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Racconto dal campo governativo di Diavata in Grecia

di Giulia Giavazzi e Antonio Schiano

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31 maggio 2016 – Arriviamo al campo governativo di Diavata intorno alle 11.00.
La situazione che ci si presenta davanti è di apparente calma.
Il primo problema che ci poniamo è quello di come poter riuscire ad entrare, dal momento che senza un permesso non è possibile accedervi. Dopo aver tentato la via diplomatica con la polizia e aver completamente fallito, ci guardiamo intorno nella speranza che accada qualcosa o meglio, che arrivi qualcuno per poter fare un’intervista improvvisata e raccogliere informazioni.

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Mentre perlustriamo con falsa indifferenza il perimetro del campo – recintato con rete metallica e filo spinato – incontriamo un ragazzino che ci suggerisce di andare dalla parte opposta del campo: lì non c’è recinzione e la polizia non passa mai. Il ragazzino ci incita a seguirlo, ma noi ancora titubanti nel prendere una decisione, lo ringraziamo e continuiamo il nostro giro dall’esterno. Un attimo dopo veniamo letteralmente travolti da un gruppo di bambini che, uno dopo l’altro, sgattaiolano fuori dalla rete.
Dopo le consuete presentazioni in un misto tra arabo, inglese e un improvvisato linguaggio dei segni, iniziano a mostrarci il cibo del giorno prima dentro una ciotola e – arricciando il naso – urlano: <>. Poi sollevano da terra un telo di plastica e con un gioco simile a quello dei mimi ci fanno intendere che alcuni di loro dormono proprio su quel telo: <>. Ci abbracciano. Siamo al nostro terzo giorno di permanenza nei campi, ma alle dimostrazioni di affetto incondizionato non siamo ancora abituati. Così, con la speranza che la fervida immaginazione dei ragazzini si sia spinta un po’ troppo in là nella descrizione della realtà, continuiamo la perlustrazione della zona. Camminando attorno al campo, troviamo un punto in cui la recinzione sembra terminare tanto che l’accesso pare quasi libero; ci guardiamo intorno.
Un passo sei dentro, un passo sei fuori.
Un signore dall’aspetto severo, seduto nell’ombra di un bucato steso, ci intima di entrare mostrandoci un sorriso che ci fa cambiare subito idea sul suo conto. L’accoglienza è delle migliori, come sempre.

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Da una delle prime tende davanti a noi esce un ragazzino, (lo stesso che ci aveva dato le indicazioni per evadere la sicurezza) ci sorride come per dirci “ve l’avevo detto” e ci invita a entrare nella sua tenda. Appesa al muro, di quella che ormai è la sua nuova casa, è visibile una cartina disegnata a mano della striscia di Gaza, di fianco, un’artigianale bandiera palestinese dà un tono di colore allo spazio adibito a salotto. Ci offrono subito caffè e sigaretta, come nelle migliori tradizioni.
Rabea ci presenta tutta la sua famiglia: madre, padre, sorelle e cugine, poi la famiglia allargata, costituita dal vicinato in prevalenza proveniente dalla Siria. Non hanno bisogno di sapere chi siamo noi, né da dove veniamo per iniziare a raccontarsi. Iniziano con il parlarci della situazione nel campo (infondo noi siamo lì per sapere esattamente quello). A farci da traduttore è proprio lui, Rabea, 13 anni e perfettamente bilingue. Ci dicono che ogni giorno mangiano maccheroni dello stesso colore del tappeto – che, per dover di cronaca, è verde! – che le docce sono rotte e che l’acqua calda è inesistente. I bagni non sono divisi per sesso, c’è un letto ogni due persone (almeno nel loro caso) e non viene fatta nessuna distribuzione di vestiti. Niente scuola, nessuna attività da poter svolgere durante la giornata per far passare più rapidamente il tempo; un tempo che sembra infinito ed è scandito solamente dall’ora di distribuzione dei pasti. Coloro che se lo possono permettere – quando escono dal campo – vanno nei dintorni per comprare un po’ di cibo decente e magari qualche nuovo vestito.

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Si passa da un argomento all’altro, senza bene sapere come, così accade che la traduzione non riesca più a stare al passo con il flusso delle parole, ma inspiegabilmente continuiamo a capirci e ridiamo insieme come se stessimo parlando la stessa lingua.
Kamal, il padre di famiglia, ci racconta delle rivolte a Ramallah nel 2001, di Arafat, di Obama e della Merkel, di ciò che per lui è “good” e di quello che è “no good”. L’Italia viene promossa (strano, sarà mica perché ci siamo lì noi?).
Arriva il momento dei racconti dei vicini. Siamo circondati da ingegneri e insegnanti, inutile dire che il pensiero “potremmo esserci noi qui” ci sfiora parecchie volte. Ed ecco che arriva, inevitabilmente, il momento dei ricordi. Ci fanno vedere vecchie foto e ci parlano di vecchie ferite presenti sulla loro pelle e non solo. Uno di noi mostra a Kamal le foto dell’esperienza fatta in Palestina poco tempo prima: Betlemme, le vallate al confine con la Giordania e per un istante gli occhi di Kamal si inumidiscono, ma quell’accenno di dolore dura solo un attimo, la vita al campo lo richiama alla realtà; non è ancora il tempo di elaborare il lutto, di qualunque natura esso sia.
Nella tenda torniamo tutti a sorridere, i bambini guardano ridendo i nostri tatuaggi. Ne vogliono uno anche loro. Li pitturiamo con fiori e serpenti.
Sono le 14.00 e il pranzo sta per essere servito. Ci chiedono di restare, ma noi dobbiamo rientrare. Ci scambiamo i contatti e ci abbracciamo. Sono tante le cose che vorremmo dir loro prima di andarcene, ma restano tutte bloccate da un groppo alla gola, frutto di un misto di emozioni che non ci sentiamo di esternare.
<>.
Un passo sei dentro, un passo sei fuori.
Ma questo, purtroppo, vale solo per noi…