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Genealogia della nuova Frontex

Frontiere del controllo - Rubrica a cura di Giuseppe Campesi, Università degli Studi di Bari

Il 6 ottobre 2016 è stata ufficialmente lanciata la nuova Guardia costiera e di frontiera europea, che continuerà ad essere comunemente denominata Frontex, il cui regolamento istitutivo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 16 settembre 2016, a soli nove mesi dalla proposta della Commissione. Senza ombra di dubbio si tratta di un risultato politico straordinario, anche considerando la complessità della procedura legislativa europea e la delicatezza della materia, che tocca una questione così sensibile per la sovranità nazionale quale il presidio delle frontiere.

In realtà, l’idea di creare una vera e propria polizia europea delle frontiere circola da molto tempo, fino al punto che nel 2011, in occasione di uno degli emendamenti del regolamento istitutivo della vecchia Frontex, si era esplicitamente previsto che in occasione delle valutazioni periodiche sull’attività dell’agenzia si dovesse anche considerare “la fattibilità della creazione di un sistema europeo di guardie di frontiera” (art. 33(2bis) regolamento n. 2007/2004). In ossequio a tale disposizione, la Commissione aveva richiesto uno studio di fattibilità sull’argomento ad Unysis, una società di consulenza privata. Lo studio, pubblicato infine nel 2015 immaginava un passaggio ad una gestione interamente sovranazionale delle frontiere in tre fasi:

a) una prima fase orientata più al rafforzamento strutturale di Frontex e all’utilizzo ottimale degli strumenti legali già esistenti;

b) una seconda fase da avviarsi a partire dal 2020 nel corso della quale passare ad un modello di “responsabilità condivisa” nella gestione delle frontiere, secondo una logica che avrebbe visto i paesi membri mantenere il controllo nella situazione ordinaria e Frontex assumere la responsabilità diretta della gestione delle frontiere nel caso di quelle che lo studio definiva “hotspot situations”;

c) una terza fase da lanciare a partire dal 2030, che avrebbe infine portato ad una completa integrazione a livello europeo delle attività di controllo della frontiera e, dunque, alla nascita di un vero e proprio “European Border Corps”, sotto la guida di un “Commander in Chief” scelto dal Consiglio europeo.

Fino a quel momento tanto il dibattito politico che i documenti ufficiali pubblicati a livello europeo sembravano prefigurare un’evoluzione di Frontex conforme al disegno tracciato da Unysis, la quale aveva del resto registrato una certa reticenza da parte degli Stati membri a passare ad un modello di gestione centralizzata e sovranazionale della frontiera e una chiara preferenza per il rafforzamento della struttura già esistente. In particolare, le linee politiche della presidenza Junker suggerivano che l’agenzia necessitasse di un rafforzamento in termini di mezzi e uomini a disposizione e che ciò servisse a potenziare le sue capacità di intervenire in supporto ai paesi membri che fronteggiavano una forte pressione migratoria. Durante tutti i primi sei mesi del 2015 poi, la discussione si era concentrata soprattutto sulla necessità di potenziare le missioni Triton e Poseidon, al fine di renderle capaci di svolgere attività di ricerca e soccorso paragonabili a quelle svolte per tutto il 2014 dall’operazione Mare Nostrum nel Canale di Sicilia.

Il dibattito sul rafforzamento di Frontex era insomma attraversato dalla retorica degli imperativi umanitari, cui si accompagnava quella della solidarietà ai paesi membri più esposti all’afflusso di migrati e profughi, secondo una logica che troviamo ancora perfettamente replicata nell’Agenda europea sulle migrazioni, adottata nel maggio 2015 a poche settimane dall’ennesimo grave naufragio nelle acque del Mediterraneo.

“L’Europa non può restare con le mani in mano di fronte alla perdita di vite umane. Le attività di ricerca e soccorso saranno intensificate fino a ripristinare il livello di intervento che garantiva l’operazione italiana Mare Nostrum. Per triplicare la dotazione delle operazioni congiunte Triton e Poseidon di Frontex, la Commissione ha già presentato un bilancio rettificativo per il 2015 e entro maggio presenterà anche la proposta per il 2016. Questo incremento, se attuato, permetterà di aumentare sia la capacità che la portata geografica delle operazioni, in modo che Frontex possa svolgere il suo doppio ruolo: da un lato coordinare il sostegno operativo alle frontiere degli Stati membri sotto pressione, dall’altro aiutare a salvare i migranti in mare. In parallelo a quest’aumento dei fondi UE, vari Stati membri stanno anche dispiegando mezzi (navali e aerei). Si assiste oggi a un apprezzato slancio di solidarietà che dovrà essere mantenuto finché durerà la pressione migratoria” (COM(2015)240: 4).

L’agenda europea sulle migrazioni apriva però anche una nuova fase sperimentale, in cui prendeva in qualche misura corpo il modello di intervento in quelle che il rapporto Unysis definiva “hotspot situations”. È infatti con questo documento che la Commissione lanciava per la prima volta l’idea di quello che sarà conosciuto come “hotspot approach” e lo faceva senza tuttavia prevedere una revisione della base legale che regola l’azione delle agenzie coinvolte, ma adottando una sequenza di documenti di indirizzo politico amministrativo che ritagliavano un ruolo inedito per l’agenzia Frontex nel processo di identificazione dei migranti che sbarcano sul suolo europeo e nelle attività di rimpatrio di coloro che non hanno titolo per richiedere protezione internazionale (cfr. oltre a COM(2015)240: 6; anche COM(2015)453: 8 e COM(2015)490: 5).

Nell’agenda sulle migrazioni, tuttavia, la creazione di un autentico sistema europeo di guardie di frontiera in grado di fare del controllo delle frontiere una “responsabilità condivisa” (COM(2015)240: 19), era ancora annunciato senza una chiara tempistica, quasi che si trattasse di un obiettivo a medio lungo termine, così come immaginato nello studio Unysis. L’estate 2015 avrebbe tuttavia cambiato completamente lo scenario politico, inducendo la Commissione europea ad accelerare il processo di riforma di Frontex. Nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il 9 settembre 2015, il presidente della Commissione Junker annunciava infatti l’imminente presentazione di una “ambiziosa” proposta sulla creazione di una Guardia costiera e di frontiera europea. Non era più tempo per business as usual, il crescente afflusso di profughi e migranti verso le frontiere meridionali d’Europa lasciava supporre che il rafforzamento delle operazioni congiunte Triton e Poseidon e il lancio dell’approccio hotspot non sarebbero stati sufficienti a gestire la situazione. “La crisi ha dimostrato”, scriveva la Commissione, “che al di là delle misure immediate, dobbiamo ripensare radicalmente il modo di gestire le nostre frontiere esterne comuni” (COM(2015)610: 13).

La risposta del Consiglio europeo fu da subito possibilista, anche se inizialmente piuttosto cauta. I capi di stato e di governo dei paesi membri riunitisi il 15 e il 16 ottobre 2015, pur aprendo la strada ad una discussione sulla creazione di un sistema di guardia costiera e di frontiera europea, suggerivano che le proposte della Commissione in tal senso dovessero essere comunque conformi “alla ripartizione delle competenze a norma del trattato, nel pieno rispetto della competenza nazionale degli Stati membri”. Era chiaro che qualsiasi proposta della Commissione avrebbe dovuto vincere la resistenza dei paesi membri, restii a cedere sovranità muovendo in direzione di un autentico sistema europeo di gestione delle frontiere. Non sarebbe stato di certo l’argomento umanitario, che ancora attraversava il discorso di Junker al Parlamento europeo, o la retorica della solidarietà ai paesi in difficoltà nella gestione dell’afflusso di migranti, che aveva accompagnato il rafforzamento delle operazioni congiunte Triton e Poseidon, a vincere lo scetticismo dei paesi membri. Perché una rivoluzione come quella annunciata dalla Commissione potesse incontrare il sostegno politico necessario ad essere approvata nella complessa procedura legislativa europea era necessario fare appello ad argomenti più forti, in grado di far presa maggiormente sull’opinione pubblica. Era necessario insomma presentare la crisi migratoria non tanto come una semplice crisi umanitaria, ma come una crisi esistenziale per l’Europa, una crisi in grado di mettere in pericolo l’esistenza stessa dell’Unione minacciando una delle sue acquisizioni fondamentali: lo spazio di libera circolazione.

La proposta della Commissione è stata infine pubblicata il 15 dicembre 2015, dopo settimane in cui l’opinione pubblica europea ha assistito ad un autentico spettacolo politico che annunciava la “fine di Schengen”. Uno spettacolo inscenato dai paesi membri che hanno riattivato i controlli alle loro frontiere interne cui la Commissione, pur avendone i mezzi, non ha saputo né voluto opporre alcun argine. Piuttosto, essa ha cercato di capitalizzare le azioni unilaterali di paesi come Austria, Germania, Danimarca, Svezia, imputando il precipitare degli eventi alla incapacità o mancanza di volontà di controllare adeguatamente le frontiere esterne dello spazio di libera circolazione dei paesi situati lungo il margine meridionale d’Europa. Quello che appariva come un evidente scontro politico sulla distribuzione dell’onere dell’accoglienza, è stato così agevolmente trasformato in una crisi securitaria in grado di minacciare l’esistenza dello spazio di libera circolazione Schengen. La securitarizzazione della crisi migratoria era ancora più evidente poi laddove si facevano riferimenti alla necessità di rafforzare i controlli anche in funzione di prevenzione del terrorismo, insinuando il dubbio che in mezzo ai profughi si potessero infiltrare terroristi e foreign fighters di ritorno.

“Tra gennaio e novembre 2015 sono stati rilevati più di 1,5 milioni di attraversamenti illegali delle frontiere, che rappresentano il picco massimo mai raggiunto di arrivi di migranti nell’UE. Cittadini di paesi terzi sono stati in grado di attraversare illegalmente le frontiere esterne dell’UE per poi continuare il loro viaggio in tutta l’UE, senza essere stati prima identificati, registrati e soggetti a controlli di sicurezza adeguati. L’entità di questi enormi movimenti secondari di migranti all’interno dell’UE ha seriamente messo in discussione la coerenza dello spazio Schengen e, di conseguenza, alcuni Stati membri hanno scelto di reintrodurre controlli temporanei alle frontiere interne – una situazione che non può e non deve durare a lungo. Alle preoccupazioni dei cittadini si sono aggiunte quelle in materia di sicurezza in seguito agli attacchi terroristici di quest’anno e al fenomeno dei combattenti terroristi stranieri. È sempre più evidente che le sfide rappresentate da questi movimenti non possono essere affrontate adeguatamente dai singoli Stati membri con azioni non coordinate. Abbiamo bisogno di norme a livello dell’Unione e di un sistema unitario di responsabilità condivisa per la gestione delle frontiere esterne” (COM(2015)673: 2).

Tali argomenti hanno impresso un inedito senso d’urgenza alla proposta, al punto che il medesimo Consiglio europeo annunziò l’intenzione di voler raggiungere un accordo sulla questione entro il mese di giugno 2016. Nel corso dei mesi successivi non vi è stato molto spazio per l’emergere e l’imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica di diagnosi alternative, come quelle timidamente avanzate dal Comitato economico e sociale europeo, che sottolineava come qualsiasi tentativo di tornare ad un funzionamento normale dello spazio Schengen dovesse inevitabilmente passare da una riforma del sistema di accoglienza e delle regole di Dublino. Piuttosto, la Commissione ha più volte ribadito come un ritorno alla normalità nel funzionamento dello spazio di libera circolazione passasse necessariamente dalla rapida approvazione della sua proposta sulla Guardia costiera e di frontiera europea, giungendo infine a proporre al Consiglio l’adozione di una decisione che autorizzasse i paesi membri a mantenere attivi per altri sei mesi i controlli alle frontiere interne in attesa che, con l’entrata in vigore della riforma di Frontex, le gravi deficienze nella gestione delle frontiere esterne potessero essere definitivamente superate (COM(2016)275: 8).

La proposta della Commissione europea è stata infine approvata nei tempi previsti, anche se con significative modifiche rispetto al testo originariamente proposto. Che si tratti di un’autentica rivoluzione rispetto al passato è legittimo dubitare, quel che è certo è che negli ultimi mesi abbiamo assistito all’affermarsi della discutibile idea che l’Europa possa essere salvata solo rafforzando i suoi poteri di polizia, non tanto ampliando le sua capacità di accoglienza e protezione dei diritti di profughi e rifugiati.