Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza
/

L’arcipelago australiano dei gulag

Julia Baird, The New York Times - 30 agosto 2016

Illustrazione: Joohee Yoon

Sydney, Australia – Secondo Dante, le anime sfortunate che languiscono in Purgatorio patiscono una sofferenza lancinante, ma la promessa della loro destinazione finale è chiara: il paradiso. Coloro che languono sulle remote, piccole isole – Manus e Nauru – che ospitano i centri australiani di detenzione in mare aperto non sono così fortunati.

Benché quasi tutti i detenuti siano stati qualificati come rifugiati, la politica dell’Australia è di non consentire a nessuno che sia arrivato ​​via mare di stabilirsi. Così, la destinazione finale di questi richiedenti asilo, arrivati da luoghi lontani come Afghanistan, Iran, Myanmar e Sri Lanka, è incerta. Questo significa che sono, di fatto, in detenzione a tempo indeterminato senza aver commesso alcun reato. E questa incertezza sul loro destino ha spinto alcuni di loro ad una selvaggia disperazione, e perfino ad autolesionismo e suicidio.

Le accuse di stupro, abusi, abbandono e maltrattamenti, in questi centri, sono ormai innumerevoli. La reale entità del problema è stata nascosta, perché ai giornalisti vengono regolarmente negati i costosi visti per visitare le isole, e sono stati esclusi dai centri stessi. Coloro che effettivamente vi lavorano, tra cui medici, consulenti e guardie, rischiano una pena detentiva se violano le norme di segretezza.

Migliaia di files provenienti da Nauru – una remota repubblica insulare che è la più piccola nazione del Pacifico meridionale – recentemente pubblicati dal Guardian, documentano casi di violenza sessuale, abusi sui minori, tentativi di suicidio e deterioramento della salute mentale dei detenuti tra il 2013 dei il 2015. Erano terrificanti nei loro dettagli: guardie che prendono a schiaffi i bambini; scambio di favori sessuali; donne stuprate; detenuti che tentano il suicidio e che si feriscono con matite appuntite.

Il Ministro dell’immigrazione, Peter Dutton, ha detto che quelle affermazioni erano oggetto di indagine, ma le ha definite “esagerazioni” e ha dato la colpa ai mezzi di comunicazione “di sinistra“. Ha affermato di essere a conoscenza di alcune “false accuse di violenza sessuale, perché alla fine, le persone hanno pagato gli scafisti e vogliono venire nel nostro paese.”

Molti australiani sono meno ottimisti, a fronte del fatto che più della metà delle denunce di abusi e maltrattamenti riguardano minori. Le critiche a questi avamposti proibiti, conosciuti come “centri di elaborazione regionali”, si sono trasformate in un coro di denuncia – con la crescente consapevolezza che la soluzione della detenzione in mare aperto non è riuscita a garantire i diritti umani di base, né nella sua ideazione né nella sua realizzazione.

Non si può negare, tuttavia, che insieme alla politica di respingimento di chiunque arrivi in ​​barca, la detenzione in mare aperto è stata un deterrente efficace; il numero di persone che arriva via mare è sceso da migliaia a quasi zero.

Nel 2009, 5.609 persone hanno raggiunto l’Australia in piccole imbarcazioni anguste, in cerca di rifugio. Nel 2012, si era schizzati a 25.173. Kevin Rudd, il primo ministro, al tempo aveva promesso che a nessuno di coloro che cercavano di arrivare via mare sarebbe mai stato permesso di stabilirsi. Il partito di opposizione ha cavalcato il successo di uno slogan “Stop Barche” nelle successive elezioni e, nel 2014-2015, il numero è sceso a 158. Ora è praticamente pari a zero. Ed il successo di questo approccio ha fatto sì che il numero di persone in stato di detenzione sia generalmente precipitato: nel 2013 c’erano circa 2.000 minori in stato di detenzione onshore e offshore; ora sono poco più di un centinaio.

Eppure la domanda ora è: a quale costo è stato raggiunto questo risultato?

A parte le accuse di abusi, la strategia sta costando miliardi di dollari all’Australia. Per ogni detenuto ospitato sull’isola di Manus, che appartiene in realtà a Papua Nuova Guinea, i contribuenti hanno sborsato più di 1 milione di dollari dal 2011. Alla fine di giugno, c’erano 854 detenuti nella struttura per soli uomini su Manus. Quelli sul Nauru erano 442, tra cui 49 bambini e 55 donne.

Ci può essere un sollievo in vista per i detenuti Manus, il 98 per cento dei quali sono stati dichiarati rifugiati. Nel mese di aprile, la Corte Suprema di Papua Nuova Guinea ha stabilito che il centro di detenzione è incostituzionale, costringendo il governo australiano ad accettare di chiuderlo.

I detenuti di Nauru, tuttavia, rimangono in un limbo, con uno status temporaneo permanente. Anche se più di tre quarti di loro sono stati dichiarati rifugiati, il governo australiano ha mancato di reinsediarli.

Come può una società aperta, apparentemente tollerante e multiculturale, come quella australiana – che in passato ha accolto migliaia di rifugiati vietnamiti, o “boat people“, nel 1970 – sostenere un sistema condannato dalle Nazioni Unite come violazione dei diritti umani, molto prossimo alla tortura?

L’Australia ha iniziato ad inviare di rifugiati a Nauru circa 15 anni fa, dopo che l’allora primo ministro John Howard, del Partito Liberale conservatore, ha rifiutato di accogliere un gruppo di richiedenti asilo, per la maggior parte afghani, che erano stati salvati da un barcone che stava affondando. Il signor Howard stava cercando di fermare la corsa della politica populista Pauline Hanson, che stava rapidamente guadagnando supporto grazie al suo messaggio anti-immigrazione, anti-asiatico ed anti-islamico. La signora Hanson è stata appena rieletta al Parlamento nel mese di agosto, e il suo partito One Nation ha guadagnato tre senatori in più.

Il signor Howard ha sfruttato una corrente sotterranea di xenofobia, facendo una campagna sulla sovranità nazionale ed affermando: “decideremo chi entra in questo Paese, ed a quali condizioni“. L’afflusso di persone che attraversano il mare per trovare rifugio in Australia è diventato, così, un problema fazioso, sul quale i due maggiori partiti, liberale e laburista, hanno fatto a gara nell’assecondare le paure sull’immigrazione.

I richiedenti asilo che erano arrivati ​​in barca sono stati stigmatizzati per aver “saltato la fila” pagando i trafficanti, rispetto alle persone di altri Paesi nei campi profughi, che avevano fatto domanda di reinsediamento in Australia. La mancanza di correttezza è profondamente offensiva per gli australiani, e gli stereotipi fanno facilmente presa. Un sondaggio di opinione del 2014 ha rilevato che la maggior parte delle persone crede, a torto, che quelli che arrivano in barca non siano “veri rifugiati“.

Tre anni fa, il ministro in carica del Dipartimento dell’Immigrazione e della Protezione delle Frontiere, Scott Morrison, ha istruito il suo staff a riferirsi ai richiedenti asilo giunti in barca come “arrivi marittimi illegali“, anche se le loro azioni sono perfettamente legali in base al diritto internazionale. (Questo concetto di illegalità si è dimostrato particolarmente efficace nell’influenzare l’atteggiamento del pubblico.)

La retorica ufficiale è stata anche militarizzata, con un’operazione di “respingimento delle barche” denominata “Operation Sovereign Borders”. Sia i liberali che i laburisti sono colpevoli di guadagnare consenso politico a spese di persone che sono alla mercé dell’Australia. Entrambi i partiti si sono vantati della loro intransigenza in occasione delle elezioni federali di luglio, ed entrambi hanno sostenuto che la politica di detenzione off-shore è stata efficace (anche se i membri più di sinistra del partito laburista si sono spaccati sulla questione). Entrambi temono realmente che vi sia un’ondata di arrivi via mare se la politica sarà troppo soft, proprio come temono una recrudescenza di demagoghi come la signora Hanson, che potrebbero giocare sulle paure della popolazione di essere “sommersa” da stranieri.

E’ vero che le barche dei rifugiati – respinte nelle acque indonesiane dalla marina australiana – non affondano o attraccano più qui. Ma le rivelazioni sugli abusi di Nauru, e la vergogna per Manus, hanno cominciato a cambiare l’opinione pubblica. Gli australiani certamente sostengono una politica di confine rigida, ma non la crudeltà assoluta. Mentre ancora si preoccupano di non provocare ulteriori annegamenti in mare o alimentare il vergognoso traffico di esseri umani, molti sono disgustati dalle evidenti sofferenze dei reclusi nei campi di detenzione off-shore.

Il paese è lacerato. E così, sulle loro piccole isole al largo delle nostre coste, i rifugiati aspettano.

Ci sono stati appelli ad un nuovo consenso bipartisan e nuove indagini, ma mancano vere idee. Molti hanno sostenuto che coloro che languono nei centri di detenzione off-shore dovrebbero essere trasferiti sul continente e che le loro richieste dovrebbero essere esaminate lì, ma i politici di entrambi i partiti si rifiutano di sostenere questo approccio.

Fino a quando l’Australia si rifiuterà di accettare i richiedenti asilo che entrano nelle nostre acque via mare, la sua politica dovrà fare affidamento sul fatto che i paesi vicini li accolgano e aiutino a valutare le loro richieste. Ma il governo ha sempre mal condotto quelle relazioni, rifiutando le offerte di assistenza da Malesia e Nuova Zelanda, mentre i suoi tentativi di reinsediare i rifugiati in Cambogia sono falliti.

La leadership politica che servirebbe per rivedere il sistema di detenzione in mare aperto dell’Australia è tristemente assente, e vi è una sempre crescente pressione sul primo ministro Malcolm Turnbull. Ma, per ora, i detenuti dell’asilo-gulag in Australia non vedono all’orizzonte la fine del loro limbo senza speranza.

Rettifica – 30 agosto 2016
Una versione precedente di questo articolo ha travisato i risultati delle elezioni di agosto in Australia. Il partito One Nation ha vinto quattro seggi al Senato. Non ha preso seggi nelle elezioni statali dell’Australia Occidentale.