scambio e un sostegno tra i movimenti sociali, gli intellettuali, gli artisti, il sindacato e le università delle due rive. Solo allora – quando le due rive torneranno a parlarsi e ad amarsi – i tanti piccoli Aylan ci toccheranno da vicino. Perché sarà diventato il nostro mare. E saranno diventati i nostri figli.

Gabriele Del Grande
http://fortresseurope.blogspot.it/