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Over the fortress, Idomeni nuova linfa vitale

di Andrea Gabrieli, staffetta #overthefortress

Foto di Angelo Aprile

A Idomeni lo scorrere del tempo ha altri ritmi, difficilmente riesci a gestirlo. Non ci metti molto a capire che i tuoi orari, il tuo pianificare la giornata e le molte cose che ti sei prefissato di fare prima di partire hanno poco senso in questo angolo di Europa che in troppi vorrebbero nascondere. Ne perdi velocemente la cognizione vivendo giorno e notte al campo e condividendo i ritmi di 9000 persone che lo vivono da molte settimane, in tanti anche da interminabili mesi, aspettando che qualche cosa avvenga, qualsiasi cosa che non sia tornare indietro verso la Turchia e la Siria.

Arriviamo al campo con poche certezze, pur essendo per alcuni di noi già la seconda o la terza esperienza qui. Tra queste c’è il progetto NoBorder WiFi da gestire e mantenere efficiente e la questione dell’assistenza legale ai profughi che tutt’ora non hanno accesso ai propri diritti per fare la domanda di asilo e ricollocazione: le chiamate Skype, unico strumento per poterle fare, sono la più grossa farsa in questa storia già di per se assurda e vergognosa: mai una volta, da quando l’accordo UE-Turchia è in vigore, che dal campo si sia riusciti a contattare gli uffici governativi preposti con questo metodo.

Foto di Angelo Aprile
Foto di Angelo Aprile

Prendiamo quindi le misure del campo, cerchiamo di capire cosa è cambiato in un mese. La responsabile di UNHCR ci dà i numeri ufficiali e i volontari di MSF ci raccontano una realtà per certi versi assurda: servono più medici, loro li avrebbero, ma le autorità greche non danno il permesso perché un campo con troppi servizi attira troppi profughi.
La galassia delle Associazioni più o meno indipendenti e più libere di agire nel campo senza chiedere troppi permessi è composita: siamo piacevolmente colpiti dal lavoro dei Bomberos catalani (ambulatorio medico e spazio di igiene personale per i bambini più piccoli), l’ “Idomeni Cultural Centre” gestito da volontari indipendenti che offre scuola ai bambini la mattina e scuola di lingua (inglese e tedesco) per adulti al pomeriggio; collaboriamo sui progetti e ci rimbocchiamo le maniche con i volontari dell’Associazione italiana Hope for Children e ovviamente lavoriamo fianco a fianco con gli attivisti che fanno base a Mikro Dasos nella gestione dell’Info-tend. Senza dimenticare la mitica Chai Tend che dalle 10 del mattino fino a sera tardi offre ininterrottamente tè caldo a chiunque si metta in coda.
Capiamo al volo però che più ci allontaniamo dalle zone del campo gestite ufficialmente, minori sono i servizi essenziali per gli abitanti, in alcuni casi addirittura inesistenti. Da quando questo fazzoletto di terra di confine si è trasformato in campo profughi, ormai molti mesi fa, ci sono ancora emergenze enormi anche sotto il punto di vista igienico-sanitario. Anche qui, come nelle grandi città, c’è un centro dove si raccolgono i servizi e una periferia dimenticata…
Decidiamo quindi assieme ai compagni e alle compagne di questa mini carovana di #overthefortress (amici da Parma, Milano, Ancona, Parigi, Bolzano, Merano…) e agli amici di Hope for Children di istallare delle docce da campo, ancor più indispensabili ora che arriva la stagione calda.

Foto di Angelo Aprile
Foto di Angelo Aprile

Scegliere la collocazione delle docce non è cosa banale. Le diverse etnie e la cultura di chi vive al campo impone un’attenzione particolare. Diventa così indispensabile coinvolgere i diretti interessati nel localizzare l’area idonea per installare una doccia in modo tale che possa essere utilizzata da più persone possibili senza però creare attriti o tensioni. È un lungo lavoro di contatto, mediazione, fiducia reciproca. È anche occasione di confrontarsi con queste persone, ascoltare le loro storie, i loro sogni, le loro delusioni.

Foto di Angelo Aprile
Foto di Angelo Aprile

Ma sono le condizioni meteorologiche a dettare i ritmi e i programmi delle giornate. Già domenica, il giorno dopo il nostro arrivo, un violento temporale alle 3 del pomeriggio ha fermato qualsiasi attività e dopo 10 minuti tutto il campo era completamente allagato. Impossibile pensare di fare qualsiasi cosa se non scavare canalette per far in parte defluire l’acqua dalle zone più allagate e verificare le condizioni delle tende nelle parti del campo maggiormente colpite.
Passa comunque l’acqua e rimane il fango, tanto fango.
Un giorno di pausa e martedì abbiamo le condizioni peggiori: per 18 ore un vento impetuoso scuote il campo distruggendo centinaia di tende: passeremo la serata e parte della notte ad aiutare i volontari dello Shelter Team a sostituire e montare tende almeno alle famiglie con anziani e bambini in modo che nessuno di loro passi la notte all’aperto.

La vita al campo è scandita dalle lunghe code per il cibo, per l’acqua, per un cambio di vestiti o per una visita medica. Rigorosamente divise tra uomini e donne, queste lunghe code sono l’emblema della vita al campo, improntata sull’assistenzialismo più assoluto, ma che gli stessi migranti stanno cominciando a rifiutare e combattere. Chi può cerca modi diversi e più dignitosi di sussistenza cercando di rendersi attivi. Negli ultimi giorni si moltiplicano iniziative di microeconomia: chi vende falafel, panini o pollo fritto, rigorosamente fatti in tenda, chi piccoli accessori utili alla vita quotidiana del campo, chi fa il barbiere, chi vende caffè e uova, chi fa del traffico di sigarette dalla Macedonia il suo commercio. Se prima gli esosi commercianti greci avevano annusato l’affare e la facevano da padroni nei commerci al campo, ora c’è un’economia che cerca di reggersi su se stessa. I pochi soldi che circolano passano di mano tra i profughi stessi. E noi volontari contribuiamo volentieri a mantenere questa economia pranzando regolarmente e ottimamente a questi banchetti.

Foto di Angelo Aprile
Foto di Angelo Aprile

Fin da subito come #overthefortress abbiamo scelto di non incentrare il nostro intervento sul piano di aiuti umanitari, ma di portare strumenti idonei per far sì che le persone possono riprendersi la dignità della propria vita, abbandonata per forza sotto le bombe di Aleppo o nel Kurdistan martoriato, e persa definitivamente in questo posto assurdo dove l’Europa li ha impantanati. In ogni cosa che vogliamo mettere in piedi qui al campo, abbiamo come obiettivo finale che siano i profughi stessi a gestire in autonomia quanto fatto. Questo vale tanto per le docce che per la gestione della Info-tend o del progetto di spazio per le donne che i compagni presenti ora a Idomeni stanno finendo di realizzare in questi giorni: noi mettiamo badile, martello e chiodi, insieme costruiamo strutture e vi aiutiamo nell’avvio, poi ve la gestite al meglio nella vostra comunità. È questo un modello già utilizzato con successo da altre realtà più lungimiranti presenti al campo: al Cultural Centre, ad esempio, le insegnanti della scuola per bambini sono donne siriane che già al loro paese facevano questa attività.

I migranti ci aprono le loro tende con assoluta naturalezza, ci invitano a sederci sulle coperte e ci offrono tè oppure un dattero, o anche solo una banana che gli è costata un’ora di coda. E ci chiedono di ascoltare i loro racconti di profughi, di viaggi interminabili, di case bombardate. Ma anche di figli o genitori che li aspettano in nord Europa, di sogni che si stanno infrangendo sulla rete di filo spinato, di professioni e capacità che aspettano solo di essere riutilizzate. Ci chiedono di fotografarli, di parlare di loro in Italia, in Europa. Ci usano, e noi siamo volutamente qui per questo, come amplificatore del loro dramma, sperano che l’Europa ascolti almeno i propri cittadini che vengono a spendersi da queste parti.
Il giorno del bombardamento dell’ospedale di MSF a Aleppo c’è aria pesante al campo. Il bimbo martoriato che mi mostrano in foto poteva essere uno delle migliaia che sono qui al campo. E ci dicono che quello è l’ennesimo segnale che loro in Siria non vogliono e non possono tornare.
La gente al campo è disorientata. A fatica hanno capito che il confine macedone non verrà mai aperto e sono continuamente pressati dalle autorità di polizia per trasferirsi ai campi militarizzati. Per più giorni vengono distribuiti volantini in questo senso.
Per fortuna ancora in pochi abboccano ma sempre con maggior frequenza vengono da noi europei a chiedere consiglio sul che fare. È la domanda che non vorremmo ci fosse mai posta perché ad oggi non abbiamo risposte da dare. Tutte le possibili soluzioni sono contro di loro: campi militarizzati e rientro in Turchia, affidarsi ai trafficanti e tentare di proseguire il viaggio, rimanere a Idomeni senza al momento nessuna prospettiva….
E i migranti continuano a non capire perché in queste condizioni l’Europa chiuda loro la porta in faccia, respingendoli a manganellate e col filo spinato; e a chiederci di fare di tutto perché l’Europa riapra quella porta.