Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

Lesvos, il laccio emostatico dell’Europa

Un reportage di Saverio Serravezza sulla rotta balcanica

Foto: Lesvos, Grecia, Ottobre 2015

A luglio del 2015 ho cominciato a seguire con interesse il lavoro di due fotogiornalisti sulla cosiddetta “rotta migratoria balcanica”. Avevo visto le immagini dell’interminabile fila di rifugiati camminare lungo i binari del treno, in Macedonia e in Serbia, diretti in Ungheria.
Era certamente la più grande crisi migratoria del secolo: i numeri erano impressionanti, le conseguenze oscure.
Stavamo vivendo una storia epocale. Volevo esserci, volevo vedere e capire.

E così mi sveglio a Röszke, Ungheria, un giorno di pioggia.

Röszke, Ungheria, Settembre 2015
Röszke, Ungheria, Settembre 2015

Röszke: il punto di iniezione dei migranti nell’Europa di Berlino. Angela Merkel aveva appena dichiarato: “accoglieremo 500.000 migranti l’anno”.

Arrivo quasi per caso in quel campo improvvisato, la porta dell’Europa: migliaia di profughi accampati lungo i bordi di una strada di campagna, campi di granturco tagliati in due dalla ferrovia. Un odore nauseabondo di rifiuti in decomposizione. Centinaia di piccole tende da campeggio galleggiano sopra pozzanghere di fango.
Due squadre di poliziotti antisommossa organizzano lunghe file per trasportare i rifugiati nel vicino campo di registrazione: un autobus ogni ora va e viene dal campo, ma non è sufficiente a smaltire tutto il flusso che arriva dalla Serbia. Fino a 5000 persone al giorno. Nessun rappresentante di Frontex, UNHCR invierà qualche osservatore solo due giorni prima della chiusura del campo e della frontiera con la Serbia.
Torno ogni giorno al campo, percorrendo a piedi la ferrovia fino al confine serbo, raccolgo storie, occhi e scarpe bagnate. La situazione peggiora, i poliziotti aumentano, i nervosismi e le tensioni anche.

Horgus, Serbia, Settembre 2015
Horgus, Serbia, Settembre 2015
Röszke, Ungheria, Settembre 2015
Röszke, Ungheria, Settembre 2015

Ma quello che succede a Röszke, contemporaneamente al peggiorare della situazione e all’aumentare dei flussi è anche altro, ed è straordinario.
In quel campo assisto a quello che diventerà, nei mesi successivi, un vero e proprio movimento: in quel campo incontro i volontari, piccoli gruppi di uomini e donne. E sono testimone del meraviglioso e naturale evolversi della loro attività: da gruppi isolati di poche persone fino a diventare una macchina ben oleata capace di preparare migliaia di pasti al giorno, di distribuire tende, scarpe e vestiti, gestire trasporti, dispensare assistenza medica, inventare dal nulla una logistica degna di un esercito ben organizzato.
In quel campo, tra il villaggio e l’autostrada, in mezzo al nulla, assisto alla tragedia dell’Uomo, assisto alla meraviglia dell’Uomo.

Qualche giorno dopo l’Ungheria blinda i confini con la Serbia. La rotta balcanica devia di qualche chilometro, ma il flusso continua senza sosta e si fa più pressante.
Comincia l’intervento russo in Siria. Più di tre milioni di profughi spingono per entrare in Europa: 2 milioni in Turchia, 1 milione in Libano, 600 mila in Giordania.
E’ una tragedia.

La Grecia è adesso nell’occhio del ciclone, qui si giocherà il futuro dell’Europa, penso.
Degli 850.000 arrivi in Grecia nel 2015 più di 500.000 sono passati da Lesvos. 100.000 solo a Settembre. Ad ottobre saranno 135.000. E’ una migrazione di proporzioni mai viste.

Torno in Italia.
Qualche mese prima avevo cominciato a collaborare con Nove Onlus, una giovane associazione no profit che si occupa di aiuti umanitari, educazione e sviluppo socio economico in Italia, Etiopia, Afghanistan e Grecia.
Ogni progetto di Nove Onlus è gestito in un modo innovativo. L’associazione riduce al minimo i costi e dà ai donatori la garanzia che il 100% dei loro contributo arrivino ai progetti a cui li hanno destinati, utilizzando un conto corrente dedicato ai progetti. Nove Onlus non lavora mai da sola: cerca collaborazioni con associazioni e realtà locali per diminuire ulteriormente le spese e massimizzare i risultati. E’ semplice e funziona. E mi è subito piaciuto.
Parlo con Susanna Fioretti, il presidente, le racconto della situazione nei Balcani e condivido con lei alcune idee. Anche Susanna è convinta che sia la Grecia il paese dove si giocherà la partita più importante in questa crisi.
Mi propone di fare una missione di assesment per capire le necessità più urgenti e verificare una possibilità di intervento a Lesvos.

Dopo pochi giorni sono sull’isola.
E’ un pomeriggio di settembre, c’è il sole, il mare è calmo.

Molivos, Lesvos, Grecia, Settembre 2015
Molivos, Lesvos, Grecia, Settembre 2015
Molivos, Lesvos, Grecia, Settembre 2015
Molivos, Lesvos, Grecia, Settembre 2015

Avevo letto di questo braccio di costa dove si concentrano gli sbarchi, al nord: appena 10 km di spiagge e scogliere, distante solo 5 miglia dalla costa turca. Avevo visto le immagini di quei barconi di gomma stracolmi di disperati. Adesso avevo quel tratto di mare davanti agli occhi, lo guardavo dall’alto della scogliera, cercando di capire come poter raggiungere la spiaggia. Prendo una stradina sterrata tra gli uliveti e dopo pochi chilometri vengo catapultato all’improvviso sulla spiaggia di ciottoli: un gommone con 45 persone è appena approdato, altri due in arrivo a pochi centinaia di metri dalla riva. In tutto 150 persone, più di due terzi donne e bambini, siriani.
Ad accoglierli quattro ragazzi norvegesi. Senza altro mezzo che le loro braccia e un’automobile a noleggio. Completamente immersi nell’acqua, due cercano di tenere fermo il gommone incastrato tra le rocce basse, gli altri si occupano di far scendere a riva i bambini e le donne. Rimango con loro tutto il giorno, fino a notte inoltrata, assisto allo sbarco di più di 20 gommoni. Quasi mille persone in poche ore.
Nei giorni seguenti incontro altri piccoli gruppi di soccorritori, volontari attivi lungo tutta la costa nel gestire in sicurezza gli sbarchi e le emergenze sanitarie.

In confronto alla pericolosa traversata a bordo di quei mezzi di fortuna, lo sbarco può sembrare una passeggiata. Ma la tensione accumulata, la stanchezza, l’impossibilità di muoversi causata dai giubbetti salvagente e dall’essere stati seduti immobili due ore, schiacciati dagli altri occupanti, rende tutto molto più difficile e pericoloso. Contusioni e distorsioni muscolari sono frequenti, soprattutto per le donne e gli anziani. L’acqua si accumula sul fondo dell’imbarcazione e le crisi ipotermiche sono all’ordine del giorno.

Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Eftalou, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Eftalou, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015

Nelle settimane successive i numeri sono sempre più alti: fino a 7.000 persone al giorno. Il tempo è bello ed il mare calmo: i trafficanti turchi ne approfittano, inviano barche giorno e notte.
Skala Sikaminea, un villaggio di pescatori, non più di 150 abitanti, diventa il punto nevralgico dell’azione ed il principale nodo logistico per i soccorritori volontari e le piccole ONG.
In un solo giorno, ad ottobre, Skala assiste all’arrivo di 87 barche.
L’isola è al collasso: dopo anni di depressione economica la Grecia non è in grado di gestire anche questa emergenza da sola. A Lesvos i due centri di registrazione sono sovraccarichi: si riescono a gestire solo un migliaio di persone al giorno, ma gli arrivi sono molti di più. Si richiama personale da Atene. Non basta. L’Europa tace. Frontex non c’è.
Ad ottobre le grandi ONG hanno una presenza ridotta. UNHCR costruisce un centro di accoglienza a pochi chilometri dalla spiaggia. MSF e Save The Children sono presenti a Kara Tepe e Moria, i campi di registrazione vicino Mytilini e organizzano, con alcuni autobus, il trasporto dal Nord al Sud.
Per il resto la presenza umanitaria internazionale “ufficiale” è marginale e insufficiente.

I veri protagonisti della prima linea, del soccorso e della prima assistenza, non sono le grandi ONG, ne tantomeno gli enti governativi. Nei mesi successivi assisto al manifestarsi di un miracolo, esattamente come era successo nei Balcani, ma con proporzioni ed effetti maggiori: i volontari, all’inizio una sparuta e disomogenea presenza, si trasformano gradualmente in una macchina di soccorso straordinaria. Sono ovunque, sulle spiagge, nei campi, nelle strade. Ovunque, 24 ore su 24. Ogni giorno nuove persone raggiungono l’isola, si organizzano turni, si collabora. Il coordinamento tra i singoli e i piccoli gruppi è totale: ognuno ha un compito ed una posizione, nessuno è di intralcio. E tutto questo, creato dal nulla, in maniera democratica, spontanea e trasparente.

Korakas, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Korakas, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015

Adam, un avvocato di Washington in vacanza sull’isola per pochi giorni, rimane a Lesvos un mese per aiutare i migranti sulla spiaggia. Tornato negli Usa fonda una piccola ONG, raccoglie fondi, tiene conferenze spiegando la crisi e fa advocacy.
Geny, un’infermiera in pensione, dal Perù, passa due settimane sull’isola facendo ogni giorno una sola e straordinaria cosa: abbracciare ogni singolo uomo, donna e bambino sbarcato sulla terra ferma.
Alì, Svedese di origine irachena, una forza della natura, grande nuotatore. L’ho visto in acqua fino al collo sollevare due bambini alla volta perché non si bagnassero nell’acqua gelata di dicembre.
Stratos, un pescatore di Skala con all’attivo decine di salvataggi in mare, centinaia di vite salvate.
Giada, italiana, infaticabile manager del campo di prima accoglienza interamente costruito ed allestito dai volontari dell’associazione Lighthouse sulla spiaggia di Skala. Giada che all’esclamazione di una giornalista “non finirà mai questa tragedia” ha risposto senza esitare “e noi non ce ne andremo mai da qui”.

Christophoros, un giovane prete ortodosso nato in California, cantante rock con 8 album all’attivo, vero gancio di connessione tra i volontari e i locali. Insostituibile coordinatore del campo che UNHCR costruirà a novembre a Sikaminea.
Ido e Adhil, lui israeliano, lei palestinese, due giovanissimi medici, instancabili fianco a fianco nell’affrontare le emergenze: un miracolo di integrazione.
E ancora gli straordinari ragazzi norvegesi di Dråpen i havet, gli olandesi di Stichting Bootvluchteling e molti altri.
Quello a cui stavo assistendo non solo era meraviglioso, ma era capace di restituirmi interamente la fiducia nell’uomo, che ogni tanto mi succedeva di perdere.

Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Kiagia, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Kiagia, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015

La mia esperienza sulla spiaggia mi aveva portato ad affrontare situazioni di crisi insieme agli altri volontari: una volta gestito lo sbarco bisognava organizzare il trasporto al più vicino centro di accoglienza e smistamento (c.d. “stage 2”) distante dai 4 ai 10 chilometri dalla spiaggia. Con il bel tempo la maggior parte dei migranti raggiungeva “stage 2” a piedi e senza problemi, ma con la pioggia ed in situazioni di emergenza i volontari arrangiavano il trasporto di donne, bambini e anziani con le loro automobili a noleggio, su strade sterrate e fangose.
Era essenziale gestire questo trasporto al primo livello di arrivo: significava prendersi cura di persone deboli, bagnate e spaventate e soprattutto voleva dire non aggravare situazioni di emergenza che potevano invece essere facilmente risolte se gestite in tempo. E con l’arrivo dell’inverno era ancora più importante.

Il mio assessment per Nove Onlus consisteva nell’individuare un intervento di impatto e grande utilità, realizzabile con le poche risorse economiche che l’associazione prevedeva di poter raccogliere in tempi stretti e gestibile nel tempo senza ulteriori spese. Per me è stato subito chiaro: l’intervento doveva riguardare il trasporto di primo livello sulla spiaggia.
E’ nato così il “progetto Reach”. Nove Onlus ha attivato la raccolta fondi e in breve tempo ha raggiunto la cifra necessaria ad acquistare un minivan da 9 posti, per donarlo a “Mennesker i arbeid” l’associazione rappresentata da ‘papas’ Christophoros, che coordina i volontari sulla spiaggia ed è in grado di provvedere al carburante e altre spese di funzionamento.

Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Novembre 2015
Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Novembre 2015

Torno a Lesvos a fine Ottobre e poi a Novembre per affiancare i volontari e concordare le condizioni di utilizzo del minivan, acquistato con i fondi che Nove Onlus è riuscita nel frattempo a raccogliere. Il minivan entra subito in funzione, trasportando ogni giorno decine di persone, cibo e materiali di emergenza.
Nei pochi mesi trascorsi dalla prima missione la rete di assistenza e soccorso si è espansa ed evoluta. E l’inverno non ha fermato gli sbarchi: 90.000 a settembre, 135.000 ad ottobre, 103.000 a novembre, 47.000 a dicembre.

La consapevolezza della tragedia raggiunge il grande pubblico, cominciano ad arrivare sull’isola i media internazionali ed i grandi network. UNHCR, MSF, IRC aumentano la loro presenza e attività sull’isola. Alcune di loro cominciano da subito a collaborare con la rete dei volontari. Altre, fortunatamente poche, intraprendono una assurda competizione, una corsa ai numeri, al risultato da portare a casa.
I volontari di Lighthouse e Platanos, le due organizzazioni di volontari che operano sulla spiaggia, rafforzano le risorse di accoglienza e soccorso. Il loro campo costruito con mezzi di fortuna in un piccolo uliveto sulla spiaggia, diventa il punto nevralgico dell’assistenza e soccorso in spiaggia. Costruiscono grandi spazi coperti e riscaldati, magazzini, un playground per bambini, una clinica, spogliatoi per le donne, una moschea. Costruiscono con il legno e i teli di plastica dei gommoni, usano le migliaia di giubbetti di salvataggio abbandonati come isolante per i pavimenti. Un presidio medico è presente h24. Vengono serviti migliaia di pasti caldi al giorno.
Si occupano della prima assistenza, delle emergence sanitarie, dei trasporti, collaborano con gli straordinari ragazzi spagnoli di ProActiva e i norvegesi di Team Humanity, due squadre di lifeguards volontari che operano in mare con moto d’acqua e lance veloci. Centinaia di salvataggi all’attivo.
Gli sbarchi vengono gestiti con un perfetto coordinamento tra i vari gruppi: i gommoni sono intercettati con i radar, raggiunti dai lifeguards al loro ingresso nelle acque territoriali greche e scortati con le lance di fronte al campo sulla spiaggia, dove i volontari a terra organizzano lo sbarco in sicurezza e gestiscono le emergenze.

Eftalou, Lesvos, Grecia, Novembre 2015
Eftalou, Lesvos, Grecia, Novembre 2015
Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015
Skala Sikaminea, Lesvos, Grecia, Ottobre 2015

Gli sbarchi proseguono, giorno e notte.
Le emergenze si moltiplicano con l’arrivo del cattivo tempo: ipotermia e assideramento sono all’ordine del giorno. Le attività di soccorso sulla spiaggia e di assistenza nei campi è gestita quasi interamente dai volontari, 24 ore su 24, senza sosta.
Frontex è assente, l’Europa guarda da lontano.

Una notte di dicembre ascolto una storia che non avrei mai voluto ascoltare. Avevo assistito a molte tragedie, avevo visto morti annegati, fratture scomposte, famiglie spezzate dal mare. Ma quella notte Charly mi fa sanguinare.
Charly, una giovane volontaria svedese mi racconta del suo turno sulla spiaggia, la notte precedente. Piove e fa freddo. Tre barche raggiungono il campo, scortate dai lifeguards. Come sempre le donne e i bambini vengono assistiti per primi nella fase di sbarco. I bambini vengono portati a riva, spogliati dei vestiti bagnati, avvolti nei teli termici e accompagnati nelle tende riscaldate. La regola è non separare mai i bambini, soprattutto se neonati, dalle loro madri. Quella notte una giovane donna afghana raggiunge la spiaggia su una barca: è svenuta. Charly piange mentre racconta. Al fianco della donna, sul fondo del gommone, un fagotto avvolto in un giubbetto di salvataggio. E’ buio, fa freddo. Il gommone è completamente invaso dall’acqua.
Il fagotto viene portato nella tenda medica: un bambino di pochi giorni. Non ce l’ha fatta.
Morto annegato, scivolato dalle braccia della madre, durante la traversata, al buio, sul fondo del gommone, nel silenzio e nella paura. Insieme ad altri 50 disperati.
Charly piange, mi chiede che senso abbia tutto questo, che senso ha salvare centinaia di vite se non puoi impedire che un piccola anima muoia cosi. Che senso ha, mi chiede.
Io non so che dirle, l’abbraccio. E sanguino, perché comprendo l’assurdo senso di colpa che Charly sta provando. Perché è anche il mio. E’ un senso di colpa che non capisci e che non ti molla.

Non capisci perché sai, hai visto e sai che per evitare la tragedia basterebbe davvero poco.
Non capisci, perché un biglietto del traghetto da Ayvalik in Turchia a Lesvos costa 14 Euro: fa lo stesso percorso dei gommoni stracarichi e malandati e costa 1186 Euro in meno.
Non capisci perché il tuo amico Salam, lifeguard norvegese, sia stato arrestato dalla guardia costiera greca con l’accusa di “violazione della legge sull’immigrazione” mentre pattugliava la costa con la sua lancia, salvando centinaia di vite.
Non capisci perché una gigantesca ONG ha speso centinaia di migliaia di Euro per costruire un campo sulla spiaggia, in una zona assurda e mai utilizzato del tutto, mentre nello stesso momento, dall’altra parte della spiaggia, una piccola ragazza spagnola ti chiede un passaggio al villaggio per comprare 20 chili di fagioli, 55 Euro, perché “il tempo è bello oggi e arriveranno molte barche. Avranno bisogno di proteine e abbracci..!”
Non capisci l’assenza e l’indifferenza dell’Europa proprio nel luogo in cui il suo futuro prossimo si sta decidendo.
Ma sopratutto non capisci perché Charly debba piangere.

L’Europa sanguina, azzannata da una crisi epocale, una crisi che non è in grado di gestire e che per questo motivo rappresenta il dubbio alla sua stessa esistenza. E questi meravigliosi volontari, uomini e donne, instancabili sulla spiaggia, in acqua, sugli scogli, sono il laccio emostatico che stringe l’arteria della dignità ferita, impedendo all’Europa di morire.
E’ solo un laccio emostatico. Ma è moltissimo, è un mondo.