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Le cupe vampe di Idomeni. Riflessioni dopo la March #overthefortress

Nicola Mancini, Centro sociale Arvultùra, Senigallia

“ … ci fotte la guerra che armi non ha, ci fotte la pace che ammazza qua e là,
ci fottono i preti, i pope, i mullah, l’ONU, la NATO, la civiltà …”

Ti resta dentro. Quell’odore di plastica bruciata. Lo senti appena arrivi, in ogni latitudine del campo. Ti entra nel naso, ti prende la gola e poi ti contorce lo stomaco. Nausea.

Solo dopo li vedi. I fuochi. Ovunque. In mezzo ai campi, tra le strade, davanti alle tende, dentro le case abbandonate, a ridosso del filo spinato. Fuochi. Per riscaldarsi. Per cucinare. Per stare insieme e porre un argine all’incedere del freddo e dell’umidità.

Quando si cerca un po’ di tepore bruciando vestiti. Quando la diossina diventa per necessità, il condimento per un po’ di cibo. Quando a respirare tutto questo sono 15.000 persone, delle quali il 40% bambini, accampate tra fango, piscio e merda, allora si è arrivati ai confini dell’umanità. Ai confini dell’Europa.

A Idomeni la vita è nuda, sospesa, imprigionata dentro un presente perimetrato da filo spinato, divise mimetiche e agenti antisommossa. Nessuna garanzia per nessuno. Nessun futuro.

In passato fu la culla della civiltà. Delle due sponde il Mediterraneo ne era il ponte, non il cimitero. Magna Grecia. Perché il mare non riconosce confini e la terra accoglie e nutre i suoi naufraghi.

I disegni dei bambini nel campo di Idomeni
I disegni dei bambini nel campo di Idomeni

I bambini di Idomeni disegnano un sole con il broncio, triste. Disegnano aerei che bombardano le coste e gommoni che salpano con il loro carico di speranza e disperazione. Disegnano fili spinati, famiglie divise e case distrutte. Disegnano la Magna Grecia così com’è ora. Disegnano la Siria o ciò che ne resta.

Eppure ridono. Ti abbracciano. Ti chiedono di portarli in Europa. I loro genitori hanno volti duri, sfiancati, austeri, eppure aprono la loro tenda, stendono una coperta, ti invitano, versano il vino e spezzano il pane. I ragazzi, invece, hanno volti orgogliosi e arrabbiati; la barba ben fatta e i capelli sempre pettinati con la brillantina. Penso, allora, ai miei nonni, ai contadini degli anni ’50 o agli operai dei ’60, al vestito buono della domenica, a quell’eleganza proletaria sbattuta in faccia ai padroni, per dire che si è come loro, anzi, meglio di loro. La stessa eleganza fiera e dignitosa i ragazzi e le ragazze di Idomeni la sbattono in faccia all’Occidente. A quel sogno che si è fatto incubo e che si chiama Europa.

Il vecchio continente non sa più nulla di sè. Non sa più della libertà. Non sa più dell’uguaglianza. Soprattutto, non sa più della fratellanza. L’Unione Europea ammassa, vessa e umilia i profughi delle sue guerre. Si piega al neo sultano Erdogan, strige accordi economici con le monarchie dei petroldollari e tramite loro finanzia gli jihadisti, mentre osserva i propri cittadini esplodere nei bar, nelle metro e negli aeroporti. L’unica risposta è lo stato di emergenza e cioè tanta libertà in meno e tanta paura in più.

L’Europa insieme all’Asse Atlantico ha portato la guerra in Medioriente. Il Medioriente ora porta la guerra in Europa. E’ la giostra del profitto, che trasforma gli esseri umani in merce per accordi tra Stati. E’ la spirale dell’odio, quella che lega e reciprocamente nutre il fondamentalismo islamico e i partiti xenofobi. E’ la guerra, dove – ci ricorda Brecht – sia tra i vincitori che tra i vinti, alla fine fa sempre la fame la povera gente.
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Uscire da questo macabro gioco del terrore vuol dire affermare che accoglienza, solidarietà, cooperazione e laicità non sono parole da anime belle, ma prospettive. Vuol dire che più si ama l’umanità e più si odia la Lega Nord. Vuol dire prendere a schiaffi quei volti ipocriti del potere, che dietro alle lacrime mostrate in diretta TV, celano il sangue di donne e uomini innocenti a Cizre (Kurdistan turco) come a Parigi, a Lahore (Pakistan) come a Bruxelles. Vuol dire che la sicurezza si declina con l’immediato ritiro delle truppe atlantiche dalle terre altrui; con la revoca unilaterale dei trattati economici e commerciali con i paesi che finanziano il terrorismo, a partire dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e dal Kuwait; con la chiusura di tutte le fabbriche che vendono armi a quei paesi o a quelle aziende che fanno affari con le organizzazioni jihadiste. Vuol anche dire togliere il PKK dalle liste delle organizzazioni terroristiche e inserirci la NATO.

L’Europa che era la terra promessa, ad Idomeni si è scoperta essere l’orlo dell’abisso. In quel pezzo di terra, tra quell’umanità dichiarata in esubero, tra quelle tende dove abitano disperazione e speranza, però non si decide solo il futuro dei migranti, ma quello di tutti noi. Si decide tra la pace che è giustizia sociale, e la guerra che è l’attuale fase dello sviluppo capitalistico. E la scelta, il prendere parte, è ciò che rende la vita umana almeno dignitosa.

In un recente blockbuster cinematografico si dice che “comincia così la febbre, la rabbia, il senso di impotenza che rende gli uomini buoni, crudeli”. Quando le cupe vampe si alzeranno di nuovo sull’Europa e la diossina si mescolerà all’aspro odore della cordite, ricordiamoci di quei bambini a cui i governi occidentali stanno togliendo ogni speranza, lasciandogli tra le mani solo disperazione. Quando l’Europa brucerà, ricordiamoci di Idomeni.