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Il supporto dei volontari nei campi informali greci è fondamentale

Un racconto di Chiara Cosentino appena rientrata dal nord della Grecia

Sono partita per la Grecia a inizio Giugno, subito dopo che il grande campo di Idomeni era stato sgomberato, dopo tutta l’attenzione mediatica, quello che si è presentato ai miei occhi è stato al di fuori di ogni aspettativa. Arrivata a Salonicco vado alla stazione dei bus e mi accorgo di una ventina di bambini che dormono insieme alle loro madri a terra, su alcuni sacco a pelo, vicino al bar. Giocano tra un autobus e un altro, sono piccoli con grandi sorrisi, la madre di uno di loro mi dice che il marito è in Belgio è che un giorno lei lo raggiungerà. Gioco un po’ con loro, in quello spazio surreale, mentre le persone partono e vengono. Prendo anche io l’autobus per Polycastro, che dista a un’ora di Salonicco, a 20 minuti di macchina dal confine Macedone.

Il paese è immerso nelle campagne e il turismo è praticamente nullo e al momento l’economia si sta muovendo grazie al continuo via e vai di volontari. Appena arrivo una macchina di altre volontarie mi viene a prendere e mi porta ad Hara camp, un campo profughi all’interno di una stazione di servizio sull’autostrada. All’incirca 900 tende sono sull’asfalto e altre su terreni, altre sono intorno alla foresta.
Gli abitanti sono misti: siriani, afghani, iracheni, pakistani, congolesi. Ci sono una ventina di bagni chimici posizionati e il bar dell’autoservizio è aperto 24 h, all’interno è stato allestito un mini supermercato e il ristorante si è adeguato alla cucina araba. I bambini che vivono ad Hara sono tantissimi, per questo il primario bisogno è di volontari al “baby hammam”, non ci sono docce gratuite nel campo, le uniche docce sono all’interno dell’aerea di servizio e costano 7 euro, c’è un fiume vicino, dove si lavano gli uomini. Le donne non hanno uno spazio, un “hammam” per loro. I bambini sono quelli che vanno più curati, sono i primi che si possono prendere le infezioni.
Al mattino vengono consegnati dei biglietti per farsi il bagnetto. Io il primo giorno intrattengo i bambini che sono in fila, giocando. Il sole è caldo, non c’è ombra, loro continuano a sorridere e non vedono l’ora di entrare nelle vaschette e lavarsi. Le madri arrivano, ci ringrazio, ci guardano con quegli occhi pieni di gioia per il bellissimo gesto che stiamo facendo ai loro bimbi, li laviamo, li riempiamo di crema solare, antipuntura e in certi casi gli facciamo dei piccoli bendaggi su alcune ferite, gli mettiamo dei vestiti puliti e gli diamo una borsa con del latte, frutta e verdura e qualche cambio.
Penso a come deve essere difficile, non poter scegliere i propri vestiti per i propri figli, vederseli arrivare con degli abiti che forse tu madre non avresti mai scelto, come volontari cerchiamo di rispettare il fatto che le bambine di una certa età non possono andare con le canottiere e che i maschi devono avere dei pantaloni non troppo corti. Cerchiamo, a volte non ci riusciamo, perché i vestiti che abbiamo sono quelli che ci hanno donato. I bambini escono tutti profumati e sorridenti, con i capelli luminosi e gli occhi pieni di gioia, mi abbracciano e io sono felice di avere quegli abbracci.

Alla sera mi portano a Eko camp, sempre una stazione di servizio, lì le persone che ci abitano sono circa 2000. A differenza di Hara, Eko è molto strutturato, i volontari di Idomeni sono (quasi) tutti lì. Ci sono tantissimi bagni e lavandini. Le tende sono di UNHCR e c’è anche Medici senza frontiere all’interno del campo. È un campo informale molto grande con tutti i servizi necessari, c’è la scuola per i bambini, il punto legale, diversi negozi, la cucina, l’area animazione, la radio gestita da attivisti italiani di overthefortress, l’etnia prevalente è quella siriana, ma ci sono alcune minoranze. Grazie al lavoro dei volontari, la vita in questo campo è scandita da una serie di attività, dall’animazione ai balli, persino al cinema serale. Questo campo si trova a 40 minuti a piedi dal campo governativo e quello che mi ha lasciato senza parole sono state le centinaia di persone che si muovono dal campo governativo a quello non formale, passando dalla campagna.

Il motivo è semplice: nei campi governativi il cibo è totalmente lontano dalla cucina araba a cui loro sono abituati, invece nel campo di Eko ci sono persone che cucinano il pane arabo; i bambini nei campi governativi non possono giocare e non c’è una scuola, invece nei campi informali si. Le persone mi dicono che i bagni sono pessimi nei campi governativi, Eko invece è più pulito.

E così ogni giorno alcune famiglie si fanno una passeggiata, per poter usufruire di servizi che sono attivi grazie all’aiuto costante di volontari e di collette di crowdfunding. I volontari vengono da ogni parte di Europa: tantissimi spagnoli, italiani e tedeschi. Eko a differenza di Hara è ben organizzato, sembra essere una piccola Idomeni, molti dei rifugiati e dei volontari arrivano da lì.
Concerti, attività ogni giorno, scandiscono la routine dell’attesa. Molti alla sera partono, ci provano a superare il confine, alcuni li vedo il giorno dopo, altri no, quindi sono certa che ci sono riusciti. Spero solo che non si siano messi in mezzo a qualche giro della mafia. Ogni sera davanti ai campi sia di Hara che di Eko c’è la presenza dei taxi, sono per chi vuole provare a superare il confine, pagando tantissimi soldi e con il dubbio di riuscire a superare.

Il penultimo giorno sono nel baby hammam di Hara, mi arriva un ragazzo di 13 anni, il suo piede è malconcio ed è pieno di graffi sulle braccia, mi dice che è rimasto attaccato ad un tir, per superare il confine, non c’è riuscito, le braccia gli erano crollate, mi ha chiesto se il piede si sarebbe sistemato, perché lui in quel campo non ci voleva rimanere altro tempo, voleva arrivare in Germania il prima possibile. Io non so se ci sia riuscito, spero tanto di sì. Il mattino seguente, la polizia con gli autobus arriva al campo di Hara, fanno salire le prime 100 famiglie, per portarli nei campi governativi. È iniziato lo sgombero del campo, intanto nella notte, alcune famiglie si mettono in moto, verso Eko, verso altri campi non formali, perché non vogliono rimanere in attesa nei campi governativi, altri salgono sui taxi, altri attraversano i boschi per superare l’ostacolo frontiera e altri ancora arriveranno via mare con le barche perché in Siria non possono più stare. A Eko c’è un televisore che è sempre collegato con la tv araba, ogni minuto solo notizie di esplosioni, di battaglie e di morte. La gente sta scappando dalla guerra, la gente vuole vivere e chiede un momento per godere della dignità di una vita. Ho sentito tante storie diverse, ognuna ha solo un filo conduttore, il coraggio di opporsi a una vita in cui sangue, dolore e violenza ogni giorno facevano parte della quotidianità. Sono ripartita con il sorriso dei bimbi nel cuore, con gli occhi di quelle madri impressi nella mia mente e con l’inizio del ramadan nel campo di Eko, dove alle 23.00 di sera invece di iniziare la preghiera, abbiamo ballato sotto la pioggia.
Anche se Idomeni non c’è più, in Grecia rimangono tantissimi campi non formali e l’aiuto dei volontari è fondamentale. Non servono particolari capacità, serve cuore e spirito di adattabilità. Ogni persona è preziosa per rendere più vivibile la vita di questi esseri umani, dimenticati dagli stati e vittime di una guerra che gli stati europei hanno iniziato anni fa.