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Osservatorio Balkan route – Agosto 2016

Lorenzo Scalchi, Ospiti in arrivo - 29 agosto 2016

Foto: Are you Syrious?

Dall’analisi delle statistiche ufficiali emerge che la Serbia è oggi lo scenario più rappresentativo di una Balkan route che non si è mai chiusa, anche se spesso muta di forme e d’intensità a causa delle politiche più o meno restrittive degli stati e dell’Europa. Oggi la “diga” principale è tornata a ricalcare il confine serbo-ungherese. Al di qua del muro, la Serbia assume la forma di un imbuto, di una sacca in cui si concentrano le principali forme di tensione. Questa è l’analisi del mese di agosto.

1. Una rotta sempre aperta

Nel marzo 2016 la Macedonia chiude ufficialmente il confine con la Grecia a Idomeni. Si blocca la principale rotta di transito verso l’Europa. Di conseguenza, si crea una concentrazione di decine di migliaia di migranti tra Polikastro e Idomeni, generando la “vergogna d’Europa”. In questo periodo le notizie dei principali media nazionali non trattano più della rotta balcanica, ma della situazione greca. Poi, a partire dallo sgombero forzato di Idomeni (maggio 2016), l’interesse mediatico si trasferisce sulla crisi turca e sulle tensioni alle frontiere italiane con la Francia (Ventimiglia) e con la Svizzera (Como e Milano). Quest’attenzione scemata ha fatto pensare che la Balkan route sia definitivamente bloccata oppure così tanto ridotta da non essere più preoccupante.

Effettivamente, in alcuni stati l’emergenza migranti sembra essere terminata. Ce lo dicono i dati redatti dall’UNHCR: in Macedonia, in Croazia e in Slovenia (periodo aprile – agosto 2016) nessun migrante è ufficialmente entrato. In Ungheria c’è stato, invece, un notevole calo di arrivi: da una media giornaliera di 621 arrivi tra ottobre 2015 e marzo 2016 a una media di 151 arrivi tra aprile e luglio 2016 e di soli 40 nell’ultimo mese (18 luglio – 18 agosto). Possiamo, quindi, dire che la Balkan sia oggi una rotta bloccata?

I numeri dell’UNHCR riguardanti la Serbia sembrano negare quest’ipotesi. Anche se notevolemente inferiori rispetto al periodo precedente alla chiusura del confine di Idomeni e all’accordo UE-Turchia (marzo 2016), nell’ultimo mese sono 264 gli arrivi medi giornalieri registrati dalle autorità. Un notevole aumento rispetto ai 120 del periodo aprile – luglio (+120%).

Com’è possibile che la Serbia registri numeri così elevati se la Macedonia – Stato che la precede nella geografia della rotta migratoria – nello stesso periodo di riferimento conserva una costante di zero arrivi giornalieri? Sono quattro le ipotesi.
(1) La rotta bulgara – che collega Istanbul e Sofia al confine serbo di Dimitrovgrad – è particolarmente frequentata. Effettivamente è così: mediamente 150 persone al giorno sono arrivate dalla Bulgaria in questo paesino di 12.000 abitanti tra luglio e dicembre 2015 (dato del blog Balkanroute).
(2) Vi sono rotte di migranti – o di smugglers – lungo le montagne, i boschi, le campagne macedoni non controllate dalla polizia macedone. Sappiamo che anche quest’ipotesi è vera.
Inoltre, è anche ipotizzabile che (3) vi sia un considerevole flusso di migranti già ospitati in Macedonia (richiedenti asilo o ospiti nei campi governativi), che per varie ragioni abbandonano il paese per entrare in Serbia per continuare il viaggio verso nord. Oppure,
(4) l’ex Repubblica jugoslava riduca i numeri dei rapporti ufficiali per apparire più efficiente nel controllo dei flussi.

Sempre dal rapporto dell’agenzia ONU rileviamo altri dati, questa volta in relazione all’ultima tratta della Balkan. Tra aprile e luglio 2016 le entrate ufficiali di migranti alla frontiera austriaca sono mediamente 159 al giorno. Nell’ultimo mese calano, ma non di molto, attestandosi a 137 arrivi giornalieri (-14%).

Questo flusso in entrata è comunque elevato se pensiamo che dalla Serbia all’Austria la rotta migratoria passa o per l’Ungheria o per la Croazia e la Slovenia.
Ma come spiegare così tanti arrivi in Austria quando proprio in questi tre Stati le autorità registrano un’entrata giornaliera di migranti nulla o di poche decine d’unità? Anche qui valgono ipotesi simili: (1) vi sono numerose rotte informali (in questo caso in Ungheria, in Croazia e in Slovenia) che sfuggono ai controlli; (2) numerosi migranti già ospitati in questi Stati riescono lo stesso a entrare in Austria (principalmente dall’Ungheria, perché nel primo trimestre 2016 Slovenia e Croazia accolgono solamente 400 e 100 richiedenti asilo) [Fonti EUROSTAT]; (3) per diversi motivi Ungheria, Croazia e Slovenia stimano al ribasso il conteggio ufficiale dei flussi in entrata.

I dati UNHCR – che non tengono conto dei migranti che passano illegalmente le frontiere – ci dicono, quindi, che la Balkan route è aperta, anche se più ostruita e rallentata rispetto al periodo antecedente al marzo 2016 (chiusura confine macedone e accordo UE-Turchia). Qui di seguito è possibile notare questa variazione dell’intensità dei flussi [Fonti UNHCR].

2. La situazione in Serbia

Se si guardano i numeri del periodo 20 luglio-19 agosto, non si può non notare la particolare situazione della Serbia: rispetto al periodo 20 marzo – 19 luglio nell’ultimo mese c’è stato un notevole aumento degli arrivi giornalieri alle frontiere con la Bulgaria e la Macedonia (+120%) e una drastica riduzione delle uscite verso l’Ungheria (-73,5%). Quali sono stati gli effetti di queste dinamiche sulla realtà serba? Abbiamo cercato risposte in alcuni articoli dalla stampa italiana e internazionale.

Il primo dato, l’aumento delle entrate in Serbia, è spiegato in un articolo apparso su Balkan Insight (20 luglio), focalizzato sulla situazione in Macedonia, nei campi governativi di Vinojug e Tabanovce: i migranti (anche donne e bambini) continuano a tentare le rotte informali-illegali, ma spesso sono catturati dalla polizia macedone e rimangono in attesa nei campi governativi, dai quali spesso scappano verso la Serbia. La testata Le Courrier des Balkans (del 28 luglio) riporta come, alle frontiere meridionali, la polizia serba (pattuglie miste di polizia ed esercito) è fortemente impegnata a contenere queste entrate: fonti governative affermano che in 5 giorni oltre 1000 migranti sono stati respinti dalle frontiere con Macedonia e Bulgaria.

Ma le tensioni maggiori sono a nord, dove il blocco ungherese provoca un’elevata concentrazione di persone nella provincia di Subotica. Su Melting Pot (8 luglio) un reportage racconta quest’utlima tratta: i migranti giungono a Belgrado, per poi proseguire verso Subotica e le zone di confine di Kelebjia e Horgos.
Le persone sono convinte che nonostante le barriere dall’Ungheria, le possibilità di passare siano diverse. Molti, infatti, tentano di passare durante la notte, per evitare i controlli nella zona di transito: sono percorsi non autorizzati e molto frequentati, dove la polizia ungherese e le ronde civiche spontanee di orientamento neofascista esercitano uno stretto controllo.
Nelle ultime settimane, il numero di questi respingimenti è aumentato e, di conseguenza, è cresciuto il numero dei migranti bloccati in Serbia.
Oltre ai trattamenti violenti da parte delle autorità ungheresi, recentemente sono apparsi anche alcuni “fantocci” raffiguranti inquietanti corpi in decomposizione, impiccati lungo la recinzione che separa l’Ungheria dalla Serbia. Le fotografie dei macabri pupazzi sono state diffuse su Facebook dal profilo del Magyar Rendorök és Katonák, vele-TEK vagyunk (un movimento che sostiene le misure adottate dalle autorità di Budapest per bloccare il flusso migratorio) (La Repubblica 19 agosto). Per maggiori informazioni sulla situazione al confine, vedere anche il sito: Previous report on violence during pushbacks from Hungary.

La rotta, dunque, non è solo aperta ma presenta attualmente, concentrate nella zona settentrionale della Serbia, le più critiche conseguenze delle politiche di irrigidimento del controllo dei flussi: violenze che si esercitano su uomini, donne e bambini, proteste di massa, formazione di accampamenti informali (jungles), conseguenti sgomberi forzati da parte delle autorità pubbliche e senso di spaesamento e paura da parte degli abitanti di quelle regioni.

Le Courrier des Balkans (22-29 luglio) ci informa di due importanti scioperi della fame lanciati durante l’ultima decade di luglio dai migranti bloccati. 21 luglio, Belgrado, parco antistante la stazione dei pullman: i migranti hanno rifiutato il cibo della Caritas e hanno protestato. Chiedono libertà di circolazione. La polizia ha recintanto il parco, da mesi simbolo dell’incontro tra migranti in sosta a Belgrado. 24 luglio: 250 migranti partono a piedi da Belgrado per raggiungere il confine (Horgoš); solo 127 arrivano. 24 luglio: a Horgoš la situazione è molto tesa e i migranti organizzano uno sciopero della fame per protestare contro la chiusura del confine ungherese (le autorità ungheresi fanno entrare solo 15-20 persone al giorno). 27 luglio: 130 persone imbavagliate in sciopero della fame hanno reclamato: “niente cibo senza libertà di circolazione”. 29 luglio: a Horgoš lo sciopero della fame è sospeso in seguito a un accordo con il Commisario dei rifugiati serbo. 60 persone, principalmente uomini afghani e pakistani, hanno accettato di essere condotti in un centro d’accoglienza serbo.

Queste infinite soste alle frontiere e le conseguenti tensioni riguardano principalmente le località di confine di Horgoš e Kelebija. Qui si sono creati due accampamenti informali, che si aggiungono al limitrofo campo governativo di Subotica (circa 330 ospiti). Gli accampamenti informali sono il simbolo dell’esistenza della rotta e della creazione di zone al margine. In questi margini si organizza uno Stato d’eccezione, che in qualche modo condiziona anche le società locali. Per questo, gli accampamenti sono periodicamente smantellati in nome dell’ordine pubblico. Tuttavia, spesso, e inevitabilmente, si ricreano.

A Calais in queste ultime settimane si sta ricreando la jungle forzatamente sgomberata circa quattro mesi fa (Libération del 22 agosto). Riguardo territori più vicini a noi, anche a Ventimiglia si è temuto che si potesse ricreare un’altra evidenza della “vergogna d’Europa”. Ora i due campi serbi di Horgoš e Kelebija esistono, ma per quanto ancora? Su Melting Pot (8 luglio) si riporta che in ognuno dei due campi vivono circa 150 persone, tutte in attesa del turno per passare. “I nuovi arrivati, devono segnare il loro nome in fondo a una lista e aspettare che arrivi in cima. Una persona del campo è nominata responsabile della lista, che deve consegnare alle autorità ungheresi”.

Gli effetti di questo contesto sulla politica serba sembrano essere due: da un lato mano ferma alle frontiere meridionali e pugno duro nel centralissimo parco di Belgrado, dall’altro aumento della protezione e dell’assistenza a chi chiede asilo. Per molti migranti, da mesi in attesa di passare il confine in condizioni disumane, il bisogno della libertà di circolazione è diventato, infatti, subordinato al pane e alla prima assistenza sanitaria.
Per ottenere, tuttavia, un posto in un campo di raccolta è ora necessario richiedere asilo. Questo è lo scambio che molti migranti hanno accettato, contribuendo a far crescere di molto le richieste d’asilo in Serbia.

Su questo, proponiamo due letture: su Balkan Insight (27 luglio) un articolo riporta le proteste di alcuni attivisti, che hanno denunciato una mancanza di chiarezza rispetto all’iter di permanenza nei campi profughi dopo la richiesta di asilo, mentre su Osservatorio Balcani (4 agosto) un reportage descrive la nuova situazione di Belgrado, con un particolare focus sull’emergente rete umanitaria del Mikstaliste, un progetto di aiuto tra diverse associazioni di volontariato e ONG, non supportato dalle istituzioni pubbliche, che opera nei pressi del famoso parco.

Quindi, di fronte alla condizione di sostanziale “imbottigliamento”, e di fronte alla subordinazione del bisogno di mobilità al bisogno di protezione umanitaria, la Serbia decide di investire maggiormente sulla gestione dei flussi mediante il potenziamento dei centri d’accoglienza. Questi centri sono quattro – Belgrado (Krnjača), Sid, Presevo e Dimitrovrad – ma nei pressi della capitale il progetto e di aprirne altri.

Un’altra conseguenza: la situazione di Belgrado preoccupa molto anche Croazia e Slovenia, stati che per mesi non sono più toccati da elevati flussi migratori. Le Courrier des Balkans (16 agosto) riporta che “di fronte agli arrivi crescenti dalla Grecia e dalla Macedonia, e al blocco ungherese, la Croazia e la Slovenia si preparano a un’eventuale riapertura della rotta dei Balcani durante quest’autunno”. Il 30 giugno è, infatti, è stata bloccata la circolazione con la Serbia nel valico minore di Batina in Croazia, adiacente al villaggio serbo di Bezdan (Balkan Insight). Cosa è accaduto? La Croazia ha alzato per la sua prima barriera per ostacolare un futuro e aspettato flusso di migranti. In Slovenia, muri anti-migranti esistono già, ma sembra che abbiano creato più problemi agli animali selvatici che agli uomini (The Guardian, 11 agosto).

I Balcani, di nuovo un laboratorio politico

Ciò che colpisce della Balkan route è il contesto in cui si sviluppa. Un contesto storico, sociale e culturale che ha un rapporto strettissimo con le migrazioni. Negli anni Novanta, nei Balcani occidentali ci fu la più grande crisi di rifugiati europea dal 1945.

Abbiamo ritrovato un articolo del New York Times del giugno 1992: si legge che i profughi erano, nel 1992, già 2,3 milioni. Di questi, più di 400.000 scapparono fuori dal territorio dell’ex federazione jugoslava. La Germania ne ammise oltre 200.000, l’Ungheria 60.000, l’Austria 50.000, la Svezia circa 44.000. E i conflitti non si conclusero nel 1992 ma nel 1999, creando altre centinaia di migliaia di sfollati e di emigranti. Oggi Balkan route significa anche memoria di un’epocale emigrazione, che s’incontra/scontra con un’atrettanto epocale immigrazione. Quali riflessioni possono nascere da questo incontro di fenomeni? Proponiamo la lettura dell’articolo di Jean-Arnault Dérens, storico e giornalista, apparso su Le Courrier des Balkans il 24 luglio scorso.

Dérens afferma che in Europa i governi nazionali stanno invocando lo spettro della guerra di civiltà (musulmani contro occidentali, ISIS contro l’Europa). È pura strategia politica che dimostra la difficoltà delle élite dirigenti di comprendere e gestire le “vere” questioni. Secondo lo storico-giornalista, gli attentati, invece, non sono altro che il prodotto di conflitti interiori alle società europee. Denunciare un fantomatico “nemico esterno” (es. l’ISIS) sarebbe, quindi, un modo conveniente per non rispondere ai problemi sollevati dai protagonisti della nuova radicalizzazione islamica: i ragazzi nati in Francia hanno costruito un profondo odio nei confronti delle diseguaglianze sociali mantenute dalla politica. La tesi dell’autore è che questa guerra interna all’Europa è simile alla guerra interna dei Balcani degli anni Novanta. L’affermazione che la causa del conflitto fosse l’aggressione militare serba in Croazia, o dell’aggressione croata in Bosnia, fu un modo per non rispondere alla questione fondamentale: perché, in terre dove da secoli si realizza un’efficace coabitazione tra diverse etnie e religioni, diventa a un certo punto necessario costruire uno Stato di soli serbi o di soli croati? Secondo Dérens, i nazionalismi, i fascismi, la xenofobia, i “discorsi d’odio” sono effetti di una crisi degli ordini politici e non cause. In quel caso ci fu la crisi della Jugoslavia federale e socialista: un ordine che non aveva più senso.

Cosa succede in Europa oggi? La crisi – scrive Dérens – è un indebolimento del legame di cittadinanza, ormai poco riconosciuto in alcuni ambienti periferici e marginali (es. le banlieues francesi). Di conseguenza, si costruisce un odio che coinvolge religioni, culture, etnie. E, di conseguenza, si creano movimenti neofascisti e nazionalistici.

Proponiamo, quindi, una riflessione che utilizza argomenti simili ma li riporta alla crisi migratoria sulla Balkan: è possibile pensare che la Balkan route abbia riportato fuori alcune radicali riflessioni sul senso politico degli Stati nazionali e della loro integrazione in Europa? E che siano queste riflessioni, e non i migranti, la vera causa della xenofobia e di un ritorno del nazionalismo? I migranti, è vero, sono stati da molti percepiti come l’Altro, ossia radicalmente « diversi », con i quali è impossibile un’interazione. Spesso si ha paura di loro (es. ossessioni patologiche create dall’islamofobia) e si creano reazioni xenofobe di massa, come in Ungheria, terra del nazionalismo di Orbàn. Gli obiettivi di un’analisi seria sono, allora, quello di capire meglio i movimenti xenofobi e populisiti e le istanze nazionalistiche e di comprendere la relazione tra l’odio verso l’Altro e una crisi di identità politica che non ha nei migranti la causa, ma solo la principale manifestazione.

Balkan Route: rassegna stampa di luglio-agosto 2016.

– Sven Milekic, Croatia Erects Serbian Border Fence to Deter Migrants, Balkan Insight, 30/06/16. La Croazia per la prima volta costruisce una barriera preventiva presso al confine con la Serbia.
La situazione al confine serbo-ungherese, «Melting Pot», 08/07/2016.
– Meri Jordanovska, Refugees Make Best of Camp Life in Macedonia, «Balkan Insight», 20/07/16. Sui campi governativi in Macedonia.
– Jean-Arnault Dérens, La « guerre civile européenne » et la mémoire des Balkans, «Le Courrier des Balkans», 24/07/2016. È un’analogia tra le paure per il terrorismo islamista che animano i francesi e le paure tra serbi, croati e bosniaci risalenti agli anni 1990. Cosa fece in modo che alcuni divenissero il “nemico assoluto” degli altri? Questa la riflessione di Jean-Arnault Dérens.
– Milivoje Pantovic, Serbia’s Tougher Line on Migrants Worries Experts, «Balkan Insight», 27/07/16. Gli attivisti denunciano una mancanza di chiarezza rispetto all’iter di permanenza nei campi profughi dopo la richiesta di asilo in Serbia. La polizia serba si schiera lungo i confini di Bulgaria e Macedonia per impedire l’accesso.
Belgrado: l’imbuto umanitario della rotta balcanica, «Osservatorio Balcani», 04/08/16. Si descrive la situazione a Belgrado, con un particolare focus sulla realtà umanitaria del Mikstaliste, un progetto di aiuto tra diverse associazioni di volontariato e ONG, non supportato dalle istituzioni pubbliche.
– Arthur Neslen, Balkan wildlife faces extinction threat from border fence to control migrants, «The Guardian», 11/08/2016. Migrazioni di animali bloccate dal muro sloveno al confine con la Croazia.
Ungheria,’teste mozzate’ al confine serbo: i fantocci per spaventare i migranti, «la Repubblica», 19/08/2016. Fantocci raffiugranti corpi in decomposizione impiccati sono stati esposti lungo la recinzione che separa l’Ungheria dalla Serbia.
– Stéphanie Maurice, A Calais les migrants plus nombreux que jamais, «Libération», 22/08/2016. Situazione alla frontiera tra Francia e Inghilterra: gli accampamenti informali si riformano, nonostante gli sgomberi delle autorità pubbliche.
Dimitrovgrad / Serbia – Beginning of January 2016 Report (01-10.1.2016)
Dernières infos, Le Courrier des Balkans. Sintesi dello storico sulla Balkan route.

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