Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Cronache da Idomeni, limbo tra il vero inferno e un difficile paradiso

di Cristiana Gallinoni e Claudia Paladini, Indipendenti, 4 aprile 2016

Il giorno dopo l’importante mobilitazione svoltasi al Brennero per contestare la chiusura della frontiera tra Austria e Italia e per chiedere con forza libertà di movimento per tutte e tutti e ribadire che esiste un’altra Europa aperta e solidale, abbiamo deciso di pubblicare un primo racconto del nostro viaggio insieme alla carovana Overthefortress nel quale condividere una serie di sensazioni e di valutazioni, a mente ancora poco fredda e lucida. Proviamo a farlo senza retorica ma tentando di raccontare alcune delle storie incontrate nell’enorme tendopoli ai confini dell’Europa.

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Idomeni Grecia Europa. Eppure l’Europa non è mai stata così lontana.

Tende a perdita d’occhio, nelle stazioni di servizio sulla statale che collega Salonicco ad Idomeni, sui campi in mezzo al fango, ai bordi del filo spinato, in mezzo ai binari dove una volta passava il treno, nei vagoni merci in cui vivono intere famiglie e che ricordano in maniera agghiacciante i vagoni che portavano nei campi di sterminio. 10 forse 12 mila persone bloccate. Bloccate da una frontiera chiusa che impedisce loro il passaggio verso una nuova vita, che nella speranza di molti si chiama Germania.

Ma la speranza si scontra con la durezza della realtà di confini chiusi in cui l’Europa, su indicazione della Germania stessa, ha scelto di barricarsi a difesa di valori e codici in cui facciamo sempre più fatica ad identificarci. Chiusa la Macedonia e sopra di essa la Serbia, la Croazia e l’Ungheria, paesi che da sempre vengono utilizzati dalle potenze europee come barriere contro la paura dell’invasione che viene dall’oriente islamico e sconosciuto. Chiusa l’Austria, paese mai veramente disponibile ad accogliere chi cerca protezione e dignità nella ricca Europa.

Guardare indietro significa rivivere la fuga dai bombardamenti, dalle persecuzioni, dalla negazione della libertà, dell’aver lasciato indietro la propria vita, di non essere riuscito a portare tutta la famiglia. Significa dolore immenso e impossibilità di tornare. In Siria, in Afghanistan, in Iraq, in Kurdistan.

Abbiamo visto con i nostri occhi la desolante periferia di Salonicco con le sue fabbriche chiuse e le case abbandonate, quei 70 km di niente che da lì arrivano alla frontiera di Idomeni. Abbiamo ascoltato i racconti dei compagni greci che ci parlano delle tendopoli dentro Atene in cui i profughi si sommano a migliaia di cittadini greci che con la crisi e l’austerity hanno perso tutto. E allora ci si chiede se l’altra vittima di scellerate scelte dell’Europa non sarà proprio la Grecia che rischia di affondare sotto il peso di quanto sta accadendo.
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In questi giorni ad Idomeni abbiamo incontrato tante storie, tante vite, tanti sogni e speranze.¹

Abbiamo deciso di andare a vedere con i nostri occhi, di ascoltare con le nostre orecchie e sentire con il nostro naso l’odore di diossina dei fuochi arrangiati per riscaldarsi, di toccare con mano quelle mani forti di uomini e donne in viaggio verso il futuro. Di ricambiare i sorrisi entusiasti dei bambini che, alle decine di volontari, di reporter, di greci venuti a portare solidarietà, gridano My friend My friend salutando con la manina. Senza chiedere nulla, se non un abbraccio o di poterti scrivere il loro nome su un braccio perché tu possa portarlo sempre con te. Manca tutto a Idomeni ma ogni viso impolverato dal fango, che regna su tutto, ha gli occhi che brillano e chi è stato a Idomeni non li scorderà mai più.

Quasi tutte le persone che incontriamo, con grande dignità negli sguardi, hanno voglia di raccontare, per far si che tutta la sofferenza di quel confine, arrivi lontano da lì. Perché è veramente impensabile che non ci sia una via d’uscita, è incredibile per loro (e anche per noi) accettare che gli venga negato persino il diritto alla fuga e ad avere una seconda possibilità nella vita.

Mentre camminiamo tra le tende sferzate dal vento freddo e incessante, o battute dal sole a picco, intere famiglie ci invitano a fermarci per raccontare la loro singola e particolare storia, per offrirci un te o quel poco che hanno da mangiare

Attraversando i container dell’UNHCR, gli operatori umanitari ci dicono che sono pochissime le informazioni che riescono a dare a queste persone, innanzitutto perchè la situazione è confusa e non è chiaro a nessuno cosa succederà a chi è arrivato in Grecia prima del 20 Marzo, data dell’accordo tra UE e Turchia. Tutti coloro che ci chiedono informazioni ci mostrano un foglio in greco (in greco, una lingua che parlano solo i greci, e senza alcuna traduzione in inglese o altre lingue), unico documento rilasciato dalle autorità locali al momento dell’ingresso alla frontiera greca: c’è scritto che entro 6 mesi devono lasciare la Grecia altrimenti saranno dichiarati clandestini e probabilmente deportati. I documenti che tutti hanno sono fogli di deportazione, identici gli uni agli altri, in cui l’unica differenza è il nome e la foto della persona, in barba a qualsiasi normativa internazionale che impone la valutazione individuale di ogni singola situazione.

Chiunque in Europa ha diritto di chiedere protezione internazionale ma da anni ormai la Grecia non viene considerata “paese sicuro” dalla stessa Unione Europea. Questo perchè non è in grado di assolvere le richieste di protezione, che rimangono inevase per migliaia di persone, oltre a non offrire condizioni di sicurezza per i richiedenti asilo accolti, tanto che, in deroga al regolamento di Dublino, tutti i rimpatri verso questo paese erano e sono tuttora sospesi. Ci chiediamo oggi, come può un paese già ampiamente e notoriamente riconosciuto come inadeguato per chi richiede protezione sostenere una situazione di tale portata? Le possibilità di fatto per le persone bloccate in Grecia di avere accesso alla protezione sono inesistenti. Le autorità greche dovrebbero garantire la possibilità di accedere alla procedura di protezione internazionale ma ad oggi, l’unico modo per fare domanda di asilo è fare una chiamata Skype all’ufficio preposto, solo in certi giorni, in certi orari divisi per gruppi linguistici. Anche ammesso che si riesca ad accedere ad una connessione wi-fi e a un dispositivo in grado di fare una chiamata Skype, di fatto nessuno risponde, da mesi ormai, a questi numeri. Questo provoca una situazione di totale stallo: non c’è informazione in generale, quando c’è le persone non vogliono chiedere protezione per paura di rimanere in Grecia, e quando qualcuno vuole chiedere protezione di fatto è impossibilitato a farlo.

A Idomeni ci sono almeno 10.000 persone che aspettano. Aspettano che la frontiera si apra, convinti che la grande Germania li stia aspettando a braccia aperte. Aspettano di capire se la Grecia li deporterà o li inserirà in un programma di protezione o di ricollocamento che non potrà che essere in altri paesi europei perchè in Grecia non ci sono strutture e mezzi sufficienti. Questi programmi rappresentano davanti ai nostri occhi solo la retorica europea, parole che abbiamo già sentito anche in Italia quando le frontiere del bel paese si sono chiuse dietro la linea degli hotspot. Parole vuote, solo un altro pezzo delle bugie e delle promesse inevase funzionali a giustificare il rafforzamento delle frontiere, l’esternalizzazione dei confini e l’implementazione delle politiche di espulsione e deportazione.

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Pazienza+speranza =Europa

Chi arriva dalle isole greche, insieme ad una piccolissima parte di chi è accampato a Idomeni viene portato nelle decine di campi gestiti dal governo (attraverso esercito e polizia), ben organizzati, chiusi ad occhi indiscreti, dislocati su tutto il territorio, più facili da nascondere alla vista.

Campi in cui sono già migliaia e in cui tantissimi però si rifiutano di andare, perché “almeno ad Idomeni siamo visibili e qualcuno racconterà di noi, perché almeno siamo vicino a quel maledetto cancello che prima o poi si aprirà”.

Quando ci sediamo su giacigli rimediati a sorseggiare l’ottimo te allo zenzero che ci offrono, tutti dicono di essere siriani, ma alcuni basta guardarli per capire che il dichiararsi siriani è forse l’unico appiglio per provare a pensare al futuro, ora ancora più incerto alla luce dell’accordo illegale tra Commissione Europea e Turchia, appena ratificato dal parlamento greco.

In base all’accordo del 18 marzo scorso, la Turchia di Erdogan è infatti riconosciuta il primo paese sicuro in cui rispedire chi sbarca sulle coste europee, nonostante l’assenza quasi totale di tutela dei diritti umani, la mancanza di democrazia e la violenza con cui tenta di reprimere la resistenza kurda. A Idomeni l’accordo è nell’aria e aleggia il fantasma che chiunque sia ora in Grecia possa essere deportato verso la Turchia e nuovamente verso i paesi da cui fugge.

Chi si trova oggi a Idomeni è scappato da tutto e si è lasciato indietro la propria vita alla ricerca della porta di accesso ad un paradiso chiamato Germania dove la signora cancelliera aveva annunciato “accoglieremo un milione di siriani” (1, 2).
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Cittadini siriani che, nel frattempo, avendo solo quello come punto di riferimento e come speranza a cui aggrapparsi, si sono messi in viaggio. E poi una volta arrivati ad Idomeni sono stati abbandonati li dallo stato greco e sacrificati dalle potenze europee in nome della salvaguardia del proprio benessere economico. Fino a poco tempo fa 50/100 persone al giorno riuscivano a passare il piccolo cancello grigio che separa la Grecia dalla Macedonia e, in poche ore ancora di pullman, o in alcuni giorni di cammino, con tutti i loro averi sulle spalle, ad arrivare finalmente in Germania. Poi ad un certo punto la comunicazione: ”Siamo spiacenti, la frontiera è chiusa.” Non passa più nessuno.

Di fronte a chi ci chiede il perchè di questa chiusura è davvero difficile dare un risposta che non metta in imbarazzo il nostro stesso essere cittadini europei. Perché mette in evidenza la forte, enorme contraddizione contenuta nel fatto che si sceglie di dare 6 miliardi di euro alla Turchia per accogliere migliaia e migliaia di persone che si andranno ad aggiungere a quelle già presenti negli sterminati campi profughi turchi o che, peggio ancora, rischiano di essere riportati indietro nella stessa Siria, proprio come sta succedendo nelle ultime ore.

E allora le giornate scorrono lente ad Idomeni, periferia di Europa, luogo ameno di cui nessuno di noi avrebbe mai sentito parlare se non fosse per l’esodo tragico ed epocale a cui stiamo assistendo impotenti. Come direbbe De Andrè, anche se noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti, in quanto cittadini europei liberi di godere dei diritti acquisiti, di attraversare le frontiere senza controlli, di costruirci una vita dove più ci aggrada (o almeno di provarci). Siamo lo stesso coinvolti se decidiamo di rimanere indifferenti di fronte a chi scappa da guerra e violenze atroci o decidiamo di rimanere in silenzio di fronte a chi si trincera dietro la necessità di sicurezza alimentando l’odio per il diverso, contro lo straniero, contro un nemico che in realtà è interno (vedi gli attentatori di Parigi e Bruxelles). La guerra globale permanente si consuma da decenni ormai davanti ai nostri occhi e dopo l’11 settembre il diritto fondamentale sembra essere diventato quello alla sicurezza. E allora la guerra è diventata preventiva, dilatando il concetto di legittima difesa. La guerra è diventata umanitaria, trasformando le crisi umanitarie in minacce alla pace e le minacce imminenti vanno eliminate anche a prescindere dalle aggressioni.

Come recita uno dei tanti cartelli scritti dai migranti in protesta costante sul binario morto della stazione di Idomeni, l’unico che ancora attraversa quel maledetto confine … ci chiediamo “come è possibile salvare un uomo senza più stato, in un posto senza più umanità?”

E’ notizia di questi giorni che la chiusura della frontiera macedone potrebbe proseguire fino alla fine dell’anno, eppure queste persone, queste donne, questi uomini, questi bambini, con tutta la forza della loro dignità, non sono disposti a fare un passo indietro. Saremo capaci di essere al loro fianco?