Per la libertà di movimento, per i diritti di cittadinanza

Rapporto 2016 sulla protezione internazionale: fosche ombre si allungano sull’Europa e sull’Italia

I dati pubblicati nel recentissimo rapporto sulla protezione internazionale meritano una lettura complessiva

Photo credit: Saverio Serravezza (Isola di Lesvos, 2016)

schermata_del_2016-11-29_09_05_42.jpg
Non c’è dubbio che il 2015, almeno sulla complessa questione dell’immigrazione, abbia segnato uno spartiacque decisivo per il vecchio continente, mettendo ancora una volta a nudo tutte le debolezze dell’Unione Europea, come quasi sempre accade quando le sue istituzioni sono chiamate ad agire oltre le dinamiche economiche e tutelare i diritti umani.

Messe sotto pressione da una crisi umanitaria senza precedenti, che rispetto al 2014 ha visto più che raddoppiate le richieste di protezione internazionale salite a 1.393.350, gli organi comunitari hanno tentato di dare risposte – spesso inseguendo le solite logiche emergenziali – che si sono irrimediabilmente scontrate con il rifiuto opposto da molti governi nazionali a tradurre in un impegno concreto le disposizioni contenute nella nuova Agenda Europea sull’immigrazione, presentata a maggio 2015.

Quello che avrebbe dovuto essere il punto qualificante della proposta, e cioè l’equa ripartizione dei migranti arrivati in Europa soprattutto attraverso le coste greche e italiane per dare corso al principio di solidarietà tra i Paesi dell’Unione, ha determinato un effetto contrario a quello auspicato. Infatti, non solo nel settembre successivo il consiglio dei ministri dell’Ue è stato costretto ad approvare a maggioranza qualificata l’introduzione di un meccanismo ponderato per la redistribuzione dei migranti che non ha mai trovato una significativa applicazione, ma l’emergenza umanitaria ha finito con il mettere a dura prova la tenuta dell’Unione stessa.

Ciò è emerso, in particolare, con l’esplodere del fenomeno migratorio lungo la rotta del Mediterraneo orientale, dalla Turchia verso la Grecia, su cui sono transitati oltre 885 mila migranti (numero sedici volte maggiore a quello del 2014), e lungo la rotta balcanica, il tragitto via terra in direzione del nord Europa attraverso la Grecia, la Macedonia, la Bulgaria, la Serbia, la Croazia e la Slovenia, che ha visto il passaggio di 764 mila migranti, da marzo 2016 formalmente interrotto dopo gli ambigui accordi siglati tra l’Ue e la Turchia.

schermata_del_2016-11-29_09_04_43.jpg
A tali numeri devono aggiungersi quelli della classica rotta del Mediterraneo centrale, dalla Libia verso l’Italia, che nel 2015 ha registrato una lieve flessione passando da 170 mila a 153 mila sbarchi, e quelli della via circolare dall’Albania e dalla Grecia, della via occidentale dell’Africa, della rotta del Mar Nero e della rotta artica, che complessivamente non hanno raggiunto le 20 mila unità.

Tali fenomeni, a dispetto degli intenti solidaristici e unitari dell’Agenda europea, e nonostante l’iniziale apertura della Germania ai profughi siriani, hanno portato a una deflagrazione della fragile politica comunitaria in una miriade di scelte nazionali, che hanno interessato sia i paesi appartenenti che quelli fuori l’Unione, sulla base di un unico minimo comune denominatore: lo sbarramento all’accesso dei migranti nei rispettivi territori nazionali.
Il risultato? Ben 14 sospensioni del trattato di Schengen, la costruzione di muri in Ungheria, Serbia, Slovenia, Macedonia e Francia, e una costante crescita delle violazioni dei diritti umani. Un vero e proprio trauma, aggravato dalla crescita dei movimenti e dei partiti dell’estrema destra xenofoba e, ancor di più, dal materializzarsi dei rischi di disgregazione dopo il successo della Brexit il 23 giugno, al referendum sulla permanenza in Europa del Regno Unito, del quale proprio il tema dell’immigrazione aveva costituito uno dei principali terreni di scontro.

Tali fibrillazioni acuiscono le fosche ombre che, è facile prevederlo, si allungheranno sull’Europa già a partire dai prossimi mesi, e in particolare su Italia e Grecia, che rischiano di diventare degli immensi hotspot. Se, infatti, nel paese ellenico la gestione della domande può dirsi già de facto commissariata dalla supervisione assegnata agli ufficiali di Frontex, per l’Italia, che la chiusura delle frontiere sta trasformando sempre di più in paese d’approdo anziché di transito, cresce il timore per una paventata emergenza umanitaria dagli esiti imprevedibili, che coniugandosi ai guasti sociali prodotti dalle politiche economiche improntate all’austerity del governo Renzi, potrebbe moltiplicare gli episodi di razzismo e intolleranza (come insegna il recentissimo caso di Goro) e far slittare ancora più a destra il Paese.

In questo senso, un primo segnale arriva dai dati del Rapporto internazionale sulla protezione internazionale 2016 redatto da Anci, Caritas, Cittalia, Fondazione Migrantes e Servizio centrale Sprar. Se è vero infatti, come si è già detto, che il 2015 ha fatto registrare un lieve calo degli sbarchi sulle coste italiane, la cifra resta significativa alla luce dell’esponenziale aumento degli ingressi attraverso la rotta balcanica e quella del Mediterraneo orientale.

Nel dettaglio, questa è la fotografia scattata dal Rapporto sul 2015. Complessivamente i minori giunti in Italia sono stati 16.478 (pari al 10,7% del totale dei migranti sbarcati, in diminuzione rispetto al 2014 quando erano il 15,4%), di cui la maggior parte (12.360, il 75% del totale) sono arrivati da soli e la restante parte in compagnia di almeno un adulto (4.118). La maggior parte dei nuovi arrivati provengono dall’Eritrea (39.162 pari al 25,4% del totale) e dalla Nigeria (22.237); seguono somali (12.433), sudanesi (8.932) e gambiani (8.454).

I siriani, che nel 2015 hanno seguito prevalentemente le rotte del Mediterraneo orientale e dei Balcani, rappresentano solo la sesta nazionalità (7.448) mentre nel 2014 si collocavano al primo posto (42.323).

Ma ancor più significativi sono i numeri dei primi dieci mesi del 2016, che hanno visto salire fino a quota 159.432 la cifra degli sbarchi (+13% rispetto al dato complessivo dell’anno precedente) di cui 19.429 minori stranieri non accompagnati (pari al 12,1%).
schermata_del_2016-11-29_09_04_53.jpg
A fronte di questi arrivi, nel 2015 le domande di protezione internazionale presentate in Italia sono state 83.970 (+32% rispetto al 2014), di cui l’88,5% da parte di uomini e il 4,7% costituito da minori stranieri non accompagnati (3.959 casi). Le prime cinque nazionalità di richiedenti asilo risultano essere Nigeria, Pakistan, Gambia, Senegal e Bangladesh e corrispondono a circa il 60% del totale. Inoltre, nei primi sei mesi del 2016 le domande sono state 53.729, il 64% in più rispetto allo stesso periodo del 2015.

In questo quadro, salta subito all’occhio come la gestione del sistema di accoglienza italiano risulti fortemente inadeguato a gestire tale fenomeno, destinato ad ampliarsi nella sua complessa dimensione.

A dimostrarlo sono le decisioni assunte dalle Commissioni territoriali che nel 2015, su oltre 71 mila istanze esaminate, ha riconosciuto una forma di protezione internazionale solo in 13.780 casi (19,4% contro 32% del 2014). In particolare, è stato concesso lo status di rifugiato a 3.555 richiedenti (5% contro il 10% dell’anno precedente) mentre la protezione sussidiaria è stata accordata a 10.225 casi (14,4% contro 22%). Sommando a queste le 15.768 persone a cui è stato concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari (pari al 22,2% contro il 28% del 2014), l’esito positivo delle domande risulta pari al 41,5% (la quota maggiore di esiti positivi è relativa agli afghani, 95,2%, agli ucraini, 65,5%, ai pakistani, 44,3%, e agli ivoriani, 41,7%).

Un dato in netta diminuzione rispetto al 60% del 2014, che colloca l’Italia al di sotto della media europea (42,9%). Rispetto ai primi dieci paesi dell’Ue per numero di domande ricevute, l’Italia si pone dietro a Paesi Bassi (79,1%), Austria (67,8%), Svezia (60%), Finlandia (57,3%) e Germania (43,2%); peggio hanno fatto solo Belgio (40,1%), Regno Unito (35%), Francia (23,1%) e Ungheria (14%).

Del resto, il trend negativo tende drammaticamente ad aumentare se si guarda al primo semestre del 2016, dove su 49.479 domande esaminate, il 59,6% sono culminate nel non riconoscimento di alcuna forma di protezione (contro il 49% relativo allo stesso periodo dell’anno precedente).

La debolezza del sistema nazionale di asilo, peraltro amplificata da un apparato legislativo che in corrispondenza dell’aumento dei dinieghi alle richieste di protezione continua a produrre clandestinità, è evidenziata anche dalle crescenti sofferenze delle strutture di accoglienza e dalla profonda disomogeneità nella ripartizione territoriale che vede impegnati su questo fronte appen 2.600 degli oltre ottomila comuni italiani.
schermata_del_2016-11-29_09_04_25.jpg
Al 31 dicembre 2015 i migranti complessivamente presenti nelle varie strutture di accoglienza erano 114.400 (+64% rispetto allo stesso periodo del 2014), così distribuiti: 7.394 nelle strutture temporanee Cara, Cda e Cpsa, 76.683 nei Centri di accoglienza straordinaria, 30.300 nei centri Sprar. Rispetto alle quote di accoglienza nei Cas, la maggior parte dei migranti è in Lombardia (16,3%), Veneto (9,9%), Piemonte (9,1%) e Campania (9%), mentre le strutture Cara, Cda e Cpsa sono prevalentemente in Sicilia (45,8%).

Relativamente invece alle presenze di richiedenti asilo e rifugiati nei centri Sprar, sono il Lazio e la Sicilia a ospitarne il numero maggiore (22,4% e 20,1%). Tali dati, già di per sé significativi, salgono sensibilmente già nel primo semestre del 2016: al 30 giugno, i migranti presenti nelle diverse strutture erano 135.045 (96.701 nelle strutture temporanee, 14.848 nei centri di prima accoglienza e hotspote 23.496 nei centri SPRAR), mentre a fine ottobre 2016 raggiungevano già la cifra di 171.938, di cui 133.727 nelle strutture temporanee (pari al 77,7% del totale), 14.015 (8,1%) nei centri di prima accoglienza, 1.225 (0,7%) negli hotspot e 22.971 (13,3%) nei centri Sprar.

Il Rapporto afferma che per far fronte alla crescente richiesta di accoglienza dei migranti, negli ultimi anni sono state predisposte strutture dedicate, le quali, dopo una fase iniziale di emergenza, sono state portate sempre più a sistema. Ciò è vero, ma non può essere ignorato il fatto che tali strutture offrano servizi piuttosto diversi tra loro per qualità ed efficacia, anche all’interno della medesima tipologia e, in particolare tra i Cas.

Di fronte di questa complessiva situazione che, in vista del prossimo anno, tenuto conto anche della forte instabilità del quadro geopolitico mondiale, definire esplosiva è eufemistico, appare non più rinviabile un incremento di azioni volte a ridisegnare le politiche dell’immigrazione italiane e superare modelli, già di per sé farraginosi, iniqui e inefficaci, resi ormai anacronistici dagli eventi.

Se dall’Europa, a fronte dell’esperienza accumulata nel 2015, sarebbe lecito attendersi l’immediata creazione di canali umanitari di ingresso, capaci anzitutto di salvare migliaia di vite e contenere, se non sradicare, il traffico dei mercanti di esseri umani, sul piano interno è estremamente urgente costruire un modello di accoglienza alternativo, a partire da due proposte che da tempo sono state avanzate da enti e associazioni che si occupano di migranti: il conferimento di visti per motivi di studio e di lavoro e la concessione della protezione umanitaria a chi ha attraversato il Mediterraneo.
Provvedimenti che, nell’interesse di una vera integrazione a vantaggio di tutti, consentirebbero di regolarizzare i migranti, sottraendoli dal vicolo cieco di una clandestinità fatta di microcriminalità, sfruttamento e precarietà esistenziale ed economica.

Simone Massacesi
Redazione Meltingpot

Simone Massacesi

Vivo ad Ancona e mi sono laureato in Storia contemporanea all’Università di Bologna. Dal 2010 sono giornalista pubblicista.