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Eritrea: come il mondo ha dimenticato la “Nord Corea” dell’Africa e cosa questo implica in materia di immigrazione

Gabriel Pogrund, New Statesman - 9 settembre 2016

Quest’estate l’Eritrea ha compiuto 25 anni (dalla sua indipendenza n.d.R.). In una serata nebbiosa ad Asmara, la fatiscente capitale color pastello, un funzionario straniero offre una insolita descrizione delle attuali condizioni del proprio leader di vecchia data.

La settimana scorsa, ha visto il presidente Isaias Afwerki, o semplicemente Isaias, mentre camminava da soli nei vicoli città per un appuntamento presso la sede locale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con addosso una maglietta hawaiana e pantaloni di tela.

Isaias governa l’Eritrea da quando, vincendo una tra le più lunghe guerre intestine della storia (contro l’Etiopia), ha conquistato l’indipendenza del Paese, ma poco ancora si sa sul suo conto. «Da 70 anni» mi confessa un altro diplomatico, «gode sfortunatamente di buona salute», anche se le indiscrezioni sui di lui che lo dipingono come un gran bevitore.

Eppure il suo Paese è malato. Dietro i palazzi in stile art deco, gli espresso e i panini all’olio, eredità del passato coloniale italiano, giace una agghiacciante dittatura e un’economia in declino.

La piaga principale del regime di Afwerki è che la leva militare qui dura a tempo indeterminato. Gli eritrei dicono addio alla libertà all’età di 16 anni, quando vengono chiamati alla Sawa, il campo di addestramento militare nazionale, per poi passare anni a difendere il confine militarizzato con l’Etiopia, o a lavorare come schiavi alla costruzione di strade o di altri progetti infrastrutturali.

I cittadini possono evitare il servizio militare fuggendo, ragione per cui il numero di eritrei che attraversano illegalmente il Mediterraneo supera quello di qualsiasi altra nazionalità, o sposandosi, il che spiega il tasso curiosamente alto di matrimoni tra i giovanissimi. Altrimenti non ci sono garanzie: l’esonero dal servizio nazionale dipende solo dalla pietà individuale dei generali militari.

Filmon, che ora vive in un centro di accoglienza nella regione del baltico, ha scelto di fuggire. Ha camminato da solo attraverso il Sudan e l’Egitto prima di giungere illegalmente in Israele, dove ci siamo brevemente incontrati l’estate scorsa. Pochi mesi fa è stato “deportato volontariamente” da Israele in Uganda, e da lì si è diretto in Europa. Si pente di aver lasciato il proprio Paese per una vita come questa? Quest’uomo dalle poche esitazioni mi lascia a mala pena finire la domanda: «Assolutamente no! Non tornerei mai a Sawa. Mai!»

Ciò che viene poco compreso è che la filosofia di Stato sulla leva obbligatoria e l’autosufficienza non è arbitraria. È una risposta alla brutale occupazione etiope che la comunità internazionale ha sostenuto per decenni.

L’Eritrea ha dovuto combattere un esercito supportato da paparini superpotenti, primi fra tutti gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, le due più grandi potenze militari che il mondo abbia mai conosciuto, senza ricevere aiuto da nessuno se non dalla diaspora eritrea per trent’anni.

Questo Davide ha battuto Golia da solo: perché dovrebbe prendere lezioni o fare affidamento su altri per ricevere aiuto adesso? Perché l’Eritrea dovrebbe dare una possibilità al suo, tutt’ora turbolente, confine con l’Etiopia?

Purtroppo, la rabbia di un bambino abusato è raramente efficace. Ciò che nel 1991 sembrava un audace tentativo di conquistare l’indipendenza africana in un modo diverso dal solito, si è trasformato in un aggressivo auto-isolamento. All’interno del Paese non c’è traccia di organizzazioni o compagnie internazionali. E sebbene abbia un ampio sbocco sul Mar Rosso, un accesso marittimo ad Africa, Asia e Medio Oriente, il porto della città di Massawa era praticamente vuoto quando l’ho visitato.

Ciò ha portato il Paese ad un fallimento economico. Gli adulti guadagnano in media 500 dollari, mentre i bambini vendono pacchetti di gomme da masticare lungo la Liberation Avenue, elemosinando soldi e cioccolata dai passanti.

Potrebbe anche essere in corso una carestia nel nord del Paese, mormorano i diplomatici esteri, ma nessuno lo saprebbe mai anche se ciò fosse vero. Non c’è libertà di stampa, e le comunicazioni private sono controllate dal governo, motivo per cui questi problemi non vengono mai alla luce. In un Paese dove non c’è elettricità per diverse ore al giorno, le persone sono lasciate letteralmente e figurativamente al buio.

Per certi versi, tuttavia, l’auto-isolamento ha funzionato. C’è scarso interesse da parte della comunità internazionale sull’Eritrea, considerando l’importante posizione geopolitica del Paese. L’ultima volta che l’Assemblea Generale o il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno passato una risoluzione sulla non osservanza dei diritti umani da parte del governo eritreo era nel 2011.

E’ scioccante che la Gran Bretagna sia finora l’unico Paese ad aver istituito una Commissione parlamentare sull’Eritrea, operativa da quest’anno. Non dimentichiamoci
che il numero di eritrei che attraversano illegalmente il Mediterraneo centrale supera quello dei siriani, e che gli eritrei rappresentano la prima comunità per numero di richiedenti asilo in Gran Bretagna rispetto alle altre nazionalità.

Alcune delle prove più evidenti sono aneddotiche. Racconta a qualcuno che stai andando in Eritrea e ti domandano allucinati «Non è la Corea del Nord dell’Africa?!» (un nome di dire ormai affermato), per poi ammettere di saperne pochissimo su cosa veramente succeda all’interno del Paese. In alternativa ti guardiano inespressivi.

E poi c’è la risposta degli eritrei stessi. Il porto di Massawa sul Mar Rosso è stato polverizzato dai massicci bombardamenti etiopi nel 1991, ed è stato lasciato a marcire a 44°C da allora. «Che cosa ci fai qui?» chiede Habtom, un insegnante di inglese di mezza età. «Nessuno viene da queste parti

Le persone che incontriamo in giro per il Paese sono altrettanto confuse.

Afwerki, che si traduce letteralmente “bocca d’oro”, sta apparentemente cercando investimenti esteri nelle riserve minerarie dello Stato. Ma quando si arriva a parlare di apertura del Paese, o leva militare o diritti civili, gli eritrei hanno imparato a non prendere queste informazioni troppo seriamente.

Pochi credono che il giovane Stato progredirà fino a che il leader in carica non sarà morto. Questa la grande ironia dell’Eritrea: un Paese che si chiude fuori dal resto del mondo non riesce a impedire ai suoi figli di andarsene.