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Il tribunale di Milano riconosce il carattere discriminatorio della delibera sul fondo affitto

Tribunale di Milano, ordinanza del 8 marzo 2016

Con ordinanza dell’11.3.2016 è stato accolto il ricorso presentato da ASGI e APN (avv.ti Guariso e Neri ) nei confronti della regione Lombardia e del comune di Milano. Il giudice dott. Perillo ha affermato che costituisce discriminazione prevedere, ai fini dell’accesso al contributo sul canone di locazione, il requisito dell’esercizio di una regolare attività lavorativa nonché il requisito della residenza da almeno 10 anni nel territorio nazionale ovvero di 5 anni nella Lombardia per i soli cittadini stranieri.

L’8 ottobre 2015 la Giunta Regionale lombarda ha approvato il progetto sperimentale “reddito di autonomia”, un pacchetto di misure volta a sostegno dei cittadini in condizione di povertà. Due di queste previsioni, riguardanti il bonus bebè (X/4152) e il fondo affitto (X/4154), sono state immediatamente oggetto di critiche da parte delle associazioni ASGI e APN, che hanno presentato una lettera alla Regione, lamentando l’illegittimità e la discriminatoria di alcuni requisiti (qui un approfondimento sul punto). Non avendo ricevuto risposta, il 22 dicembre 2015 le associazioni hanno presentato ricorso contro la regione Lombardia e il comune di Milano (autore di una determina dirigenziale attuativa della delibera) deducendo la natura discriminatoria delle due delibere (qui un approfondimento sul punto).

Il Tribunale di Milano, investito della questione, ha accolto molti degli argomenti di parte ricorrente e ha deciso che:

-sussiste la giurisdizione del giudice ordinario trattandosi di azione discriminatoria, volta alla tutela del diritto soggettivo assoluto a non essere discriminati (Cass. sez. U ordinanza n. 3670 del 15.2.2011);

– sussiste la competenza funzionale del giudice del lavoro poiché “in difetto di una norma generale che fornisca la nozione di contributo assistenziale ovvero di prestazione sociale può sostenersi che un interventi di sostegno al reddito da parte di una pubblica amministrazione può assumere la natura di intervento assistenziale allorquando sia finalizzato a tutelare la condizione e situazione economica disagiata del destinatario” alla quale sicuramente entrambe le prestazioni rispondono;

– costituisce discriminazione prevedere in un atto amministrativo requisiti diversi per italiani e stranieri violando l’art 41 TU Immigrazione che sancisce la parità tra italiani e stranieri titolari di permesso di soggiorno non inferiore ad un anno nell’accesso a “provvidenze e prestazioni anche economiche di assistenza sociale”

La particolarità della vicenda nasceva dal fatto che la Regione pretendeva di essere abilitata a trasporre in un atto amministrativo requisiti differenziali per italiani e stranieri derivandoli arbitrariamente a due diverse disposizioni di legge: dall’articolo 40 TU Immigrazione aveva infatti attinto il requisito della “regolare attività lavorativa” dimenticando il fatto che tale requisito è previsto da detta norma esclusivamente per l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica (oltre che per l’accesso al credito agevolato e ai servizi di intermediazione delle agenzie sociali) e non certo per l’erogazione di un contributo assistenziale alla locazione; dall’art. 11, comma 13 Dlgs 112/08 aveva invece derivato il requisito dei “cinque anni di residenza nella regione o 10 sul territorio nazionale”, dimenticando che detti requisiti sono previsti esclusivamente per l’accesso al fondo affitti disciplinato dall’articolo 11 L. 431/98.
Con l’ordinanza il giudice ha confermato che, qualora una ente locale o una regione decida di introdurre una prestazione assistenziale, anche se nella medesima materia abitativa sulla quale intervengono le due norme nazionali citate, non è ovviamente soggetto a dette norme ma deve attenersi al principio generale di parità di cui appunto all’art. 41 cit.
Da notare che il ripetuto riferimento della ordinanza alla direttiva 109/2003 non pare in realtà rilevante posto che l’azione era volta alla eliminazione del requisito in questione per tutti gli stranieri indipendentemente dal titolo di soggiorno.
Quanto alle conseguenze il giudice ha ordinato la riapertura del bando al fine di consentire l’accesso degli stranieri a parità di trattamento con gli italiani.
Il giudice ha invece respinto la domanda dell’associazione volta a far rimuovere anche il requisito dei cinque anni di residenza nella regione previsti sia per gli italiani che per gli stranieri in relazione alla prestazione del “bonus bebè“. Sul punto l’argomentazione del giudice non appare convincente laddove, pur dando atto della diversa incidenza del requisito sugli italiani e sugli stranieri (la clausola infatti esclude lo 0,07% degli italiani contro il 14,76 % degli stranieri), nega la sussistenza della discriminazione indiretta sulla base della considerazione che “la percentuale degli stranieri interessati rispetto al totale rappresenta comunque un una minima parte tale da non consentire di ritenere che l’intervento normativo in commento abbia avuto quale fine quello di pregiudicare il cittadino straniero”.
A parte il riferimento alla finalità del provvedimento (che notoriamente irrilevante dovendosi guardare solo all’effetto dello stesso) l’argomentazione appare erronea laddove non considera il divario tra le due percentuali e quindi la diversa incidenza sui due gruppi considerati ma solo la percentuale degli stranieri interessati: come dire che se la differenza è ampia ma i danneggiati sono pochi la discriminazione indiretta non sussiste. Ciò non pare davvero rispondente alla nozione di discriminazione indiretta che attiene esclusivamente al “particolare svantaggio” rispetto al gruppo comparato e non allo svantaggio assoluto.

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Tribunale di Milano, ordinanza del 8 marzo 2016