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“Se noi ce ne andiamo, quanti di loro moriranno?”

Fanny Carrier, Agence France-Presse - 8 giugno 2016

Foto: (AFP / Gabriel Bouys)

A bordo dell’Acquarius nelle acque del Mediterraneo – L’Acquarius ha un appuntamento. Non sappiamo esattamente con chi, o quando, ma abbiamo una vaga idea del dove. Un lungo tratto di mare lungo la costa libica.

In una vita precedente, questa grossa barca arancione lavorava per la guardia costiera tedesca. In seguito, è stata utilizzata per il mercato di estrazione del petrolio, navigando l’oceano in lungo e in largo dalla Nigeria all’Artico. Tuttavia, da febbraio, è stata utilizzata da un’organizzazione non governativa, SOS Mediterranee, per un obiettivo molto diverso: salvare vite. Fa parte di una piccola flotta di imbarcazioni a scopo umanitario che operano nel Mar Mediterraneo mentre leggi questo articolo, salvando migliaia di migranti che lasciano le coste della Libia a bordo di gommoni nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Dopo aver lasciato Trapani, il suo porto di scalo nel nord-ovest della Sicilia, l’imbarcazione ha lentamente circumnavigato l’isola prima di dirigersi verso Tripoli. Questa notte, i passeggeri di Acquarius possono essere perdonati per aver dimenticato l’obiettivo principale del viaggio. Il capitano ha organizzato un barbeque in coperta, mettendo alla griglia il cuoco filippino, mentre i marinai ghanesi si occupano dell’impianto stereo e il sole colora d’oro il cielo e le onde.

Abbiamo preso confidenza con i tre gruppi a bordo con i quali condivideremo questa imbarcazione per il prossimo futuro. Ci sono sei soccorritori da SOS Mediterranee, il cui compito è quello di salvare i migranti dall’acqua; altri sei membri di Medici Senza Frontiere (MSF) incaricati della prima assistenza a bordo, e all’incirca una dozzina di membri dell’equipaggio che si occupano dell’imbarcazione stessa.

Il primo gruppo consta di volontari con una certa familiarità del mare, ma senza esperienza diretta nelle operazioni di salvataggio: un ex-capitano diventato consulente, un capitano attualmente in vacanza, un giovane della marina mercantile in pausa tra un viaggio e l’altro, e un istruttore di sub con diversi mesi alle spalle passati sull’isola greca di Lesbo, dove ha assistito all’arrivo di migliaia di migranti nel corso dell’anno passato.

Il gruppo di MSF è totalmente l’opposto: molti di loro non hanno mai messo piede su una nave, ma hanno visto la miseria in ogni angolo della terra, dal Nepal, al Sud Sudan, passando per i Paesi affetti dall’ebola.

E infine, c’è l’equipaggio: i ghanesi sempre di buon umore, russi e ucraini riservati, un greco preoccupato che tutti questi novizi a bordo non si curino di mettere il caschetto e le scarpe sul ponte della nave. L’equipaggio è stato assunto assieme all’imbarcazione, senza aver scelto di salvare i migranti come propria missione.

Nonostante prestare aiuto ad una imbarcazione in pericolo in mare costituisca un obbligo legale a morale, i giganti della marina mercantile sono soliti aiutare i migranti naufraghi con riluttanza. Le loro imbarcazioni sono raramente equipaggiate per il salvataggio di gommoni: prestare aiuto costituisce una perdita di tempo, e quindi di denaro, per la compagnia, e i marinai sono sospettosi circa i migranti e i problemi di salute che potrebbero portare a bordo. Queste ansie dell’equipaggio, che in alcune imbarcazioni si trasformano in una palese ostilità, hanno rappresentato uno dei principali ostacoli a bordo delle imbarcazioni a scopo umanitario. Fortunatamente, la situazione sull’Acquarius è differente.

Foto: (AFP / Gabriel Bouys)
Foto: (AFP / Gabriel Bouys)

La mattina seguente salgo in coperta per parlare col capitano, Alexander Moroz, un bielorusso di 45 anni con un freddo senso dell’umorismo. Il capitano Alex lavora in mare dall’età di 15 anni e ora lavora per Kempel, la compagnia proprietaria di Acquarius, dal 2009. Ogni anno alterna due o tre mesi in mare e due o tre mesi nella sua casa a circa 80 km dalla capitale Minsk, dove la moglie gestisce un’attività e il figlio sta finendo di studiare architettura. Differentemente dal resto dell’equipaggio, Alex si è offerto volontario per questa missione. “Forse era l’ora di fare qualcosa di buono”, mi ha confessato col suo inglese dal forte accento russo.

Mentre parliamo, le varie radio che collegano le numerose imbarcazioni di soccorso cominciano a gracchiare le notizie della giornata. Una barca salpata dall’Egitto con all’incirca 500 persone a bordo è stata avvistata a sud della Puglia, il tacco dello stivale italiano. A ovest di Tripoli, il Bourbon Argos, una barca utilizzata da MSF, sta aiutando un vascello militare irlandese a salvare un peschereccio con qualche centinaio di migranti a bordo. A est di Tripoli, il Dignity, un’altra imbarcazione ad uso di MSF, sta imbarcando passeggeri da tre sovraffollatissimi gommoni. Venti minuti più tardi, la guardia costiera italiana, che dall’ufficio di Roma coordina le missioni di salvataggio in questa zona, si aggiunge al gruppo: quattro gommoni sono stati avvistati a nord di Tripoli. Un’ora più tardi, il capitano del Bourbon Argos si fa risentire: stanno salvando un’altro gommone, mentre ne hanno già avvistati altri tre. Alla fine della giornata, la guardia costiera stima che attorno ai 2.000 migranti sono stati salvati dai diversi vascelli che pattugliano l’area.

Benvenuti nel Mediterraneo nel 2016.

L’Acquarius ha ancora 12 ore di navigazione prima di raggiungere l’area in cui effettuare le operazioni di soccorso. I gruppi a bordo, molti dei quali hanno cominciato un turno a rotazione di tre settimane, passano il tempo preparandosi a cosa li aspetta e familiarizzando con la nave. Nel pomeriggio, l’imbarcazione si ferma in modo che tutti possano partecipare ad un’esercitazione di un’operazione di salvataggio, che comprende la discesa in mare di due gommoni da usare durante il salvataggio. Il primo serve a trasportare i migranti a bordo dell’Acquarius, mentre il secondo rimane accanto ai rifugiati per cercare di mantenere la calma in attesa che venga il loro turno.

Foto: Captain Alex (AFP / Gabriel Bouys)
Foto: Captain Alex (AFP / Gabriel Bouys)

È sempre un duro lavoro. I migranti spesso iniziano il loro viaggio la notte, per essere strappati al mare il giorno seguente, dopo circa 8-10 ore passate in mare. Tuttavia, già fortemente provati dalle condizioni di vita in Libia, fradici, infreddoliti, disidratati, nauseati dalle onde, e soffocati dai fumi di scarico del motore, talvolta bruciati dal combustibile, non tutti riescono a sopravvivere fino a questo punto. Aggiungete a questo il panico che molti provano nei confronti del mare. “Molti di loro non sanno nuotare. Il mare è come lava per loro. Quelli che cadono in acqua non sopravvivono”, mi spiega Antoine, uno dei soccorritori a bordo.

Sono tutti stressati durante l’esercitazione, a causa della difficoltà nel comunicare. Dopo svariate ore, i gommoni vengono issati a bordo e continuiamo a navigare, tutti con le dita incrociate che tutto vada bene domani, durante il salvataggio vero e proprio.

Mentre cala la notte e ci avviciniamo sempre di più a una Libia devastata dalla guerra, l’equipaggio chiude tutti gli accessi al ponte secondo il protocollo di sicurezza. Poche settimane fa, un uomo armato ha abbordato una nave in uso ad una organizzazione non governativa tedesca che stava pattugliando e aiutando nelle operazioni di salvataggio in questa zona. L’uomo se n’è andato senza attaccare nessuno, ma da allora tutte le imbarcazioni di soccorso hanno aumentato le misure di sicurezza. Inoltre, è stato stabilito che ogni operazione di salvataggio debba essere affiancata da una scorta militare entro le 20 miglia nautiche dalle coste libiche.

Foto: Antoine Laurent, one of the SOS Mediterranee rescuers. (AFP / Gabriel Bouys)
Foto: Antoine Laurent, one of the SOS Mediterranee rescuers. (AFP / Gabriel Bouys)



Ci sono parecchi vascelli militari in queste acque: l’operazione italiana Mare Sicuro, incaricata di assicurare l’incolumità di pescatori, soccorritori e piattaforme petrolifere nell’area; l’operazione Sophia dell’UE, che ha finora tentato invano di contrastare i trafficanti di uomini; e l’operazione Triton di Frontex, l’agenzia per la salvaguardia dei confini dell’UE. Assieme, queste operazioni contano una dozzina di navi e barche, assieme a elicotteri e aeroplani di ricognizione.

È assolutamente vietato avvicinarsi più di 12 miglia nautiche alle coste libiche. Il capitano Alex mi racconta di un giorno in cui l’Acquarius aveva avvistato un gommone di migranti in pericolo dall’altra parte di questa linea immaginaria. L’Acquarius e altre imbarcazioni a scopo umanitario non potevano avvicinarsi e avevano dovuto assistere impotenti ai svariati pescherecci libici che passavano senza prestare aiuto. Finalmente un’autobotte con il permesso di navigare nelle acque territoriali libiche, ha salvato i migranti dalla loro imbarcazione e si è diretto verso le acque internazionali per trasferirli su una nave militare italiana.

Quella notte, ho fatto fatica ad addormentarmi. Ho guardato dinnanzi a noi, nell’oscurità, verso la Libia. “Lì, in questo stesso momento, i trafficanti di uomini stanno portando delle persone che hanno pagato loro un sacco di soldi verso la costa, per poi caricarli su gommoni che sono spesso meno solidi dei gommoni da spiaggia, e spingerli verso il mare aperto, nell’oscurità.”

Foto: (AFP / Gabriel Bouys)
Foto: (AFP / Gabriel Bouys)

Vorrei sapere se queste persone avrebbero il coraggio di salpare se non fossero quasi certe di essere salvate da imbarcazioni come la nostra. E se l’Acquarius fosse in qualche modo un complice dei trafficanti? Poco importa: l’anno scorso il numero di migranti che intraprendevano il viaggio in mare era altrettanto alto, nonostante non ci fossero imbarcazioni di salvataggio pronti ad accoglierli in mare aperto.

Prima che queste acque fossero costellate di navi di salvataggio, le imbarcazioni con a bordo i migranti erano meno cariche di come lo sono adesso. Solitamente, venivano imbarcati anche acqua, cibo e combustibile con l’obiettivo di raggiungere la Sicilia o qualsiasi altra isola italiana lungo il tragitto. Oggi, il loro obiettivo è di raggiungere le acque internazionali e chiamare aiuto, così che i trafficanti non devono preoccuparsi dei rifornimenti e possono utilizzare lo spazio lasciato vuoto per infilarci più persone possibile.

Secondo il capitano Alex, è una questione controversa. “La vera domanda è: se noi non andiamo, quanti di loro moriranno”, dice.

Continua…

Foto: (AFP / Gabriel Bouys)
Foto: (AFP / Gabriel Bouys)