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Hotspot: respinti lungo la frontiera italiana

di Gaetano De Monte, Moufid Haidar

“Io avevo detto che ero scappato dal mio paese per gli scontri che ci sono, perché c’è la guerra e volevano farmi combattere contro i miei connazionali. Laggiù non posso tornare. L’avevo detto. Ma poi mi è stato consegnato il decreto di respingimento due giorni dopo”. È il racconto reso da M. nazionalità ghanese, sbarcato a Lampedusa ed espulso dall’Italia attraverso l’approccio hotspot. Questa è solo una delle tante testimonianze raccolte in Sicilia dall’organizzazione umanitaria Oxfam, ottenute grazie al sostegno di avvocati, attivisti e medici per i diritti umani. Storie di espulsioni, che qualche giorno fa sono state pubblicate in un rapporto: “Hotspot, il diritto negato”. Raccolte da Oxfam Italia, insieme a Diaconia Valdese e Borderline Sicilia, raccontano come avviene la gestione degli sbarchi lungo le coste siciliane. Il rapporto è una denuncia articolata su come un sistema privo di cornice giuridica sta minacciando i diritti dei migranti che arrivano in Italia. Così: “due ragazzi gambiani, conosciuti ad Agrigento, hanno raccontato di avere espresso la volontà di chiedere asilo ai poliziotti che li scortavano sul traghetto da Lampedusa a Porto Empedocle, ma senza alcun esito”. Infatti, poco prima di sbarcare gli è stato consegnato il decreto di respingimento – si legge nel rapporto di Oxfam, citando la testimonianza resa da Lucia Borghi, operatrice dell’associazione Borderline Sicilia che ha raccontato di aver parlato con ventisei ragazzi provenienti da Gambia e Senegal, che vagavano per il centro di Pozzallo con in tasca soltanto il decreto di respingimento.

Alcuni di questi migranti, a loro volta, hanno confidato all’operatrice di essere stati sottoposti ad un colloquio in un inglese risultato incomprensibile; ad altri, addirittura, non è stato proprio chiesto nulla e si sono ritrovati così col foglio di via in mano, senza sapere ciò che gli stesse accadendo. Dello stesso tenore è la testimonianza fornita da Roberto Majorini, avvocato che collabora con la Caritas Agrigento nella tutela legale dei migranti. Anzi, le sue dichiarazioni sono abbastanza allarmanti. L’avvocato ha raccontato ad Oxfam che nei mesi di gennaio e febbraio molti di loro sono stati respinti senza neppure aver visto, né firmato, il foglio notizie. Majorini ha riferito anche della classica domanda trabocchetto, servita a facilitare le espulsioni; in sostanza, nei primi mesi in cui è entrato in funzione l’approccio hotspot, durante le prime interviste, ai migranti veniva semplicemente chiesto: “sei venuto qui per lavorare”? ed è logico pensare che le loro risposte sarebbero potute essere soltanto affermative, dato che anche chi richiede protezione internazionale poi vuole lavorare. E infatti l’inganno risiede proprio in quella domanda, ovviamente in quella risposta. Basta quella per classificarli come migranti economici, come tali essere oggetto di una procedura di espulsione. Nonostante la legge italiana affermi che qualsiasi persona entri irregolarmente nel territorio e manifesti la volontà di presentare domanda di asilo non può essere destinataria di un provvedimento di respingimento, a parte casi specifici espressamente previsti.

Polizia di frontiera e diritti negati.

Nell’Agenda Europea sulle Migrazioni, un documento che risale al settembre dello scorso anno, la Commissione Europea, descrivendo il funzionamento degli hotspot, ha sostenuto che se i migranti non sono titolati ad avere protezione, saranno rimandati indietro. Di fatto, sembrerebbe delegare la decisione intorno ai requisiti per accedere alla protezione a un’autorità di polizia. Eppure “in nessun caso la polizia di frontiera è titolata a decidere se un migrante può o non può accedere alla protezione internazionale” ha sostenuto Paola Ottaviano di Borderline Sicilia, uno degli avvocati che ha contribuito maggiormente alla stesura del rapporto, che spiega: “questo compito spetta alle commissioni territoriali, appositamente istituite, le quali devono vagliare la storia della singola persona nel dettaglio”.

Invece, ciò che il sistema hotspot sta producendo è proprio lo slittamento della decisione sul profilo giuridico del migrante dalla sede che le sarebbe propria (cioè le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale) ai valichi di frontiera. È qui che si produce una situazione di evidente asimmetria informativa e di potere. Perché in questi casi, di fronte a soggetti particolarmente vulnerabili quali sono i migranti da poco sbarcati, l’esistenza di un diritto da solo non basta. Occorre che la persona sia pienamente consapevole di esserne titolare e messa nelle condizioni di esercitarlo. Accade, invece, che già nella fase di pre-registrazione vi siano evidenti falle in termini di tutela dei diritti individuali e di mancanza di un sistema di garanzie legali, anche minimo.

L’approccio hotspot funziona così: “i migranti vengono intervistati da un team composto da due esperti di Frontex, un mediatore culturale e un funzionario di Polizia che coordina il gruppo. Durante questa intervista, di solito della durata di pochi minuti, al migrante vengono poste alcune domande che gli intervistatori riportano nel cosiddetto foglio-notizie. È soprattutto il contesto in cui queste interviste avvengono che appare inadeguato. E le modalità cambiano da porto a porto. Ad esempio, dove è presente una struttura cui appoggiarsi (Lampedusa, Trapani, Pozzallo) le interviste avvengono normalmente all’interno della stessa. In caso contrario, capita molto frequentemente (a Catania o ad Augusta) che le operazioni di foto-segnalamento e pre-identificazione avvengano direttamente in banchina. In Italia sono attualmente attivi quattro “hotspot”: a Lampedusa, Trapani, Pozzallo e Taranto. Sono entrati ufficialmente in funzione tra settembre 2015 e febbraio 2016. Secondo Oxfam l’approccio hotspot si è rivelato fortemente lesivo dei diritti fondamentali delle persone sbarcate sulle nostre coste. Non solo. Si tratta di un sistema dalla cornice legale più che incerta, perché nessun atto normativo, né italiano né europeo, “disciplina quanto avviene all’interno dei centri, che in molti casi anzi contrasta in modo palese con quanto previsto dalla legge, in materia di protezione internazionale, ma anche di violazione della libertà personale”.

Qualche giorno fa, il sottosegretario agli interni Domenico Manzione ha rassicurato il Parlamento sul sistema hotspot, nonostante le evidenti lesioni dei diritti umani. Anzi, rispondendo all’interpellanza presentata dai deputati di Sinistra italiana, relativa alla situazione dell’hotspot per l’identificazione dei migranti situato nel porto di Taranto, operativo dal 17 Marzo 2016 e degli altri “punti caldi operativi”, il sottosegretario ha riconosciuto che “i migranti vengono trattenuti per il tempo necessario”. Ciò significa quello che è stato già riferito dai funzionari di polizia presenti all’interno dell’hotspot, ovvero che il fermo arriva ad estendersi anche a 72 ore, e oltre. Violando palesemente l’articolo 13 della Costituzione, fondamento del nostro ordinamento democratico, che vieta il prolungamento del fermo senza un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria.

Non soltanto. Inoltre, permangono i dubbi già evidenziati in passato sul rispetto dell’obbligo di informativa legale, come prevista dal decreto legislativo n. 142 del 2015. Il sistema produce differenziazione in base alla nazionalità, alla razza. Come spiegare altrimenti che le persone di origine marocchina vengono catalogate a parte come migranti economici e quindi non riescono ad entrare nel sistema di accoglienza e di protezione? Come spiegare che gli egiziani vengono immediatamente rimpatriati? È quanto accaduto il 10 aprile 2016, quando circa 250 migranti di nazionalità marocchina sono stati accompagnati alle porte dell’hotspot di Taranto e sono stati consegnati loro provvedimenti di respingimento alla frontiera.

Migranti marocchini che non avrebbero potuto fare altro che riversarsi nella stazione ferroviaria cittadina, abbandonati a loro stessi, senza denaro, senza sostegno di alcun tipo. Anche per questo occorre fermare l’approccio hotspot che si configura come un’ulteriore violazione dei diritti di uomini e donne che scappano dalla guerra, dalle torture, ma anche dalla fame, da condizioni di tipo economico che non garantiscono loro la sopravvivenza. Non lo dimentichiamo.