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Abbiamo un maschietto!

Fanny Carrier, Agence France-Presse - 10 giugno 2016

(AFP / Gabriel Bouys)

Nel mese di maggio, Fanny Carrier, vice-capo redattore di AFP a Roma, ha trascorso una settimana a bordo dell’Aquarius, una nave della piccola flotta che salva i migranti lungo tutta la costa libica. Questa è la terza e ultima parte della sua serie di reportage sul suo viaggio.

A bordo dell’Aquarius nel Mediterraneo – Mi sveglio ancora una volta con il sole. Angelina, l’ostetrica, è sveglia già da po’ – durante la notte, una donna incinta di otto mesi ha avuto delle contrazioni. Sul ponte l’umore è cambiato radicalmente. Dopo aver dormito, i migranti sono molto più allegri. I bambini giocano, alcune coppie si scambiano delle coccole. La maggior parte ha indossa le tute bianche di salvataggio sopra i vestiti. Altri hanno buttato via i vestiti, molti sporchi di vomito, avvolgendosi le coperte intorno alla vita e gli asciugamani intorno alla testa.
(AFP / Gabriel Bouys)
Alcuni fissano il mare, affascinati. Ad un certo punto, un’isola appare all’orizzonte. Molti di loro mi chiedono “È quella? È l’Italia?”. La geografia non è il mio forte, perciò non ho idea di cosa dire. In seguito il capitano mi dirà il nome dell’isola, un nome che tutti conosciamo fin troppo bene – Lampedusa. Quest’isola italiana, la più vicina alla costa africana, è stata per lungo tempo la porta d’ingresso in Europa dei migranti, prima che una serie di tragici naufragi spingesse le squadre di salvataggio a intercettare i profughi più a sud.

Per noi giornalisti, questa lunga navigazione fino in Sardegna è un dono – abbiamo tutto il tempo di parlare con i migranti. Molti di loro hanno voglia di parlare, di raccontare la propria storia. Parlano di violenza e miseria, di viaggi pericolosi per scappare da questa miseria e dei mesi, e talvolta anni, spesi cercando di guadagnarsi da vivere in Libia.
Non si può mai essere sicuri che dicano tutta la verità. Ad esempio quando Victoire, 35 anni, incinta di sei mesi, mi dice che suo marito ha dovuto scappare dal Camerun dopo aver “accidentalmente” ucciso un vicino che aveva stuprato la maggiore dei loro figli, la loro figlia tredicenne. Mi dice che ha scelto di partire con lui per “affrontare insieme le difficoltà”.

Mentre le parlo, suo marito arriva e la bacia dolcemente. Sono davvero una coppia affiatata e innamorata, oppure si tratta di un uomo che ha costretto la moglie incinta a seguirlo, abbandonando i quattro figli, tra cui la bambina che è stata stuprata, perché il padre di un bambino nato in Europa ha più probabilità di ottenere l’asilo che non un uomo solo? Fortunatamente, non sta a me decidere. Ma la stua testimonianza non compare nella mia storia.
(AFP / Gabriel Bouys)
C’è una cosa su cui tutti i migranti concordano – l’inferno che era la vita in Libia. “Lì, non eravamo uomini”. “La Libia è rapimenti, prigione, rapimenti”. “Ci picchiavano ogni giorno, picchiavano le nostre mogli davanti ai nostri occhi”. “Stuprano le donne, sodomizzano gli uomini, uccidono senza motivo”. “Persino i bambini girano armati e sparano alle persone nere”. “Scrivi della vita in Libia? Se l’avessi saputo, non me ne sarei mai andato”. “La Libia è un viaggio senza ritorno. Una volta entrato, non puoi andartene normalmente. Non hai altra scelta che finire in mare – o l’Europa o la morte”.

Mi assicurano di essere stati solamente testimoni di tali violenze. Con MSF sono più collaborativi. Erna, la dottoressa olandese, una volta mi ha detto: “È uno di quei giorni in cui qualcuno viene a farsi visitare per la tosse e si toglie la maglietta, e tu vedi tutte le cicatrici delle torture che hanno subito, e ti accorgi che hanno delle ossa rotte, e loro ti raccontano tutte queste storie spaventose”.

Sai qualcosa di quello che ci succederà adesso?”, mi chiede una giovane donna.
Sì, so perfettamente cosa le succederà, ma non glielo dico. Quelli che vengono da paesi come Eritrea, Sudan, Sud Sudan o Somalia dovrebbero ottenere asilo facilmente in Italia, anche se in generale non è il paese in cui vorrebbero rimanere. Alcuni aspetteranno un anno e mezzo o due per ottenere i documenti e aggiungersi alle fila di migranti che raccolgono pomodori o arance per un salario misero. Nei miei viaggi di lavoro in Sicilia e a Roma, ho incontrato migranti in punti diversi di questo percorso ed è triste pensare che lei stia per infilarcisi.
(AFP / Gabriel Bouys)

Nel tardo pomeriggio, mentre sto finendo il mio resoconto della giornata, il capitano Alex corre sul ponte sorridendo e rosso per l’emozione. “Abbiamo un maschietto! Mi sento come se fossi io il padre”, esulta.
(AFP / Gabriel Bouys)
Più tardi, dopo che madre e figlio hanno riposato un po’, ci invitano a scattare una foto dei genitori e di Destiny Alex, come è stato chiamato il bambino in onore del capitano, che freme di gioia. A quel punto il padre esce sul ponte per dare la notizia agli altri migranti. Parte un giro di calorosi applausi. Persino gli eritrei, i sudanesi e i somali che siedono lontani e, non parlando inglese né francese, hanno bisogno di spiegazioni sulle cause di tutta quella commozione, accolgono la notizia con gioia.
(AFP / Gabriel Bouys)
Stavolta, le buone notizie sono due – Erna arriva di corsa, annunciando di aver appena ricevuto un’email che dice che Zega, un bambino evacuato con l’elicottero il giorno prima, sembra essere fuori pericolo. Jens dà la notizia alla radio ed è come se l’Aquarius sia stato sommerso da un’ondata di sollievo e gioia.
(AFP / Gabriel Bouys)
Quella sera, il capitano mi chiede di tradurre per i genitori del piccolo Alex. Il grande Alex vuole dare loro 100 euro da parte della casa madre dell’Aquarius, Kempel, e di SOS Mediterranee, oltre al certificato di nascita del bambino, con la posizione esatta della sua nascita. Poiché l’Aquarius naviga sotto la bandiera di Gibilterra, ufficialmente il piccolo Alex è nato su suolo britannico. Sfortunatamente, però, questo non gli garantirà la cittadinanza – perché ciò accada, uno dei suoi genitori dev’essere almeno residente.

Nella mensa, l’umore è più tetro. Diversi soccorritori osservano le immagini scattate dalla marina militare italiana di una barca piena di migranti che affonda. Tra qualche giorno potrebbero essere testimoni della stessa cosa e sanno di non essere preparati. “La priorità è distribuire giubbotti di salvataggio e aspettare i rinforzi prima di fare alcunché”, mi dice uno di loro.
(AFP / Marina Militare)
Una barca stracolma di migranti affonda al largo della costa libica il 25 maggio 2016, registrata dalle fotografie scattate dalla marina militare italiana, coinvolta nelle operazioni di soccorso.
Poco dopo, un altro soccorritore scende sottocoperta, stanco. Sul ponte, la prospettiva di passare un’altra notte all’aperto ha inasprito gli animi e non ha aiutato a evitare litigi. “È sempre così. La prima notte passa via liscia, ma dalla seconda in poi, è dura”, dice.
(AFP / Gabriel Bouys)
La mattina seguente, la costa della Sardegna appare all’orizzonte. Tutti gli occhi sono puntati su questa terra di cui la maggior parte di loro non ha mai sentito parlare e di cui qualcuno non si fida. “Scusa, puoi dirmi cosa devo fare per andarmene da qui?”, mi chiede Turbine, la cugina della madre di Zega, indicando il disegno dell’isola che ho tracciato per spiegarle dove stanno andando e dove si trovano Zega e sua madre.
La Sardegna è una regione che accoglie i migranti, ma è molto povera e non ha molto da offrire loro, e a volte sembra una prigione – a differenza dei migranti in Sicilia, non possono lasciare l’isola senza autorizzazione.
L’arrivo in Sardegna. (AFP / Gabriel Bouys)
Mentre la barca si prepara ad attraccare, parte una festa nella stanza delle donne. Ridono, cantano e ballano, dandosi il turno al centro di un cerchio. Persino io, cosa che provoca risate in tutti i presenti. Esito, ma poi pubblico su Twitter un estratto del video. Come previsto, il mio post provoca un torrente di reazioni sulla falsariga di “stanno festeggiando perché hanno ottenuto i sussidi familiari (francesi)”. È inutile cercare di spiegare a queste persone che, per tutto il viaggio, la questione dei sussidi non è mai venuta fuori, come nemmeno l’idea di andare a vivere in Francia, anche se molti di loro parlano francese.
(AFP / Gabriel Bouys)
A riva li aspettano le solite procedure – una fotografia con un numero mentre scendono dalla nave; una visita medica per verificare la presenza di pidocchi o scabbia ed eventuale trattamento; un primo colloquio identificativo e quindi una corriera fino al centro di accoglienza temporanea. Tutto questo può richiedere ore, ma la Croce Rossa ha sistemato delle panchine all’ombra, e ha portato bevande, cibo, gabinetti.
Il protocollo sanitario prevede che tutte le persone che sono entrate in contatto diretto con i migranti indossino una tuta di protezione, guanti e maschera, per prevenire la diffusione di eventuali malattie contagiose che possono aver contratto. Anche ai migranti è richiesto di indossare una maschera. Indossare una maschera è pratica comune sulle navi militari, dove i migranti non vedono mai la faccia dei loro soccorritori. Sull’Aquarius, la squadra di MSF si è limitata a distribuire bottigliette di sapone disinfettante e a isolare due somali che mostravano sintomi di tubercolosi.
(AFP / Gabriel Bouys)
Questi due somali sono i primi a scendere dall’Aquarius. Quindi il piccolo Alex e la sua famiglia, accolti da un bouquet di palloncini multicolore e dagli oooh, aaah e applausi dei volontari. Poi è il turno delle donne e i bambini. A bordo, alcuni dei bambini hanno già fatto amicizia. Raoul con la sua maglietta rosa e Patricia con i suoi occhioni. Quei due mi hanno fregato delle matite mentre ero distratta. Daniel, che ha una lunga cicatrice sulla guancia, salta in braccio a tutti. Mentre viene trasportato sul molo verso la terra ferma, manda baci con le mani a tutto l’equipaggio.
(AFP / Gabriel Bouys)
In questi giorni, scene simili si presentano nei diversi porti della Sicilia e dell’Italia meridionale. Nel corso di quella sola settimana, più di 13.000 migranti sono stati raccolti in mare, un record. Loro sono quelli fortunati – circa 800 persone sono morte nella stessa settimana tentando il viaggio, nonostante sia stata dispiegata questa enorme armata di soccorsi con lo scopo preciso di evitarlo.

Sul molo, Ebenezer, il timoniere ghanese, guarda la scena e sorride. “Li imbarchiamo e li facciamo sbarcare, è la routine”, dice, cercando (con scarso successo) di fingere indifferenza. Il giorno prima, tutto emozionato, mi raccontava di un uomo che quando era stato raccolto aveva uno sguardo fisso, e di un altro paralizzato dall’ipotermia, e di quanto era sollevato nel vedere che stavano entrambi molto meglio.

Ed, l’operativo logistico di MSF, è alla fine di 48 massacranti ore, durante le quali ha sollevato i migranti, uno per uno, a bordo della nave, e poi organizzato la loro permanenza a bordo, dalla distribuzione dei pasti allo svuotamento delle latrine. Sa bene che l’Europa non srotolerà il tappeto rosso per loro. È particolarmente furioso per il questionario che i migranti dovranno compilare nelle prossime ore, che comincia con una domanda a trabocchetto, “Vuoi lavorare in Italia?”, e che non nomina mai un’eventuale richiesta d’asilo.
(AFP / Gabriel Bouys)
Mary Jo è più ottimista. “Queste persone, dopo quello che hanno passato… ce l’hanno fatta fino a qui, l’Italia sarà una passeggiata per loro”.
Ma non c’è tempo di filosofeggiare. Appena l’ultimo ospite è sceso, l’equipaggio pulisce tutto e un’ora dopo l’Aquarius riparte, per il suo prossimo appuntamento in mare.
(AFP / Gabriel Bouys)