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Fuggiti dalla guerra, ostaggi in Europa

di Saverio Serravezza, Nove Onlus

Foto: Il campo di Idomeni, Saverio Serravezza
Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza
Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza

Dieci mesi fa, nella cittadina siriana di Daraa le fazioni del fronte del Sud dell’esercito libero siriano, insieme ad al-Nusra, cercano di contrastare l’esercito governativo che tenta di riprendere il controllo. E’ la seconda pesante offensiva in pochi mesi. I combattimenti si svolgono principalmente fuori dalla città, controllata dal fronte del Sud, ma sono frequenti incursioni da parte dei governativi.

Mujaahid, un capocantiere di 27 anni, come tutte le sere torna a casa portando pane e verdura alla moglie e le tre figlie. Un cecchino governativo è appostato su un palazzo. Lo vede, pensa che sia un sostenitore dell’esercito libero, a cui porta viveri e munizioni. Non ci pensa due volte: prende la mira e spara. Mujaahid cade, rimasto da solo in strada, nel sangue, grida. Poco dopo alcuni miliziani dell’esercito libero riescono a bonificare la zona e lo traggono in salvo.

Il proiettile gli ha trapassato la schiena, fratturando tre vertebre e danneggiando il plesso nervoso; il foro di uscita gli ha devastato l’intestino. A Daraa non si puà fare nulla per lui, la corsa verso il confine dura tutta la notte. In Giordania, Mujaahid viene ricoverato in un ospedale da campo, dove gli vengono trasfuse 25 sacche di sangue e subisce vari interventi chirurgici. Dopo aver ristabilito le condizioni generali, gli viene praticata un’apertura sulla parete addominale, che collega l’intestino ad un sacchetto; in seguito gli vengono inserite protesi metalliche alla colonna vertebrale. Ma Mujaahid non sente le gambe: è paraplegico, costretto su una sedia a rotelle.
Dopo più di un mese torna a Daraa: le sue condizioni peggiorano, le infezioni e le piaghe aumentano. Non è in grado di procurarsi i medicinali e le cure necessarie e Daraa sta per cadere sotto l’ennesima offensiva dei governativi. Forse può guarire, recuperare almeno in parte: ma non lì, nella Siria che brucia.

Mujaahid non perde la speranza. Prende una decisione difficile, una decisione da uomo, marito e padre: tentare di arrivare in Turchia.
Portando con sé solo l’indispensabile, la familgia lascia Daraa. Dopo poche, dure settimane è a Kirkis, Turchia, nel campo di Gaziantep. Quando viene visitato, la diagnosi è che ha il 10% di possibilità di recupero, molte di più sarebbero le probabilità con un ricovero in Europa.
Mujaahid vuole solo una cosa: una vita dignitosa per sé, la moglie e le figlie. Sa che se non guarisce non potrà averla e deve prendere un’altra difficile decisione. Dopo qualche tempo, grazie all’aiuto di amici e parenti, Mujaahid sulla sedia a rotelle, la giovane moglie e le tre bambine intraprendono il lungo e pericoloso viaggio verso la Grecia, la porta dell’Europa.

Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza
Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza

Da Izmir, in Turchia, i trafficanti organizzano le traversate verso l’isola greca di Chios. Il viaggio dura circa 2 ore, su gommoni stracarichi e malandati, di notte. Costa mille euro a persona, bambini compresi.
Molti non ce la fanno. Quelli che sbarcano in Grecia si inginocchiano e baciano la terra della speranza, terra europea. E pregano per i compagni annegati. Mujaahid non può inginocchiarsi, ma quella notte a Chios alza le mani al cielo e ringrazia Dio, poi abbraccia Wouroud, sua moglie e le bambine.

Il viaggio però non è finito. A fine marzo 2016 la famiglia di Mujaahid arriva ad Idomeni, al confine greco macedone. Idomeni, un villaggio di pochi abitanti lungo la linea ferroviaria, fino a pochi mesi prima accesso per migliaia di profughi alla rotta balcanica verso l’Europa occidentale, si è trasformato in una prigione. Il confine è chiuso, blindato.
Più di 12.000 persone sono imprigionate in mezzo al nulla, nel fango, dormendo per terra, tra serpenti e zanzare. Il 40% sono bambini. Da due mesi aspettano davanti a una barriera di filo spinato, controllati da elicotteri, militari e agenti in tenuta anti sommossa.
Come possono esseri umani fuggiti dalla guerra tollerare di essere imprigionati, minacciati da uomini in divisa e armi?

La maggioranza dei profughi intrappolati ad Idomeni sono di origine siriana, appartengono alla classe media, parlano inglese, hanno una buona educazione. Sono dentisti, insegnanti, artigiani, architetti, umiliati e soffocati nel fango. Ancora più difficile da accettare, ora che sono in Europa.
E’ una tragedia che colpisce il corpo e la mente. La loro disperazione è tangibile guardando negli occhi le donne, quelle donne straordinarie che hanno seguito i mariti alla ricerca di una vita migliore e di pace per la loro famiglia. Quegli occhi sono la cartina tornasole della vergona di Idomeni: sono occhi spenti, senza più speranza, vuoti.

Le grandi organizzazioni umanitarie non reggono l’emergenza, l’impatto causato dall’improvvisa chiusura del confine. In dieci giorni Mujaahid non riesce a farsi visitare da nessuno e non può aspettare. Le sue condizioni peggiorano, l’infezione alla schiena deve essere curata e un piede presenta un principio di cancrena.
Decide di spostarsi a sud, di andare via da quell’inferno.

Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza
Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza

I volontari di Nove Onlus incontrano Mujaahid alla stazione di servizio Eko, pochi chilometri a Sud di Idomeni, lungo la superstrada. Qui 3.000 persone sono accampate in drammatica attesa che qualcosa cambi.
Mujaahid dorme in una tenda dove si soffoca dal caldo, su un lacero materassino, con la famiglia e due amici che lo hanno accompagnato durante il lungo viaggio. Nonostante tutto è un padre premuroso, si sforza di essere allegro per dare coraggio a moglie e figlie.
Ma è in condizioni fisiche pessime, ha bisogno di essere stabilizzato, subito. Anche un piccolo miglioramento delle sue condizioni gioverebbe moltissimo alla sua salute e gli restituirebbe la speranza che ha perso, insieme alla gambe.

Nove Onlus decide di inserire Mujaahid nel progetto Reach: micro interventi a sostegno dei rifugiati in Grecia, cominciati ad ottobre sull’isola di Lesvos.
Due straordinari volontari indipendenti che lavorano al campo di Eko, Giada e Jhonny, decidono di sposare la causa e partecipare al progetto. Grazie a loro la famiglia di Mujaahid sarà seguita e sostenuta ogni giorno.
L’intervento comincia trovando una casa per lui e la famiglia. E’ un appartamento nel villaggio di Polycastro, piccolo ma con tutto il necessario: lenzuola pulite, acqua calda, una vera cucina e cibo.
Dopo mesi di viaggio, lunghe notti passate in tenda, Mujaahid e la sua famiglia sono di nuovo una “casa”. Il sorriso della moglie Wouroud mentre lava i piatti, la gioia di Mujaahid quando da da mangiare alla piccola Tute sulle sue gambe, seduto ad un tavolo vero, le bimbe sotto la doccia a giocare e scherzare col sapone dopo mesi di campi e fango. Mujaahid e la sua famiglia ritrovano la dignità.

Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza
Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza

Nove Onlus è disposta a pagare pur che venga visitato; contatta il dottor Vassili nel suo studio privato, spiega le condizioni di Mujahhed e chiedo il costo. Il dottor Vassili viene a visitarlo e gli presta le prime cure, gratis.

Con il passare dei giorni le condizioni di Mujaahid migliorano, le infezioni regrediscono e cosi pure il principio di cancrena. Con l’aiuto del dottor Vassili Nove Onlus riesce a farlo ricoverare all’ospedale universitario di Salonicco, dove vengono effettuate analisi ed esami. Si pensa a un’operazione che ripristini la funzionalità dell’intestino, per poi approfondire la questione neurologica e se possibile risolvere la paraplegia.
Mujaahid non parla inglese. Con un grande sorriso sussurra “shukran”, grazie, ogni volta che qualcuno gli rivolge la parola.

L’esito degli esami neurologici, secondo i sanitari greci, non consentirebbe l’intervento all’intestino. Mujaahid viene dimesso dopo una settimana senza aver subito l’operazione. La sanità greca, provata dalla grave crisi economica che attraversa il paese, non può permettersi di affrontare le spese per ulteriori indagini.

Nove Onlus non si arrende: sta cercando di attivare numerose iniziative per cercare di portare in Italia Mujaahid e la sua famiglia con un corridoio umanitario

Ma nel frattempo Mujaahid e la sua famiglia sono di nuovo in ostaggio. Sono ostaggio di un insensata politica Europea, delle grandi organizzazioni umanitarie che come elefanti non riescono a muoversi nei piccoli spazi dell’umanità, di una situazione volutamente confusa e immobile. Ma soprattutto sono ostaggi del nostro stile di vita, che non può essere intaccato da una presunta minaccia che invece è solo un opportunità.
E un giorno dovremo rendere conto ai nostri figli di tutto questo, dovremo raccontare loro cosa è successo e dovremo farlo con umiltà e guardandoli negli occhi.

Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza
Foto: Nove Onlus/Saverio Serravezza

Quella di Mujaahid è una delle tante drammatiche storie di persone in ostaggio a Polikastro e Idomeni, Grecia, Europa. Come la storia di Abdhul-Ramaan, pizzaiolo di 23 anni, una moglie e due bambini, le gambe squarciate da una barrel-bomb sganciata alle periferia di Damasco da un elicottero del regime. O la storia di Mohammed, artigiano di Aleppo, 26 anni e due bambini, intrappolato per 20 ore sotto le macerie di un palazzo crollato dopo i bombardamenti, una gamba amputata.

Piccole storie custodite nelle piccole tende di Idomeni. Piccole come Nove Onlus, come i volontari di tante nazioni che credono ancora nella solidarietà e con pochissime risorse fanno miracoli quotidiani, per aiutare Mujaahid, Abdhul-Ramaan, Mohammed e altri a non perdere la speranza.

Nove Onlus lavora per fornire un supporto concreto con limitate risorse finanziarie.
Per sostenere questa giovane organizzazione italiana visita il loro sito web. Per continuare ad ascoltare le storie del progetto Reach e le altre attività segui Nove Onlus su Facebook.