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Over the fortress a Idomeni. Ritorno incerto

Di Chiara Gutierrez Castellano, staffetta #overthefortress

Foto di Angelo Aprile

In volo vengo catapultata in quello che sembra un altro mondo,
fango misto a feci è il terreno su cui cammino, tende ricoperte di plastica sono le case di gente scappate dalla NOSTRA guerra.

L’insonnia mi accompagna più che mai, la testa mi si affolla di domande a cui la mia ignoranza non può dare risposta. Alle 6 e mezza di mattina mi alzo e comincio con le prime luci dell’alba ad osservare quello che la sera prima, appena arrivata, non riuscivo a guardare.

Incomincio da quello che ho sentito chiamarsi Hangar. Entro in questa zona un po’ in disparte dal resto del campo, un vecchio macello e una vecchia stalla sono le case più piccole, dove metà sono usate come bagno e l’altra per vivere. Nei giorni successivi sarò invitata a fumare una sigaretta e a mangiare una banana con un uomo che essendo lì da mesi si era ormai costruito con le coperte un posto accogliente. In questo avere niente ho trovato il dare tutto. Ma la sensazione più strana e meravigliosa l’ho avuta nell’ accettare, moderatamente, quello che mi veniva offerto per il semplice motivo che aveva un valore che dove vivo si è ormai dimenticato.

Nella stessa area dove si scaricava il bestiame, ora è un luogo riparato per varie famiglie che, in una tenda attaccata all’altra, si sostengono a vicenda e attendono: documenti, carte, cambiamenti..

Fra queste famiglie avrò l’onore di conoscere donne desiderose di poter avere anche loro il piacere di prendersi cura di se stesse e della loro bellezza grazie al progetto #overthefortress che le permetterà di avere più spazi adibiti alle loro esigenze. Durate i seguenti giorni parlerò varie volte con loro e mi fermerò ad ascoltare ciò di cui hanno bisogno per la loro bellezza. Tanto che durante uno dei molti incontri, mi mostreranno sulla mia pelle come fanno. Sarà divertente e in qualche modo mi permetterà di sentirmi già parte di un gruppo di donne.

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Proseguendo nella mia passeggiata mattutina torno verso l’info-tent che scoprirò essere sede d’incontro per una buona parte del campo e per i vari volontari. Chiacchierando scoprirò che con alcuni, quello che ci accomuna, malgrado siamo persone con caratteri differenti, è il fatto che ci sentiamo più a casa qui che altrove. Nel posto più triste troverò le risate più vere, in un posto così disumano troverò una grande umanità.
Nella tenda conoscerò un sacco di persone tra cui “Mani Grandi” un ragazzino che mi aiuterà ad imparare l’arabo e tanti altri con cui canterò, ballerò, e riderò. In modo particolare mi rimarrà impresso un bambino con cui passerò una mattinata intera a giocare e in poco tempo si aggiungeranno tanti altri piccoli sorrisi.

A questo punto mi avvio verso i tendoni bianchi di MSF e UNHCR, attraverso la ferrovia con i perenni pullman della polizia e passati altri tendoni mi trovo davanti ad una piccola scuola con l’insegna Cultural Center. Nei giorni successivi tutte le mattine andrò a dare una mano per le prime ore di gioco/ginnastica. I volontari che la gestiscono sono principalmente spagnoli, ma chi collabora veramente è la gente del campo stessa che insegna lingue come inglese, tedesco, kurdo, arabo e matematica e aiuta nelle traduzioni durante le varie attività. Proprio lì avrò la possibilità di rendermi conto di quanto questi bambini sono lasciati a loro stessi e quanto il loro futuro sia incerto a causa di una politica che non presta più attenzione agli esseri umani, ma al potere e ai soldi: COSE. Le merci sono diventate più importanti delle persone e tutte le volte che vedo la rotaie me lo ricorderò.
Concludo la mia passeggiata in fondo alla ferrovia vicino al bar dove gusterò dell’ottimo cibo e dove festeggerò matrimoni e fidanzamenti di gente del campo.

Quello che ancora non sapevo durante la mia passeggiata all’alba arrivata al campo lo so ora che sono tornata alla “realtà”. Tutte le mie sicurezze sono diventate incertezze, ma questo ritorno incerto mi da la libertà di poter iniziare a cambiare le cose.