Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Sguardi da Idomeni

di Gaetano De Monte e Andrea Rotelli

Due immagini estremamente forti si pongono subito davanti a noi mentre arriviamo alla bidonville di Idomeni, città fantasma al confine tra Grecia e Macedonia dove da più di un mese sono letteralmente intrappolati circa dodicimila profughi tra afgani, curdi, iracheni, e siriani, in particolare. Un camion di volontari greci che distribuisce aiuti e generi alimentari all’esterno del campo viene preso d’assalto; e, poco più in là, tra le tende colorate marchiate quechua, all’interno di una di queste case-capanna, vere e proprie abitazioni differenziali, una giovane donna dà alla luce un bambino. Circondata da decine di telecamere e di smartphone, aiutata nelle cure dagli operatori di Medici Senza Frontiere. Sono circa seicento le donne in attesa di mettere al mondo un figlio, nella giungla di Idomeni – secondo i dati, comunque parziali, forniti dalla stessa organizzazione non governativa. È proprio in quel momento che la carovana internazionale arriva in quello che è attualmente il campo profughi più grande d’Europa. La marcia #overthefortress promossa da meltingpot.org e globalproject.info era salpata il giorno precedente, il 25 marzo, dai porti di Ancona, Trieste e Bari per portare nei campi profughi della Grecia nord–orientale, solidarietà concreta, materiale. Ma non solo. Anche la richiesta di un’altra, necessaria politica in materia d’asilo e accoglienza dei migranti.

A bordo della carovana c’erano i centri sociali del Nordest e delle Marche, i giuristi dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e avvocati da sempre a sostegno dei diritti dei più deboli, come Paolo Cognini, operatori sanitari ed educatori. Più in generale, a comporre il gruppo, raggiungendo la frontiera con la Macedonia, sono stati attivisti provenienti da diverse parti d’Italia: i No Muos siciliani, i napoletani del Laboratorio Insurgencia, gli attivisti della #campagnawelcomeTaranto, studenti provenienti da Roma, Parma, Torino. Proprio dalla città piemontese partirà il 2 Aprile un’altra carovana, quella delle donne per i diritti dei migranti che si concluderà a Palermo il 18 dello stesso mese, dopo che avrà fatto tappa il giorno precedente, simbolicamente, a Catania, in occasione delle giornate internazionali contro Frontex, l’agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne.

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Quando insieme ai volontari internazionali in pettorina arancione arriviamo al campo molti “ospiti” della giungle ci vengono incontro gioiosamente, con curiosità ma allo stesso tempo con estrema calma. Attorno agli attivisti italiani c’è molta attenzione. Per un momento – ce lo confessano – i profughi hanno creduto che fossimo giunti a liberarli. È il desiderio in potenza. Perché, dicono quasi in silenzio, sibilando poche parole, hanno vergogna dello stato in cui sono costretti i loro corpi: vorrebbero andare immediatamente via da quella città improvvisata nata sul binario morto in una stazione di confine, dove attualmente esistono soltanto una trentina di bagni chimici per circa 12.000 persone. In cui la media abitativa è di sei persone ospitate in tende da tre posti.

Nel campo fa freddo e per tutto il giorno ci si scalda con fuochi improvvisati, usando la legna che si trova attorno, ormai marcita, un tempo usata per la ferrovia. Si brucia di tutto per riscaldare i numerosi bambini presenti, nel fuoco ci finiscono anche fibre contenenti amianto. Quasi la metà dei transitanti sono minori, qualche migliaio hanno tra i due e i dieci anni. Vagano da soli, molti di loro scalzi, tra sacchetti di spazzatura e rifiuti di ogni tipo, alcuni presentano vistose ecchimosi sul volto e mostrano gravi carenze di natura igienico-sanitaria. Insomma, nonostante i lodevoli sforzi nella gestione del campo da parte dei volontari greci e di organizzazioni non governative come Msf è evidente che da soli non possono bastare per garantire le condizioni minime di esistenza.

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“Raccontate che siamo esseri umani anche noi”, dicono i più grandi, i genitori di Idomeni, in un inglese talvolta stentato, ora eccellente, a seconda della etnia, della nazionalità, delle storie di vita che abbiamo di fronte. Già, perché è questa la prima cosa che bisogna tenere a mente: ognuno di loro, ogni corpo, ogni viso, ogni volto ha la sua storia. Le altre ong presenti nel campo come Unhcr dicono che non si vedevano così tanti profughi in Europa dai tempi della guerra in Bosnia Erzegovina. Allora, al principio degli anni’90, migliaia di profughi albanesi si rifugiarono sulle coste greche. Ora, lungo il perimetro di campagne che circonda il fiume Konska, specchio d’acqua dove nei giorni scorsi sono annegate tre persone che cercavano di varcare la frontiera. Qui, ai confini con la Macedonia, è un proliferare di campi profughi, alcuni informali, altri completamente militarizzati. La natura giuridica di questi ultimi non è chiara – come ha spiegato Giulia, del team legale di #overthefortress, una delle poche persone a cui è stato consentito di visitare gli altri campi governati da esercito e polizia, come quello di Neokavala, a metà tra un Cie e un Cara, in pratica degli hotspot di terra e a cielo aperto. In questi centri l’accesso è vietato pure ai giornalisti. E anche qui, come per il nonluogo principe che a Idomeni si trova sul binario morto della stazione ferroviaria, condizioni sanitarie drammatiche e continue violazioni del diritto d’asilo si fondono a disegnare la trama di una cartografia della disperazione.

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Oltre tutto questo, la domenica di Pasqua, l’Europa dei muri e dei recinti di filo spinato ha mostrato il suo lato più spietato. Erano le nove del mattino quando la polizia greca ha cominciato a sbarrare le strade di accesso al campo più grande, quello di Idomeni, appunto. La carovana dei volontari internazionali, dopo aver inventariato con cura, abito per abito, scarpa per scarpa, farmaco per farmaco ogni tipo di aiuto fin qui portato, sin dalla prima mattinata, è arrivata nei pressi dello sbarramento intorno alle 11. Il blocco è stato rimosso e soltanto dopo una lunga trattativa, più di tre ore dopo. In questo modo la polizia greca ha ritardato il carico di solidarietà materiale (2 furgoni carichi di roba) diretta al campo. Rendendo poi molto complicata la distruzione degli aiuti. E questo è un dato di fatto che va messo in evidenza. Fino alla loro ripartenza gli attivisti hanno distribuito il più possibile, mentre ciò che è rimasto è stato consegnato alle associazioni presenti nel campo sin dall’inizio, più di un mese fa, della vergogna Idomeni. Alle dinamiche sin qui richiamate di recinzioni e barriere si accompagnano, è la sensazione palpabile, nuovi mondi che si esprimono in mille forme di solidarietà politica. “Non è finita, abbiamo lasciato tutti qualcosa qui, abbiamo il dovere di tornare” dice Valentina, attivista dell’Ambasciata diritti di Marche, impegnata da anni nel monitoraggio del porto di Ancona, sede di strane sparizioni migranti e respingimenti; è da lì che simbolicamente, in nave, il grosso della carovana #overthefortress è voluta partire. E ritornare. Trentadue ore di viaggio. Per consegnare un sorriso o portare un farmaco a migliaia di bambini in fuga dai loro paesi; fanciulli a cui la storia recente dell’evoluzione relazioni internazionali non consente di andare a scuola, mangiare, bere e lavarsi. Vivere degnamente.

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Mentre la carovana è in partenza dal porto di Igoumentitsa tornano in mente ad una ad una le facce di chi si trova da mesi prigioniero di un continente in cui vivono cinquecento milioni di persone, i cui governi sono sordi e ciechi di fronte alle richieste di alcune centinaia di migliaia di profughi di guerra che chiedono soltanto di essere accolti degnamente e poter fare richiesta d’asilo. Mentre la nave lascia il porto greco diretta in Italia, pensiamo che quei confini chiusi e quelle violazioni dei diritti umani che abbiamo riscontrato nei campi della Grecia, così come quell’accordo UE-Turchia contro cui la carovana #overthefortress ha manifestato a Salonicco ( davanti al palazzo del governo macedone (Macedonia greca n.d.r)) non sono l’Europa che vogliamo. Le pettorine arancioni, che trascorrendo il giorno di Pasqua a Idomeni hanno illuminato parzialmente il campo, donando due generatori di corrente elettrica e montando una zona wifi (in Grecia attualmente è possibile effettuare la richiesta di asilo soltanto via Skype) sono loro l’Europa che ci rappresenta. C’è una ulteriore sensazione che ci coglie al termine di un viaggio che sarà difficile da dimenticare. La percezione che, tornando in Italia e pronti a ripartire con la seconda parte della staffetta #overthefortress, ciascuno porta con sé un bagaglio di ricchezza ulteriore, dopo aver visto di persona, toccato con mano e sentito come si vive nelle giungle d’Europa. “Chiamateci persone e fateci vivere come tali” è la frase che risuona quando le sirene del porto di Bari annunciano che siamo già dall’altra parte della frontiera europea, dove, fatte poche eccezioni si può ancora mangiare, bere acqua pulita e lavarsi.

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